Mitologia di Walter Sabatini

Parole, cultura e follia di uno dei dirigenti più controversi e visionari del calcio italiano.

Walter Sabatini non è un dirigente sportivo. È uno stato dell’anima. È uno di quei pugili che vanno incontro all’avversario con la guardia bassa. Quei tipi umani di cui non puoi non innamorarti, proprio perché a volte prendono di quei colpi che non lasciano scampo. Ma in un modo o nell’altro si rialzano sempre. Sabatini somiglia a quegli sciatori che un tempo partivano dal cancelletto senza cappello né occhiali, segno della croce e via: loro e la montagna. È quei tennisti che appena possono, vanno a rete, magari col saltino, come faceva McEnroe. Perché sì, Walter Sabatini è un uomo di un’altra epoca. Maledetto. Romantico. Eccessivo. Bugiardo, anche se lui negherebbe.

Walter Sabatini è un uomo che è riuscito a oltrepassare la cronaca ed è entrato nella mitologia. E una volta lì, la dimensione non è più quella dei risultati e dei bilanci. Non sono più i trofei a misurarne la carriera. È lo Zeman dei dirigenti. Ne sei consapevole perché lo seguiresti anche se finisse in Serie C. Sai che ti giocheresti tutto su quel ragazzino di 17 anni che lui ha scovato chissà dove. Ti basta sentirlo parlare, con quella voce impastata da cui è raro, maledettamente raro, che venga fuori una banalità, una frase fatta. Magari dilata i silenzi ma non sarà mai tipo da due parole tanto per dirle. Non è tipo da “attimino”, per capirci. Walter Sabatini è quanto di più vicino alla complessità. È l’esatto contrario dei dirigenti automi che rilasciano dichiarazioni infarcite di niente che precedono, accompagnano e seguono le nostre partite.

Walter Sabatini è il colonnello Kurtz del calcio italiano. Lo ha attraversato dagli anni Settanta. Ed è in quell’Italia lontana che si è formato. Un uomo di un’altra epoca, appunto. Quando faceva il calciatore. E giocava nel Perugia. Lì ha incrociato Paolo Sollier, un personaggio oggi impossibile da spiegare. Salutava il pubblico col pugno chiuso. Era di estrema sinistra in un Paese che stava conoscendo il terrorismo. A Sabatini fece scoprire Cent’anni di solitudine. Perché Sabatini è uno che legge per davvero. Non come quei finti profeti dal successo effimero che ogni tanto salgono alla ribalta e millantano letture che non hanno mai nemmeno sfiorato. Sabatini è un rabdomante della vita. In tutti i suoi aspetti. Non solo la gloria, soprattutto i dolori. I graffi. L’esistenzialismo. Walter Sabatini è quell’uomo che conserva una sola fotografia. Scattata in aereo. Ai tempi del Perugia. Lui e Renato Curi che un giorno si accasciò in campo e non si rialzò più. «La conservo perché sembra che quella luce bianca lo inghiotta, e infatti così accadde», racconta con la voce sull’orlo delle lacrime.

È il Franco Califano del calcio. I guai se li è sempre andati a cercare. Ha lavorato con Lotito, con Zamparini. Ed è sempre andato via lui. Non vi tediamo con l’elenco dei calciatori che ha scovato. Però per Ilicic un’eccezione possiamo farla. Sabatini ha sempre scelto trascinato dalle emozioni. Un database zeppo di statistiche non gli farebbe mai battere il cuore. «Non sono contro la scienza, la modernità», disse con fare pasoliniano «ammiro la logica, ma se a dettare le scelte del mio lavoro è un programma, un software che tratta gli uomini come numeri e come pezzi di ricambio, io non ci sto. Se devo comprare qualcuno e sbilanciarmi, devono poter contare anche il mio occhio e la mia riflessione. Uno sciamano sa, per altre vie». E qui, un tempo, avrebbe aspirato lungamente la sua sigaretta.

