Il passaggio obbligato da Spalletti a Conte

L'Inter ha scelto l'allenatore giusto per osare, per andare oltre la stabilità.

L’arbitro ha appena fischiato la fine di Inter-Empoli, i nerazzurri hanno faticosamente raggiunto la Champions League dopo novanta e più minuti di agonia, eppure Luciano Spalletti rimane impassibile. Non esulta, si dirige compostamente verso i componenti della squadra arbitrale, li saluta e sfila verso gli spogliatoi. Un anno fa, nella stessa circostanza, alzava le braccia verso il cielo sopra l’Olimpico, liberando gioia e commozione. Stavolta, però, è cambiato il contesto: le settimane prima dell’epilogo della stagione sono state faticose per motivi personali e professionali, Spalletti ha gestito il dolore per la morte del fratello Marcello e i balbettii della sua Inter, che arrancava a pochi metri dal traguardo (un piazzamento-Champions). E perché il nome di Antonio Conte come suo successore si faceva sempre più insistente, ingombrante, realistico. E, infine, reale.

 

In quell’uscita di scena, così composta e sofferta, è sintetizzata l’avventura di Luciano Spalletti all’Inter. Il tecnico non saluta il pubblico perché protegge se stesso e il suo lavoro, come se volesse suggerire che non ritiene terminato il suo mandato, che la sua esperienza a Milano sarebbe potuta continuare e sarebbe andata sempre meglio. Ma c’è anche Spalletti che non rivendica alcun merito personale per l’obiettivo raggiunto, che mette l’Inter in primo piano nel momento della festa, che lascia i giocatori a raccogliere gli applausi del pubblico nonostante la sensazione (o meglio, la consapevolezza) che quella sarebbe stata l’ultima occasione per salutare i tifosi nerazzurri. Quei tifosi che ha cercato fin da subito di valorizzare e rappresentare, sottolineando ai media, in ogni occasione, la loro costante presenza sulle tribune del Meazza e richiamando la squadra al dovere di esserne all’altezza.

Ma l’uscita di scena composta è, per paradosso, anche la raffigurazione di ciò che l’Inter ha voluto cambiare scegliendo Conte. La linearità era la caratteristica di cui l’Inter aveva bisogno quando ha ingaggiato Spalletti e che due anni dopo, proprio grazie a quest’ultimo, pensa di aver trovato – alla luce della doppia qualificazione in Champions ottenuta sempre con il quarto posto e due bottini di punti simili (72 il primo anno, 69 il secondo). È solo che, una volta stabilito, il nuovo equilibrio è stato percepito come un limite impossibile da varcare senza cambiare chi questo limite lo ha fissato. È un pensiero motivato dal sapore agrodolce dell’ultimo biennio: in linea con le aspettative, eppure mai oltre; ottimo ma a tratti deludente; lineare come era richiesto che fosse, mai sopra le righe, come si sognava potesse essere.

Spalletti ha indirizzato l’Inter in un percorso, ma in quel percorso è rimasto. E quindi – naturalmente – non è stato esonerato perché ha eseguito il compito, ma perché non ha mai dato l’impressione di poter andare oltre. L’andamento della sua gestione è l’alibi della scelta dell’Inter. Quando Spalletti ha dovuto dare ordine, ovvero nella prima metà della prima stagione, ha ottenuto il massimo; quando invece ha provato a innovare la squadra, a spingerla verso l’evoluzione, ha riscontrato difficoltà. Ci ha provato durante l’inverno della prima stagione e nella prima parte dell’annata appena terminata, e l’impressione è che l’Inter sia cresciuta in termini di stabilità mentale e di capacità di contenere le avversità, ma meno di quanto ci si poteva aspettare sul piano del gioco.

E ancora, l’idea che giustifica il cambio di tecnico è che Spalletti, di fronte alla difficoltà dei suoi giocatori nella crescita, abbia preferito preservare piuttosto che innovare, ritenendo forse che potesse essere pericoloso farlo.Anche perché la grande scommessa del tecnico di Certaldo è andata persa: le fiches posizionate sui giocatori simbolo – Nainggolan, Icardi, Perisic, Vecino – non hanno portato i benefici sperati perché, a rotazione, proprio questi calciatori hanno deluso e compromesso le potenzialità dell’Inter. Spalletti, di fatto, ha costruito una squadra che non ha mai potuto sfoderare la sua massima espressione; e anche se le colpe non sono soltanto sue, è colui che ne ha pagato le conseguenze.

