La resurrezione del volley italiano

Dopo la vittoria agli Europei femminili, anche la Nazionale maschile ha conquistato il titolo continentale: due storie di redenzione, coraggio, qualità.

La resurrezione dopo la caduta, l’estasi dopo il tormento. Si potrebbero sintetizzare così questi ultimi due mesi vissuti dalla pallavolo italiana, un movimento capace di tornare a vincere dopo aver accusato il colpo della doppia delusione olimpica. Proprio il volley, forse insieme alla pallanuoto, è stata la nota stonata più eclatante nella spedizione olimpica più gloriosa di sempre, per il nostro Paese: le ragazze guidate da Davide Mazzanti erano infatti una delle squadre candidate alla finale, in virtù dello status di vicecampionesse del mondo in carica, di un collettivo di alto profilo che, tra l’altro, poteva contare su Paola Egonu. La giocatrice più forte del mondo.

Pochissime volte, nel corso della sua storia, la Nazionale di pallavolo femminile si era presentata a un’Olimpiade con ambizioni così chiare e così fondate. Forse gli unici due precedenti risalgono ad Atene 2004, quando le Azzurre erano campionesse del mondo in carica, oppure a Pechino 2008, quando erano forti del primo successo in un Campionato Europeo – arrivato nel 2007. In entrambi i casi è andata malissimo: sia in Grecia che in Cina il torneo finì ai quarti di finale, dopo le sconfitte contro Cuba e Stati Uniti.

A Tokyo 2020 la storia si è ripetuta, l’Italia ha dovuto fare i conti con un’evidente stanchezza fisica e mentale, nascosta però dalla superbia e dall’eccesso di sicurezza. Così sono emersi difetti fino a quel momento poco considerati, quegli stessi difetti che poi hanno decretato il fallimento della spedizione. Per esempio la regia: ai Giochi, né Orro né Malinov si sono dimostrate all’altezza delle colleghe straniere; sono state palleggiatrici buone ma non eccezionali, e per di più sono state entrambe penalizzate da un’alternanza che, invece di portare imprevedibilità, ha tolto sicurezza alla squadra. Sylla, la banda più potente, è apparsa irriconoscibile, l’anello debole di un collettivo che ha potuto/dovuto affidarsi al giovane talento di Elena Pietrini. Ma è stata soprattutto Paola Egonu a deludere, a stupire in negativo, con errori a ripetizione, con una scarsa incisività a cui ha fatto da contraltare la grande Olimpiade disputata dalla sua nemica giurata, quella Tijana Boskovic che in molti ancora oggi le preferiscono.

Il fatto che lo stesso ct Mazzanti abbia sottolineato la scarsa concentrazione e l’atteggiamento immaturo delle sue ragazze è stata la prova provata di un approccio totalmente sbagliato al torneo olimpico. Lo 0-3 incassato contro la Serbia ai quarti, dopo le sconfitte contro Stati Uniti e la Cina nel girone, è stata però salutare. Pochi giorni dopo infatti, la Nazionale che si è presentata agli Europei era una squadra totalmente trasformata. Anche Mazzanti ha fatto tesoro degli errori: ha avuto un piglio maggiormente decisionista, ha ridisegnato priorità e equilibri in campo, ha saputo rispondere, a pochi giorni dal via, allo sfortunato incidente che ha impedito a Caterina Bosetti – tra le poche a salvarsi in Giappone – di prendere parte al torneo.

Certo, i risultati colti a Tokyo facevano pensare che non potessero esserci grandi speranze, in Serbia: con così poco tempo a disposizione, non si potevano correggere i difetti della Nazionale azzurra. E invece, quella stessa squadra ha ritrovato orgoglio e motivazione, ha ricominciato a giocare come sa. La fase a gironi è stata senza sbavature, poi sono arrivate le vittorie contro Belgio, Russia e Olanda. La finale del 4 settembre, il 3 a 1 inflitto alla Serbia in casa sua a Belgrado, ha avuto il sapore della liberazione. Anche perché proprio la Serbia era da anni lo spauracchio delle Azzurre: l’eliminazione di Tokyo è arrivata dopo altre due sconfitte molto dolorose, quella nella finale Mondiale 2018 e quella nella semifinale agli Europei di due anni fa. Il merito di questa redenzione va ascritto al ct Mazzanti, che ha optato per Orro titolare e ha saputo recuperare Sylla e soprattutto Paola Egonu, Mvp della finale di Belgrado: sono state proprio loro a trascinare le compagne, insieme a Cristina Chirichella – messa un po’ in disparte a Tokyo. Proprio il netto cambio di direzione rispetto a quanto avvenuto in Giappone e la rivincita presa nei confronti della Serbia rendono indimenticabile questo successo Europeo, il terzo della storia azzurra. È un trionfo incredibile, per come è stato ottenuto, per ciò che rappresenta. Perché ora il futuro si può guardare con rinnovato ottimismo, visto che queste atlete fortissime hanno dimostrato di aver compiuto l’ultimo step che gli serviva, che gli mancava: quello da squadra favorita a squadra vincente.