Nel 2011 è finito a Roma dove ha lanciato la più impossibile delle sfide: stabilire un rapporto diretto con la piazza. Senza mai nascondersi. Ha pagato tutto, anche l’aver provato ad aprire gli occhi ai tifosi: «Non affezionatevi troppo ai giocatori». Gli hanno rinfacciato Iturbe, Lamela, Stekelenburg, persino Luis Enrique cacciato a furor di popolo con le stigmate dell’incapace. Ha avuto il torto di immaginare Roma come una capitale europea. Roma è caput mundi ma a modo suo, come piace a lei. Decisamente più Marchese del grillo che Mitteleuropa. Nel 2016, a ottobre, ha lasciato una squadra che sarebbe arrivata seconda con 87 punti in classifica. Con una rosa che a rileggerla mette i brividi: Alisson faceva il secondo di Szczesny; come difensori centrali c’erano Rüdiger, Vermaelen, Manolas; in attacco, un certo Salah accanto a un signore di nome Dzeko. Gli altri neanche li citiamo, non stiamo ad annoiarvi con Paredes, Nainggolan oltre a Totti e De Rossi. L’ossatura della Roma che l’anno dopo ha eliminato il Barcellona in Champions League. Quella squadra l’ha costruita Sabatini.

Su Youtube è facile trovare un suo confronto con i giornalisti della Capitale che lo processano per la carenza di terzini. E lui, senza indietreggiare, difende Digne e un certo Émerson Palmieri («di cui sentirete parlare»). È il guaio di chi capisce le situazioni con troppo anticipo. Il limite di persone come lui è che sono convinte che tutti possano comprendere le stesse cose, che in fondo è semplice. Non sanno che invece gli altri non ci arrivano e per questo si arrabbiano, si incattiviscono. Credono che tu li stia prendendo per i fondelli. Mentre l’unico peccato che stai commettendo è quello d’ingenuità.

La doppia operazione fatta con Marquinhos è forse il più grande capolavoro di Walter Sabatini sul mercato: l’ha portato alla Roma nel 2012 per tre milioni di euro, dodici mesi dopo l’ha rivenduto al Psg per una cifra dieci volte superiori. Oggi Marquinhos è il capitano del Psg e ha accumulato 60 presenze con la Nazionale brasiliana (Giuseppe Bellini/Getty Images)

Poi Sabatini ci marcia pure. È umano. Parliamo di una persona che ha dichiarato: «Ho sempre quest’ansia di andarmene. E non posso avere amici. Non sopporto le conseguenze dell’amicizia». Oppure, nel calcio bacchettone: «A me il sesso ha salvato la vita. Ho sempre fatto sesso disperato, quello che uno fa per attutire un dolore». Parole che nemmeno Rimbaud. Perché Sabatini gigioneggia, sa di dover nutrire un personaggio: «Ho il cervello di sinistra e il corpo di destra, sempre in conflitto». Ricorda l’amichevole di Fregene con Omar Sivori in campo: «La sua non era tecnica, era magia. Lo vedevo con le mani sui fianchi, pronto a insultare chi non gli avesse consegnato subito la palla. Un genio. Ecco, questo è il mio calcio». E chi gli vuoi dire a uno così? Come fai a non perdonargli di aver visto Sivori in Lamela, un po’ come l’alba dentro l’imbrunire.

Uno che nel 2016 ha messo nero su bianco che i calciatori «non sono di destra, sono qualunquisti. Il calcio attrae vanità, perché intorno al calcio ci sono nani e ballerine. Diventa una patologia, ti fa pensare che sia importante solo un calcio d’angolo». E ha aggiunto, inascoltato: «Oggi il calcio è malato di altre cose, le scommesse prima di tutte». Poi è pure furbo, a Roma si direbbe in altro modo, quando chiede scusa a Totti per essersi battuto in favore del suo ritiro: «Non volevo assistere al suo declino in campo, ma non capivo che invece lui si divertiva. Gli chiedo scusa», con Francesco dall’altra parte dello schermo, e all’indomani del documentario che, direbbe Spalletti, «è stato più su di me che su di lui».

Ma a Sabatini perdoni tutto. Dopo Roma, non ha più trovato un posto suo. Ha girovagato: Inter. Sampdoria, Bologna, saltando da Suning a Ferrero a Saputo. Niente. L’alchimia non si è più creata. La lampadina si è accesa a tratti. Come accade a tutti i grandi sul viale del tramonto, è alla ricerca dell’ultimo colpo. Dell’uscita di scena memorabile. Alla Casablanca. Che però nella vita reale resta quasi sempre una chimera. Se solo i Sabatini sapessero che la cronaca, nella mitologia, non ha alcuna importanza.