Stiamo facendo abbastanza contro il razzismo nello sport?

Il ritorno dei tifosi dopo la pandemia ha riaperto il dibattito: le punizioni per chi discrimina sono troppo morbide? E come viene gestito il problema nelle altre leghe, non soltanto calcistiche?

La pandemia ci aveva fatto incontrare l’unico lato positivo delle partite a porte chiuse: l’assenza di razzismo durante le partite di Serie A. Ora sono tornati i tifosi, e con loro anche insulti, versi e altre onomatopee. Come se il razzismo del calcio fosse un virus rimasto in incubazione mentre l’umanità combatteva il Sars-CoV-2. E se i vaccini ci fanno immaginare una vittoria sul virus vero, ci siamo dovuti ricordare che contro il razzismo, soprattutto quello delle tribune e delle curve, non abbiamo nemmeno le cure giuste. Bakayoko, Kessié e Maignan del Milan sono stati bersagli di insulti discriminatori, e proprio il portiere del Milan – in questo post su Instagram – si è chiesto se stiamo facendo abbastanza per combattere, per estirpare il razzismo dagli stadi. Le autorità del calcio non hanno reagito: non ci sono state segnalazioni da parte degli arbitri o degli ispettori. Ed è andata così anche per il sempreverde “Vesuvio lavali col fuoco” sentito durante Udinese-Napoli – poi il giudice sportivo ha comminato una multa di 10mila euro all’Udinese che, insomma, è davvero molto poco per produrre un effetto sul club, sui tifosi o chi per loro.

Per anni la Federazione, la Lega, i club e i giudici sportivi hanno avuto un approccio molto morbido, provando a minimizzare o a ignorare certi eventi. Tra gli esempi più recenti ci sono un Cagliari-Juventus del 2019, con i versi dei tifosi di casa nei confronti di Moise Kean giudicati non discriminatori, e le orecchie da mercante della Lazio quando i suoi tifosi diffondevano la foto di Anna Frank con la maglia della Roma. Si tratta di episodi che, solitamente, vengono considerati dei «casi isolati», se non fosse che l’Osservatorio del razzismo nel calcio abbia individuato 249 casi di razzismo negli stadi solamente per il quinquennio 2011-2016. Un po’ troppi per considerarli davvero isolati.

In Italia raramente si prendono provvedimenti nei confronti di singoli tifosi o dei gruppi organizzati. Il regolamento della Serie A prevede che, in caso di cori discriminatori, l’arbitro sospenda la partita – o la interrompa del tutto se i cori dovessero continuare – come da indicazioni delle istituzioni internazionali. La giustizia sportiva entra in gioco solo quando un episodio discriminatorio viene percepito dagli addetti durante una partita: in quel caso il giudice può comminare una sanzione economica al club o stabilire la chiusura di un settore dello stadio, o dell’intero impianto. Per il resto subentrano i club e la giustizia ordinaria. Quest’ultima punisce caso per caso, ma chiaramente interviene solo se sono stati commessi dei reati: il razzismo nei luoghi pubblici è punito con il Daspo, con una durata che può oscillare tra i sei e i dieci anni. La maggior parte dei casi, però, rientra in condotte aggressive, incivili, casi di razzismo meno palesi. E qui possono intervenire solo i club: la sanzione per la violazione del regolamento dell’impianto sportivo prevede infatti che la società vieti l’ingresso al tifoso. Ma, come sappiamo, i club sono restii a prendersi responsabilità di questo tipo.

Ci sono casi virtuosi: gli ultimi esempi positivi arrivano da Milan e Juventus: il club rossonero, dopo gli insulti a Bakayoko e Kessié, ha raccolto prove audio e video sfuggite agli ispettori federali, ha prodotto una sua documentazione, l’ha presentata alla Figc dimostrandole che certe operazioni non sono “scienza missilistica” e sono alla portata di un club, ovvero: possono essere intercettati della Federazione. Stessa cosa nel caso del portiere Maignan, insultato da spettatori nella curva juventina: l’uomo individuato come colpevole non potrà più entrare allo Juventus Stadium, con il provvedimento del club bianconero che ha anticipato anche il Daspo del giudice.