La Nazionale femminile di pallavolo ha nel suo palmarés tre Europei e un Mondiale, tutti conquistati dal 2002 – anno del titolo iridato – a oggi (Pedja Milosavljevic/AFP via Getty Images)

La vittoria dell’Italia maschile è stata molto diversa, quantomeno nelle dinamiche di partenza. Nel loro caso, parlare di miracolo sportivo è tutto tranne che retorico: se guardiamo all’ultimo decennio, infatti, il movimento italiano ha vissuto una situazione molto più incostante, alcune scelte della Federazione hanno causato il deperimento dei giovani, e nella Superlega – che resta il campionato più ambito al mondo – si percepisce un’eccessiva esterofilia. È per questo che molti giovani italiani non trovano spazio nei club, è per questo che Julio Velasco – lo storico ct della Generazione di Fenomeni – lancia da anni un allarme in vista del futuro: i giocatori di base sono sempre più staccati e lontani dalle eccellenze – che fanno un percorso a sé, non guidato, non comune.

Non a caso, viene da dire, l’ultima vittoria della Nazionale maschile risaliva al 2005: era l’Europeo giocato in casa, quello di Coach Montali, di Cisolla e Mastrangelo contro i carri armati russi. Da allora, sono arrivati alcuni bronzi e argenti di prestigio – tra cui quello di Rio 2016 – ma anche tanti giri a vuoto, diverse pessime figure. La sensazione era che la rosa fosse sempre un po’ stiracchiata, sempre in difficoltà in alcune zone del campo, con appena sette o otto titolari davvero credibili. Proprio il percorso a Rio 2016 può essere considerato un esempio perfetto, in questo senso: la Nazionale azzurra era molto forte, solo che era condizionata dalla panchina corta, e proprio per questo è stata costretta a cedere in finale contro un Brasile non irresistibile, con diversi giocatori infortunati costretti a restare in campo per mancanza di alternative. Anche a Tokyo è andata più o meno così: a lungo si è parlato di una penuria di schiacciatori, e infatti in Giappone l’Italia si è presentata con il redivivo Kovar, rinunciando a Lanza e relagando Daniele Lavia a un ruolo di supporto. Anche Zaytsev era in forma precaria, e quindi il torneo non poteva che finire molto presto: ai quarti, contro l’Argentina.

In soli 25 giorni, il nuovo ct Ferdinando De Giori ha dimostrato una volta di più perché deve essere considerato un allenatore tra i migliori del mondo. L’ex asso della Nazionale – campione del mondo nel 1990, 1994 e 1998 – ha dato un taglio netto col passato, ha investito totalmente su ragazzi di talento, molti dei quali passato per Club Italia – un’isola felice che, dal 2008, offre ai giovani più promettenti di crescere in A2. È proprio questo ad aver reso incredibile la vittoria dell’Italia: la nuova Nazionale è scesa in campo con soli due top player riconosciuti a livello internazionale, il palleggiatore Simone Giannelli (da anni uno dei migliori del mondo) e il libero Fabio Balaso, inspiegabilmente escluso dalla spedizione a Tokyo; inoltre, c’erano da metabolizzare il ritiro di Osmany Juantorena e l’assenza di Zaytsev per infortunio.

Come ha fatto l’Italia a sostituire due realizzatori così importanti? Semplice: ne ha trovati altri. Uno di questi, Alessandro Michieletto, 19enne mancino di 209 cm e figlio d’arte (suo padre è Riccardo Michieletto), aveva dimostrato già in Giappone di possedere una forza e una concretezza irreali. Anche il 21enne Lavia, l’altro posto 4, ha mostrato tutte le sue doti agli Europei. Al centro, dopo diversi anni, la Nazionale ha trovato nuovi talenti: Anzani – anche lui messo in disparte nel ciclo precedente – e poi Galassi e Ricci. Contro questa Italia, la Slovenia – guidata in panchina da Alberto Giuliani – è riuscita ad arrivare fino al tie-break della finale, si è dimostrata una squadra tosta, con tanti ottimi giocatori. Alla fine, però, De Giorgi ha compiuto il suo capolavoro pescando dalla panchina il 24enne Yuri Romanò: inserito in posto 2, Romanò ha completamente cambiato il corso del match. La cosa più sorprendente, se vogliamo anche assurda, è che Romanò giocava in A2 fino a pochi mesi fa, nell’Emma Villas, ed esordirà in A1 solo da ottobre, a Milano. Il che la dice lunga su quanto si debba cambiare, per non dilapidare l’enorme capitale di talento a disposizione della Nazionale. Proprio in virtù di questo, l’oro conquistato in Polonia va considerato come il principio di qualcosa, non certo come un atto finale. L’Italia, anche quella del volley, non è stata per troppo tempo un paese per giovani. Ed è stato un errore gravissimo: sono i risultati a dirlo.