Ciò che si può imputare a Spalletti è che di fronte ad uno scenario avverso non abbia saputo reagire e trovare una contromossa. Il modulo è rimasto sempre il 4-2-3-1: di nuovo, è come se un cambio potesse minare l’equilibrio raggiunto dalla squadra, che dal suo punto di vista deve essere stato sottile. Non c’è stata (se non in rare occasioni, ma per contrapposizione agli avversari, mai per via di una scelta di principio) una virata verso un altro sistema, né un cambio di ruolo ad alcuni giocatori che in altre vesti avrebbero potuto dare nuova linfa la squadra – Vecino nel ruolo di trequartista, nel derby di ritorno ad esempio, è stato efficace, eppure è un esperimento a cui non è mai stato dato valore nonostante l’annata grigia di Nainggolan, e neppure è stato testato con convinzione il doppio centravanti Lautaro-Icardi.

La rinuncia di Spalletti ad un qualcosa in più, alla novità, all’invenzione, è stata costante nei due anni in nerazzurro. La sensazione è quella di aver avuto a che fare tecnico che ha più che altro organizzato, ma mai inventato qualcosa. L’amarezza finale nasce dal fatto che l’invenzione è parte del suo repertorio, eppure all’Inter non si è mai vista. In sostanza, il pregio della sua gestione – strutturare una squadra reduce da un susseguirsi di “anni zero”, o peggio, dall’assenza di progetti sportivi e societari, definendo dei punti fermi – ha portato benefici tali per cui alla lunga è diventato un difetto: la normalità di cui l’Inter aveva bisogno due anni fa è stata sostituita, nella mente della dirigenza e della proprietà, dall’ambizione e dalla volontà di accelerare l’andatura del progetto di crescita. Il fatto che Conte fosse libero ha chiuso il cerchio disegnato dai dirigenti nerazzurri.

Non è un caso che sia Antonio Conte l’uomo scelto dall’Inter: è per certi versi opposto a Spalletti. Se quest’ultimo tende a non caratterizzare in eccesso le sue squadre pur di valorizzare il talento dei giocatori a disposizione, l’ex Chelsea fa l’esatto contrario, personalizza fin da subito le sue formazioni, inserendo i calciatori in un gioco ultra-codificato che permette anche ai meno talentuosi di migliorare e, soprattutto, di rendere al massimo. È quindi una scelta di rottura. Conte rappresenta l’esigenza dell’Inter di migliorare subito, e siccome è uno specialista nell’aumentare il valore della rosa dall’interno, suggerisce anche che la società nerazzurra si è resa conto di non avere abbastanza tempo né risorse per migliorare la qualità, e che quest’ultima è stata probabilmente sopravvalutata. Ma Conte è anche un colpo in cui l’immagine gioca un parte fondamentale: sbarca a Milano con il curriculum del tecnico di massimo livello, dunque è il megafono scelto dalla proprietà Suning per proclamare la volontà di investire nell’Inter, e l’ambizione che ne consegue. In sostanza è anche uno strumento di propaganda sia interna (la proprietà comunica con i tifosi) che esterna (da Suning ai salotti del calcio europeo).

Il messaggio passa chiaro perché è amplificato dalle modalità con cui Conte è stato presentato (con una strategia studiata ad hoc da Inter Media House, il ramo dedicato alla comunicazione del club) e con cui è arrivato: l’Inter, per lui, rinuncia infatti ad un allenatore che ha raggiunto gli obiettivi prefissati e si dimostra in grado di convincere un top-manager probabilmente ambito anche da altri club, offrendogli uno stipendio verosimilmente molto alto (si parla di un triennale da 11 milioni a stagione) nonostante il suo predecessore possa rimanere a libro paga. Ma anche, più banalmente, l’Inter ingaggia Conte perché è una novità necessaria, non tanto per riaccendere l’entusiasmo nella squadra, ma per azzerare alcuni meccanismi che si erano ormai creati al suo interno, di cui è ormai inutile fornire l’elenco. Per la prima volta nel post-Triplete, l’Inter non ricomincia da zero. Riparte semmai dal punto in cui l’ha lasciata Spalletti. Solo ha deciso di farlo con un uomo nuovo al comando.