Alessandro Mazzara, la tavola del debuttante

Intervista all'astro nascente dello skateboard italiano, protagonista ai Giochi, che ci porta dentro i meccanismi e i segreti di una delle new entry di Tokyo 2020.

Lo skateboard è individualità, creatività, diversità. Per strada o allo skatepark quello che conta non è essere il più veloce, quello con l’esecuzione pulita o il più bravo: conta essere unico, irripetibile, inimitabile. È meglio essere fuori da ogni parametro anziché stare negli schemi. Per questo lo skate non è solo uno sport, è oltre lo sport inteso come serie di gesti tecnici e atletici misurabili e calcolabili oggettivamente. In gara ci si sfida trick dopo trick, esibendosi in una coreografia, una line, supportata da una soundtrack a scelta dello skater, che deve dare il meglio di sé senza sbagliare mai, sfruttando l’ambiente circostante per creare la sequenza migliore possibile. È una competizione personale, nel senso che ognuno è in gara prima di tutto con se stesso. È da solo.

A Tokyo 2020 gli skater saranno per la prima volta protagonisti ai Giochi Olimpici: parteciperanno 40 atleti, divisi nelle specialità Street e Park, che si sfideranno in qualifiche, semifinali e finale. L’obiettivo è sorprendere i giudici il più possibile, provando anche a interpretare le loro preferenze, giocando sui gusti di chi deve giudicare. Nelle gare Street si riproduce lo scenario di strada, con tutto quello che serve per eseguire grind e ollie e tutto il resto. La modalità Park invece si svolgerà in uno skatepark realizzato ad hoc con profondità, rampe e curve. «Puoi entrare tre volte e hai 45 secondi ogni volta: fai quello che ti sei prefissato al meglio senza sbagliare. Poi se pensi che non sia abbastanza pesante, anche in base a quello che vedi dagli altri, ti prendi la libertà di cambiare in corsa qualche manovra», dice Alessandro Mazzara, che a Tokyo andrà per provare a prendersi la competizione Park.

Un’Olimpiade è una grande occasione per farsi conoscere, soprattutto per un ragazzo nato nel 2004 – arriverà alla manifestazione sportiva più importante di tutte a 17 anni – che con lo skate vorrebbe vivere e guadagnarsi da vivere: «Farò un bel po’ di manovre che non ho mai fatto prima e che non voglio spoilerare, si vedrà tutto a tempo debito. Faccio sempre un 540°, un giro per aria che non sbaglio mai, mi viene molto bene. Poi altre cose che dovrò decidere se e come fare in base a come saranno la competizione e a come sentirò lo skatepark», spiega.

Alessandro Mazzara si è fatto notare sulla scena internazionale già qualche anno fa – ha conquistato il primo posto alle Vert Finals Pro Skate 2017 nel Nass Festival di Bristol, a 13 anni – e fino a poco prima di partire per Tokyo non ha l’ansia del grande evento, non sente la pressione. Anzi, vive tutto con lo stesso spirito di quando ha iniziato: aveva 7 anni e si è ritrovato tavola in mano allo skatepark vicino casa, a Cinecittà, quasi per caso. Ci ha messo poco per sentire il talento, per capire di essere portato. Allora ha iniziato a costruire il suo percorso di crescita, che non vuole interrompere. «Queste Olimpiadi», dice «devono essere un punto di partenza, non di arrivo: un’opportunità per iniziare a fare dello skateboard qualcosa che mi dia da vivere. È il mio primo amore, e voglio farne un lavoro. Magari in America». 

C’è un motivo se l’altra sponda dell’Atlantico è un obiettivo così ambito: in Europa lo skateboard non ha grande visibilità, in Italia forse ancora meno che in altri Paesi del continente. Allora i Giochi diventano una vetrina, per Alessandro Mazzara e per tanti altri. «Le Olimpiadi danno visibilità a tutto lo sport. Grazie a questi grandi eventi si crea interesse, arrivano il pubblico e i contratti, quindi se vuoi vivere di skate comunque devi passare da queste grandi manifestazioni. Poi faranno avvicinare i giovani che non lo conoscono e faranno in modo che chi come me ha sempre avuto difficoltà ad allenarsi, per assenza di strutture, possa finalmente trovare nella sua città qualche skatepark», si augura Alessandro.

