Ronaldo, splendore e tragedia

Il Fenomeno compie 45 anni: è stato il primo campione globale e moderno, un tentativo di perfezione contaminato dall'umanità.

Come molti, penso anch’io che Ronaldo sia stato il primo esempio di campione globale moderno. Qualcosa di più vicino a Messi e Cristiano Ronado che a Maradona o Platini, per intenderci. Non tanto, o non solo, per le sue caratteristiche, ma perché è stato il primo giocatore per cui si poteva tifare a prescindere dalla squadra: una specie di monade del pallone con facoltà di convertire le masse al suo culto. “Per quale squadra tifi?”. “Tifo Ronaldo”, un dialogo simile tra ragazzini si è probabilmente verificato, così come si verificano oggi dialoghi simili con Messi e Cristiano.  L’importanza dell’immagine e del marketing, quindi, ma anche dei dettagli tecnici, più che dei numeri (vittorie, trofei, record).

È abbastanza strano andarsi a rivedere oggi le scene calcistiche del primo Luís Nazário da Lima Ronaldo italiano (il secondo, quello milanista, forse è meglio dimenticarlo). I gol più belli che ha segnato non sono in verità così belli. Al primo posto in quasi tutte le liste che si trovano su Youtube c’è quello segnato alla Lazio in finale di Coppa Uefa, il 6 maggio del 1998. È un gol che racchiude tutto: sbagliarlo sarebbe stato umiliante (Ronaldo è solo davanti al portiere) ed è soltanto un 3 a 0 che non serve a molto, e però il modo in cui lo segna, quella finta tripla, eseguita con il suo tipico ondeggiamento, lo consegna alla storia.

Il vero Ronaldo, insomma, si trova lontano dai gol. Nei dribbling vertiginosi che spesso non si concludono, in quelle palle allungate e rincorse, superando il difensore avversario di metri. Ronaldo è stato soprattutto quella velocità che sembrava marziana e che gli permetteva scelte e geometrie che ancora oggi sembrano di un altro mondo, appunto, ma con un sacco di lacune abbastanza impensabili per un fuoriclasse, come la sua comica incapacità nel gioco aereo. Noi italiani abbiamo conosciuto il suo meglio, che è durato pochissimo, due anni e qualcosa, prima degli infortuni, anche se, in verità, la sua carriera in termini di gol e trofei verrà coronata dal passaggio al Real Madrid dopo.

Da un punto di vista drammaturgico, Ronaldo assomiglia invece più ai campioni del passato che a quelli indistruttibili, sovrumani e quasi del tutto privi di conflitti del presente. Si porta appresso una faccia da bravo ragazzo, da bambino mai cresciuto, vanta origini povere ma non quelle disastrose e tipiche del calciatore brasiliano cresciuto nella favela. Nasce in un quartiere della piccola borghesia di Rio come Bento Ribeiro, e poi, dopo la solita trafila dei campetti  che lo porta fino al Cruzeiro, arriva in Europa a 18 anni, ma “solo” nel campionato olandese, al Psv. Ha un’espressione ingenua e, appunto, bambinesca ma nel suo dna narrativo è stata scritta anche una parte tragica. Vince due Mondiali (di cui uno, giovanissimo, senza giocare) e non così tanti titoli e coppe per un giocatore della sua caratura (ma in fondo anche nella carriera di Maradona latitano scudetti e coppe).

Due volte Pallone d’Oro (nel 1997 e nel 2002), Ronaldo ha vinto due Mondiali con il Brasile, una Coppa delle Coppe con il Barcellona, una Coppa Uefa con l’Inter e una Coppa Intercontinentale con il Real Madrid. IN carriera ha segnato 414 gol tra club e Nazionale brasiliana (Tim De Waele/Getty Images)

La parte tragica è fatta da un insieme di scene che consegnano il suo talento sovrannaturale alla disfatta. Il 13 luglio 1998, il giorno dopo la finale di Coppa del Mondo persa dal Brasile contro la Francia, quando fatica a scendere la scaletta dell’aereo che ha riportato la Seleçao in Brasile, ancora ammaccato da quell’attacco mai veramente chiarito (reazione agli antidolorifici? Epilessia? Crisi di panico?) che avrà come conseguenza il suo vagare come un fantasma durante la finale del torneo più importante.

C’è stato, poche settimane prima, il fallo da rigore non dato di Iuliano nella partita contro la Juve, in quel minuto di follia arbitrale che consegnerà l’Italia calcistica al populismo manettaro. C’è poi il secondo infortunio, nell’aprile del 2000, il ritorno in campo con la Lazio dopo una delicata operazione al ginocchio e molti mesi d’assenza, a sei minuti dal suo ingresso il crollo al limite dell’area. Riguardo alla Lazio e all’Olimpico, ci sarebbe da affidarsi al pensiero magico e considerarla una specie di maledizione per Ronaldo detto “il Fenomeno”, se si pensa che due anni dopo quella scena tragica, il 5 maggio del 2002, lo rivedremo, questa volta in panchina, in preda a una crisi di pianto.  Si può dire, senza troppo azzardo, insomma, che nessun calciatore dopo Ronaldo conterrà ascesa e discesa, gioia e tragedia, a una simile intensità, come se il Fenomeno fosse stato un prototipo del calciatore contemporaneo non ancora completamente riuscito, un tentativo di perfezione contaminato dall’umanità.

Da Undici n° 22