Il futuro del calcio australiano è la sua multiculturalità

La Nazionale olimpica è composta da molti giocatori emigrati da bambini, ed è un modello di integrazione che va più veloce e funziona meglio rispetto alla società civile.

La globalizzazione che vent’anni fa proruppe sulla scena mondiale aveva come narrazione cardine il libero spostamento di merci e persone per tutto il globo. Purtroppo, però, quella totale liberazione – uno dei dogmi fondanti della dottrina neoliberista di quegli anni – si è realizzata soltanto in un’unica direzione: le merci volano da un lato all’altro del pianeta, mentre le persone sono rimaste ferme, scarsamente libere e decisamente stucked – parola che i videogamers usano per dichiarare di essere rimasti bloccati in un bug del gioco. Le persone che si muovono sono un problema, e, invece di aprirsi, i confini dei nostri stati sono tornati a essere molto alti e difficilmente superabili per chi cerca una via di fuga da una vita senza speranza, e spesso viene rimandato indietro.

Nel XXI secolo. una delle nazioni che hanno innalzato di più le proprie barriere è stata l’Australia. A prima vista, pare di essere davanti a un controsenso storico, visto che è sempre stata terra di migrazione massiccia: dalla fine della seconda guerra mondiale si sono trasferiti lì tanti down under italiani, spagnoli, greci, balcanici, andando a comporre un florilegio di etnie che è la sua grande ricchezza. La situazione odierna è schizofrenica, perché se da una parte si accettano – seppur a numero chiuso – migranti «regolari e skillati», dall’altra sono stati bloccati gli ingressi per chi cerca di arrivare dal mare. I nuovi provvedimenti sono entrati in vigore nel 2013, quando fu lanciata la campagna “No Way”: le persone che cercano di entrare «clandestinamente» vengono ricollocate nei centri di detenzione sulle isole di Nauru e Papua Nuova Guinea, i cui governi arrivano a guadagnare 1.400 dollari australiani al giorno – circa 875 euro – per ogni migrante incarcerato. Questa chiusura, ispirata dalle politiche statunitensi, ha mobilitato l’UNHCR: l’organizzazione dell’ONU per i rifugiati politici ha ammonito ufficialmente il governo australiano dal proseguire in questa direzione.

Il paese, dunque, continua a inciampare su misure basilari di uguaglianza, in particolare quando si tratta di quel gruppo di persone che non gode di alcun diritto: i rifugiati. In questo fosco quadro sull’accoglienza, qualche piccola luce si è accesa, e sta diventando sempre più forte grazie al calcio, che in Australia è stato portato proprio dalle comunità arrivate nel XX secolo. Gli etnics clubs sono un esempio di come questo sport sia stato – e possa ancora essere – motore di integrazione e accoglienza. Pensiamo ai Marconi Stallions, la squadra fondata dagli italiani in cui sono cresciuti i fratelli Vieri, o ai Melbourne Knights, il club nato in seno alla comunità croata in cui ha iniziato a giocare una stella di valore internazionale come Mark Viduka.

Nell’ultima decade, sono le comunità di rifugiati africani ad alimentare questa luce, e in particolare tre ragazzi sud sudanesi, arrivati in Australia quando erano molto piccoli e diventati dei calciatori affermati. Il primo di loro è Thomas Deng, 23enne difensore centrale e capitano degli Olyroos, la Nazionale olimpica australiana a Tokyo 2020, che in questi giorni si sta giocando il passaggio alla fase a eliminazione diretta dopo aver battuto l’Argentina nella gara d’esordio. Alla fine della Coppa d’Asia U-23 del 2020, Deng ha firmato un contratto di due anni con gli Urawa Red Diamonds, squadra di punta della J-League giapponese: un notevole salto di qualità professionale e di vita per un bambino nato in Sud Sudan nel 1998 e trasferitosi in Australia nel 2004, quando aveva sei anni e nel suo Paese era già in corso una terribile guerra civile. Il padre rimase in Kenya per continuare il suo lavoro da pediatra con l’associazione Save the Children, finché nel 2007 non morì in uno scontro a fuoco, senza che la sua famiglia potesse mai parlarci di nuovo.