I risultati di Milan e Juventus ci dicono che le società possono avere un ruolo determinante contro il razzismo negli stadi. È vero che in Italia manca una cornice legislativa che responsabilizzi i club in questo senso, ma il grosso dell’onere dovrebbero sobbarcarselo le istituzioni, ovvero Federazioni. Magari incentivando (o costringendo) i club a seguire delle linee guida molto precise, ben definite. Per trovare esempi di un sistema più funzionante bisogna guardare al modello inglese: non che in Premier League e negli altri campionati della piramide britannica abbiano eliminato il razzismo dagli stadi, ma certi episodi hanno un’eco diversa, un’impatto e un impianto legislativo più duro, si prendono provvedimenti più efficaci delle multe ai club – strumento molto usato ad esempio in Spagna, con risultati scarsi. In Inghilterra i responsabili di comportamenti razzisti vengono sanzionati direttamente dalla Federazione con provvedimenti restrittivi, generalmente su segnalazione della polizia, ma le società possono stabilire ulteriori punizioni – multe, sospensione dell’abbonamento o della tessera socio. Negli stadi inglesi lanciare petardi, fare invasione di campo, fare cori razzisti sono tutti illeciti inquadrati come reato: la polizia può arrestare anche per violenza verbale, e i controlli avvengono con telecamere ai tornelli e sulle tribune, oltre che attraverso il lavoro degli steward. Ad esempio i due tifosi del Manchester City che nel 2018 riservarono insulti razzisti a Raheem Sterling hanno avuto un Daspo di cinque anni, e sono stati sospesi a vita dallo stadio dall’Etihad Stadium. Certo, neanche il modello inglese, così sofisticato e severo, riesce a rendere gli stadi delle bolle contro il razzismo. Ma proprio per questo, giusto quest’estate, la Premier League si è impegnata a inasprire le punizioni: i tifosi che si rendono protagonisti di abusi razzisti o di altre forme di comportamento discriminatorio saranno banditi da tutti i campi della Premier. Ma sembra ancora poco: se già Cesare Beccaria, nel XVIII secolo, ci invitava a maneggiare con cura il potere della deterrenza, le nuove punizioni del calcio inglese non garantiscono certo che Sterling o chi per lui possa sentirsi davvero a suo agio nelle prossime partite.

Anche gli sport americani, in questo senso, non sembrano stare particolarmente meglio: anche negli Stati Uniti gli episodi di razzismo e gli atteggiamenti aggressivi nei confronti degli atleti appartenenti a minoranze si ripetono con una frequenza troppo alta. Negli Usa il tema del razzismo ha radici diverse nella società, nella vita delle persone, nella quotidianità delle famiglie. E la polarizzazione della politica degli ultimi anni ha persino esasperato il dibattito pubblico. Un recente articolo di Sports Illustrated si chiedeva se lo sport sarebbe stato pronto a riaccogliere i tifosi urlanti sugli spalti di stadi e palazzetti in questa stagione: nell’articolo viene intervistato un professore dell’Indiana University, Edward Hirt, psicologo sociale che studia i tifosi sportivi: «È una situazione infiammabile», dice in merito al ruolo che può giocare il clima politico del Paese. «Non so se ci sia una bacchetta magica che permetta di aggirare questo ostacolo».

I riferimenti dell’articolo di Sports Illustrated sono soprattutto agli stadi di NFL e di MLB, dove il pubblico è tendenzialmente più conservatore. Ma non si può dire che la NBA sia poi così distante. Nel 2019, dopo aver discusso con i giocatori, la lega ha inasprito il suo codice di condotta per i fan: ha stabilito un nuovo protocollo che vieta non solo gli abusi razzisti, sessisti e omofobi, ma qualsiasi linguaggio denigratorio da parte dei fan che non sia legato al basket, instaurando una politica di tolleranza zero per comportamenti classificabili come abusi. Eppure anche nel basket americano, al ritorno dei tifosi sugli spalti, nell’ultima stagione abbiamo assistito a troppe scene spiacevoli. Addirittura lo scorso 26 maggio si sono verificati tre episodi simili in una sola notte di playoff: uno spettatore ha sputato su Trae Young al Madison Square Garden; un altro, a Philadelphia, ha lanciato popcorn a Russell Westbrook mentre rientrava negli spogliatoi; e tre tifosi degli Utah Jazz hanno insultato la famiglia di Ja Morant.

Moise Kean esulta dopo il gol segnato al Cagliari il 3 aprile 2019: dopo essere stato insultato con versi discriminatori nel corso della partita, l’attaccante della Juventus si è rivolto così al pubblico di casa (Enrico Locci/Getty Images)

In Italia, come nel resto d’Europa o negli Stati Uniti, il problema è che il razzismo è negli stadi e nei palazzetti perché è nelle strade, nelle case, nelle istituzioni. Gary Neville, dopo aver commentato un derby di Manchester con qualche insulto di troppo disse che il razzismo negli stadi inglesi peggiora perché segue l’andamento del Paese: «Boris Johnson diceva che le donne che indossano il burka sembrano cassette delle lettere, chiamava i neri “sorrisi d’anguria”, e poi è diventato primo ministro del Regno Unito». In Italia abbiamo avuto un vice-presidente del Senato che diceva che un ministro della Repubblica italiana di origini congolesi gli ricordava un orangutan. Non dobbiamo e neanche possiamo sorprenderci se, dopo i fatti di Cagliari di due anni fa, Bonucci arrivò a dire che Kean, in fondo, se l’era cercata, almeno un po’.

Se l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Ocse, che monitora periodicamente l’andamento dei crimini d’odio, per il 2019 certifica 1119 denunce del genere sul suolo italiano, e registra un trend crescente nell’ultimo quinquennio, è perché il problema del razzismo non è solo un problema del calcio: è di tutta la società, è un problema della politica, quindi è un problema del Paese e del suo futuro. Dire che servono cultura e istruzione di base, scuola e formazione e lavoro sui giovani è banale. Ma solo perché non ci sono modi per risolverla per decreto. È davvero l’unica soluzione possibile a lungo termine.