In Italia non ci sono molti spazi per skatare liberamente, per provare, allenarsi e migliorare. E se non ci sono le strutture è anche difficile trovare persone brave da guardare e sfidare e imitare, per imparare cose nuove. È anche per questo che nel circuito locale il livello delle competizioni non è alto, e un atleta olimpico come Alessandro Mazzara è già fuori scala. «Invece se vai in California», aggiunge Alessandro «basta passeggiare su un marciapiede qualsiasi per vedere due skatepark ai lati della strada, con quattro skater che fanno trick mostruosi». 

La parte più bella dello skate è la libertà, di e da qualsiasi cosa. Quando nel 2016 il comitato Olimpico Internazionale ha approvato l’aggiunta di baseball/softball, surf, skateboard, karate e arrampicata sportiva al programma ufficiale dei Giochi, molti skater hanno storto il naso: lo skate non può essere istituzionalizzato così, dicono, perché lo skate è arte, è una sottocultura, è un mondo altro. Lo skateboard si è infiltrato nel mainstream un poco alla volta negli ultimi decenni del secolo scorso. E come in tanti altri movimenti anti-autorità, non tutti i puristi hanno apprezzato l’evoluzione: per molti skater il loro mondo dovrebbe essere separato dal concetto classico di competizione con punti, premi, denaro in gioco. «Per me le Olimpiadi devono essere prese come un’opportunità per tutto il movimento, ma capisco le critiche perché in generale lo skater è uno che ama skatare in strada, senza troppe regole», spiega Alessandro. 

Poi aggiunge un dettaglio che gli piace particolarmente: «Per essere uno skater non hai bisogno di quel tipo di disciplina, quella maniacalità che siamo abituati a ricondurre ai grandi atleti del nuoto, dell’atletica, del tennis. Quindi non ti fa rinunciare a un sacco di cose, come uscire con gli amici, mangiare in libertà, tante piccole cose che per me sarebbero dei sacrifici». Lo scetticismo rispetto all’istituzionalizzazione dovuta ai Giochi è automatico, scontato in un certo senso. Soprattutto se una leggenda dello skate come Tony Hawk a primo impatto non sembrava del tutto convinto: nel 2019 disse che erano più le Olimpiadi ad aver bisogno del «fattore cool» dello skateboarding che non il contrario. Poi ha cambiato idea, in qualche modo, partecipando alla campagna “Stronger Together” organizzata dal Comitato Olimpico per promuovere Tokyo 2020.

Il fatto che lo skate arrivi alle Olimpiadi nell’edizione giapponese non è casuale. Per il Giappone lo skateboard è una di quelle cose importate nella seconda metà del Novecento dagli Stati Uniti, cioè dal Paese che a Tokyo ha imposto un po’ tutto, dalla Costituzione alla Coca Cola. Solo che in un Paese come il Giappone la sottocultura skate è il nadir di una società che fa del rigore, dell’educazione e dell’ordine il suo zenit. Se lo skateboard è dirompente, rumoroso, disordinato, la cultura dell’arcipelago asiatico impone cortesia e riservatezza. Dalle parti di Tokyo gli skater non sono particolarmente apprezzati, anzi per decenni sono rimasti nell’ombra, molto più nascosti e diffidenti che in altre parti del mondo. Una vera e propria controcultura. Non a caso oggi molti skater giapponesi temono che dopo le Olimpiadi possa esserci una nuova stretta da parte delle autorità: se lo skateboard diventa troppo popolare, al punto da diffondersi per le strade principali delle città, potrebbero essere inasprite multe e sanzioni per chi si muove in strada su tavoletta e rotelline. 

Solo che la crescita del movimento è già capillare: oggi in Giappone ci sono diverse centinaia di skatepark, costruiti in buona parte negli ultimi anni sull’hype delle Olimpiadi. E la popolarità cresce soprattutto tra le donne, che si impongono nei tanti eventi internazionali organizzati in tutta la nazione. A Tokyo 2020 i talenti casalinghi come Yuto Horigome e Misugu Okamoto (classe 2006) se la vedranno con il meglio che il mondo ha da offrire, a partire dai fenomeni statunitensi Nyjah Huston e Tom Schaar, fino alla giovanissima skater britannica Sky Brown, che gareggerà per la Union Jack a soli 13 anni. Tra loro proverà a inserirsi un giovane talento cresciuto sbucciandosi le ginocchia a Cinecittà. E chissà che non trovi la line corretta per portare l’Italia sul podio.

Da Undici n° 39
Foto di Piergiorgio Sorgetti