«La prima volta che sono sceso dall’aereo non sapevo cosa aspettarmi. A ripensarci oggi posso dire che sia stato probabilmente meglio così, perché arrivare totalmente inconsapevole di ciò che ci aspettava, ha forgiato il mio carattere». Queste le parole rilasciate da Deng al sito ufficiale di Football Australia, la Federcalcio locale.  Il capitano dell’olimpica australiana ha vissuto il razzismo fin dai primi giorni che è arrivato in Australia: «Nei primi tempi della nostra permanenza in Australia, mia madre mi mandava al supermercato per comprare un cartone di latte e i commessi mi seguivano per tutto il tempo, come se fossi lì per rubare qualcosa. Penso che sia la cosa peggiore che mi sia mai capitata. È stata una brutta sensazione. Ma non tutti gli australiani sono così, e ho imparato che non bisogna giudicare un libro dalla sua copertina».

Awar Mabil ha esordito con la Nazionale maggiore nel 2018; da allora, ha accumulato 17 presenze e quattro gol (Francois Nel/Getty Images)

Una storia similare è stata vissuta da Awer Mabil, amico fraterno di Deng con cui ha debuttato in Nazionale: è nato in un campo profughi in Kenya e si è spostato in Australia nel 2006 insieme alla famiglia, quando aveva undici anni. dalla Dal 2015 si è trasferito in Danimarca per giocare come ala nel Midtjylland, club vincitore di tre edizioni della Superliga e avversario dell’Atalanta nell’ultima edizione della Champions League. Mabil  è un calciatore che ha fatto il salto in Europa, e il cui sogno è arrivare a giocare il Mondiale con la maglia dell’Australia, eppure anche lui ha vissuto sulla sua pelle il razzismo della società australiana. In un’intervista rilasciata nel 2018 al Guardian, ha dichiarato che, quando era piccolo, «subire offese razziste in Australia era all’ordine del giorno». Nonostante tutti i soprusi subiti, ha spiegato che, secondo lui, «l’Australia non è un paese razzista, perché appartiene a tutti quelli che ci vivono e io sono orgoglioso di indossare la maglia della Nazionale. L’Australia ha dato a me e alla mia famiglia l’occasione di avere una seconda possibilità nella vita». Insomma, sentirsi parte integrante di una comunità è l’eredità che ti regala il luogo in ci sei cresciuto, quello stesso luogo che chiamerai casa.

L’ultimo di questa lista di calciatori è Ruon Tongyik, spostatosi a sei anni con la sua famiglia verso l’Australia. Difensore centrale e capitano dei Central Coast Mariners, squadra della A-League australiana, fa parte della rosa dell’olimpica australiana come fuori quota. Ha aderito al Black Lives Matter fin dalla sua nascita, esponendosi in prima persona: «Il movimento BLM mi tocca profondamente perché simboleggia la solidarietà. Non solo verso i neri o i bianchi, ma verso tutti i rifugiati provenienti da diverse parti del mondo», ha detto. Dietro di loro sono già pronti a esplodere Alou Kuol, trasferitosi a maggio allo Stoccarda in Bundesliga, e i due fratelli Toure, Mohamed e Al Assan, che giocano nell’Adelaide United. Il più giovane dei due, Mohamed, è un classe 2004 e pare destinato a un futuro radioso. L’Australia è una terra di grandi contraddizioni, ma che sta crescendo grazie alle comunità che si mescolano tra loro. Tutti questi calciatori amano il Paese che li ha accolti, sentono di appartenergli, e con orgoglio ne indossano la maglia della Nazionale. Il calcio è il grimaldello perfetto per rendere il nostro mondo davvero globale, per tutti. Sì, magari i calciatori sono dei privilegiati, ma restano sempre esseri umani. Proprio per questo: perché non possiamo trattare tutti gli altri come facciamo con loro?