Vedere il calcio come Luis Alberto

Intervista al numero dieci della Lazio, uno dei calciatori più visionari, creativi e belli da veder giocare dell'intera Serie A.

C’è solo una qualità più complessa del saper giocare a calcio come Luis Alberto: saper vedere il calcio come Luis Alberto. È quella capacità di fare da spartiacque tra il caos e l’ordine – l’attesa e l’epifania, il lampo e la luce, l’assist e il gol. Quando sta per ricevere palla, qualcosa sta per succedere: un brivido, un misto di eccitazione e senso di urgenza, ci scorre lungo la schiena. È una suggestione irresistibile: il singolo calciatore che ha il potere di assoggettare al proprio volere ciò che accade in campo – normalmente gli basta una giocata, che sia un’apertura sul lato debole, oppure un filtrante tra le gambe della difesa, o anche una semplice finta di corpo per mandare fuori tempo la pressione avversaria.

È l’idea del numero dieci che resiste nel tempo e che si adatta all’evoluzione del gioco, preservando la sua essenza: l’inventiva, la padronanza del concetto di spazio-tempo, la maestria del sapere sempre qual è la cosa più giusta da fare. Nel tempo che abbiamo trascorso insieme per questa intervista, ho provato a capire da dove derivasse questa qualità, come l’avesse sviluppata e in che modo l’alleni: nulla di tutto questo – è un qualcosa che nasce dal di dentro, è un talento, un’attitudine. È soprattutto per questo che i numeri 10, da sempre, ci affascinano più di chiunque altro in campo: sono depositari di una scienza occulta, di una stregoneria calcistica spiazzante, eterea, bellissima.

Luis Alberto ha appena iniziato la sua sesta stagione con la maglia della Lazio: sta per compiere 29 anni, è nel pieno della sua maturità calcistica, che non è soltanto fisica, ma anche mentale. «Dopo tutto questo tempo è tutto più semplice», dice. «Sono più sereno in campo, avverto la fiducia che ho intorno, in campo, in allenamento, nello spogliatoio». Sa perfettamente di essere un giocatore importante, Luis Alberto, e anche se non pronuncia quella parola ne soppesa il significato. In Italia non è solo diventato quel calciatore di estro, fantasia e tecnica che le sue qualità facevano presagire fin da ragazzino, di quelli che orientano il corso della partita con le giocate, come dimostrano i 36 gol e i 51 assist in 177 partite con la Lazio (dati aggiornati a fine agosto); ha anche saputo elevare il suo livello diventando un giocatore preponderante, che sa come esercitare il controllo in campo. Esempio: nel suo debutto da titolare con Sarri in panchina, nella sfida di campionato contro lo Spezia, lo spagnolo ha servito tre assist e segnato un gol; ma è stato anche il secondo dei suoi per chilometri percorsi (poco più di 11mila metri) e quello che ha toccato più palloni dietro i centrali Acerbi e Patric (con 47 passaggi in avanti su un totale di 82: oltre il cinquanta per cento).

A tutto questo Luis Alberto c’è arrivato con la pazienza: nei primi mesi alla Lazio, fu etichettato come il classico oggetto misterioso, uno dei tanti stranieri di passaggio nel nostro campionato. «Ero arrivato l’ultimo giorno di mercato», ricorda. «In una stagione senza coppe europee, Inzaghi schierava in campionato sempre gli stessi undici. E poi, nel 4-3-3, penso che nemmeno lui sapeva dove mettermi. Perciò i primi tre-quattro mesi furono devastanti: è stato il momento più complicato della mia carriera. Avevo perso la testa, non volevo nemmeno andare ad allenarmi. Una roba che non mi era mai successa». Poi, racconta, è venuto in contatto con il mental coach Juan Campillo: in pochi mesi è passato dal sentimento odioso di chiudere con il calcio a tutt’altro spirito. «Con lui è cambiato tutto. Anche se continuavo a non giocare, tutti i miei compagni e lo staff dicevano che ero il migliore negli allenamenti».

In quel finale di stagione 2016/17, Luis Alberto trova il tempo di segnare il suo primo gol in biancoceleste, contro il Genoa, e poi di regalare una prestazione maiuscola, con due assist, in una trasferta a Firenze. Lampi di classe che segnano il suo destino calcistico: «A fine anno andai dal mister e gli dissi: ok, troviamo una soluzione, vado via. Per me qui è stato un anno di merda. E invece Inzaghi mi disse: no, non vai da nessuna parte. Cominciai a fare il regista dopo che Biglia se n’era andato: per me era bellissimo, prendevo palla e non c’era pressione. Sono passato in pochi mesi dall’andare via al giocare quasi duecento partite con la Lazio. Il calcio è così, in un giorno può cambiare tutto, nel bene e nel male».

È anche nel senso della conquista del proprio spazio, del proprio ruolo, del proprio status che sta il successo di Luis Alberto: il suo percorso calcistico – non sempre lineare, non sempre appagante – gli ha dato una percezione più ampia di quello che occorre per esprimersi ad alti livelli. Appena ventenne, Luis Alberto ebbe la grande occasione di giocare nel Liverpool: nella stagione precedente aveva incantato nel Barcellona B, segnando undici reti da trequartista oppure da esterno d’attacco. I Reds sborsarono circa otto milioni di euro, ma ad Anfield lo spagnolo si vide poco. Una scelta che Luis Alberto non rimpiange: «Quando ti chiama una squadra del genere, non puoi dire di no. In poco tempo ero passato dalla Serie B spagnola a una squadra che poteva vincere la Premier, con giocatori come Gerrard, Suárez, Sturridge. Ero passato a un calcio completamente diverso, ho capito che oltre la qualità tecnica avrei dovuto alzare il livello anche in tante altre cose. Certo, è vero: sarebbe andata in modo diverso se mi avessero chiamato in un altro momento, ma c’è chi butta quindici anni della propria carriera, io ne ho buttati un paio». Il Liverpool lo manda in prestito a Malaga, dove le cose non vanno benissimo, e poi al Deportivo, dove gioca una grande stagione. «Lì mi sono divertito tanto, in coppia con Lucas Pérez abbiamo fatto benissimo. Senza quell’esperienza, non sarei mai andato alla Lazio. Anzi, penso che sarei finito ben presto nel calcio».

Alla Lazio Luis Alberto ha trovato «una famiglia. Qui nello spogliatoio è facile fare gruppo, ce lo ha detto anche un compagno che è appena arrivato qui. È impossibile non ambientarsi, e poi qui ci sono gli stessi giocatori di quando sono arrivato. Con i vari Immobile, Milinkovic, Radu siamo sempre insieme». A cambiare, quest’anno, è l’allenatore: dopo le cinque stagioni e spiccioli di Simone Inzaghi, adesso sulla panchina biancoceleste siede Maurizio Sarri. «Inzaghi era un amico, un padre per tutti noi. Sarri invece ha una personalità diversa, più forte. Ha un’idea di gioco bellissima, l’abbiamo vista quando era a Napoli o a Empoli. Secondo me tra due, tre mesi la Lazio divertirà tanto. Non so se vinceremo qualcosa, ma di sicuro ci sarà da divertirsi. E per gli avversari sarà molto difficile: la nostra qualità è molto simile a quella del suo Napoli. Anzi, sotto alcuni aspetti posso dire che siamo anche migliori. Per ora il nostro obiettivo è arrivare tra le prime quattro, dobbiamo prendere tutti i punti possibili, sappiamo che siamo una squadra in costruzione. Abbiamo bisogno di capire tutto quello che ci chiede il mister, poi potremo fare grandi cose».

Possono cambiare l’identità di squadra, il credo tecnico, i compagni in campo, eppure Luis Alberto è uno di quei giocatori che trovi alla voce “irrinunciabile”: negli anni biancocelesti ha assaporato il campo in varie forme – trequartista, seconda punta, mezzala, e pure quella piccola parentesi da regista, come detto – sapendo adattare le sue qualità alle circostanze. Quando ripensa al suo pantheon calcistico personale, lo spagnolo almanacca: «Román (Riquelme, nda), Valerón, Zidane…». Tutti numeri dieci, che giocavano da dieci, dietro le punte. La stagione dei fantasisti dura ancora oggi, solo che nel frattempo ha subìto le fisiologiche evoluzioni del calcio: Luis Alberto ha aggiunto al suo bagaglio tecnico personale molte altre cose, che gli derivano dall’interpretare quel ruolo in diverse zone del campo. «Cosa cambia? Che ci sono sessanta, settanta metri da fare in più per arrivare alla porta avversaria. Ma il vantaggio è che, quando salti la pressione, poi hai davanti a te un’autostrada. Per come giochiamo noi, poi, è un compito che posso fare, con Milinkovic che gioca più avanzato visto che può farvalere la sua fisicità». La caratteristica a cui proprio non può rinunciare resta quella dell’assist: «È un qualcosa che mi è sempre appartenuto, mi piace tanto mandare i miei compagni in porta. A volte pur di fare un passaggio mi rendo conto di rinunciare a tirare da posizioni favorevoli…». Ciro Immobile ringrazia: «Da lui sto ancora aspettando il Rolex come ringraziamento (ride, nda). Va detto che per tutti i novanta minuti fa un grande lavoro di smarcamento per rompere le linee avversarie, così è più facile servirlo».

Mastica e consuma calcio in grande quantità, Luis Alberto. «De Bruyne è il miglior centrocampista che c’è, ma occhio a Pedri, è pazzesco, sono sicuro che arriverà a un livello altissimo. E non dimentichiamoci di Isco, quando sta bene…». E il calcio italiano? «Lo seguo molto. L’anno scorso per esempio mi piacevano Sassuolo e Spezia, De Zerbi e Italiano sono due allenatori che faranno molto bene. C’è tanta qualità in Serie A, altrimenti l’Italia non avrebbe vinto gli Europei. Quello che mi dà fastidio di questo campionato è che ci sono troppi campi non all’altezza, diventa difficile giocare. Papu Gómez, che ora è a Siviglia, mi diceva proprio questo: qui la palla va a duemila all’ora. In Italia, invece, è impossibile: fai un passaggio e prima che arrivi al compagno fa due, tre rimbalzi. Questo è un aspetto che la Serie A deve regolare al più presto».

Da Undici n° 40
Foto di Guido Gazzilli