Fabián Ruiz al centro del Napoli

Il centrocampista andaluso è cresciuto tantissimo, ed è stato messo nelle condizioni di giocare al meglio delle sue possibilità: oggi è il regista, la guida della squadra di Spalletti.

Quando vediamo un giocatore cerebrale come Fabián Ruiz – un giocatore che, cioè, esercita sulle partite un dominio mentale e psicologico prima ancora che tecnico e fisico – viene naturale chiedersi a cosa stia pensando, come riesca a tradurre l’intenzione in azione, a quale sia il percorso conscio o inconscio che, in pochi decimi di secondo. lo porta a scegliere una giocata anziché un’altra. Succede sempre così con i calciatori che colpiscono per l’eleganza e la compostezza della corsa, per la qualità dei fondamentali, per l’intelligenza degli smarcamenti o la contro-intuitività degli appoggi.

La leggerezza insita in ogni cosa che fanno e la semplicità che conferiscono anche al gesto tecnicamente più complesso sembrano essere la diretta conseguenza di una qualità di pensiero superiore, di un qualcosa non intellegibile per noi comuni mortali – che, per inciso, possiamo solo limitarci a osservare un gioco che, come ha detto Jorge Valdano, «è progredito come il traffico: prima circolare era facile, adesso è diventato un inferno. Essendoci molte gambe che ti ostacolano, giocare con la palla a terra è difficile».

Fabián Ruiz è, appunto, un calciatore che in questo traffico sembra muoversi senza apparenti problemi, una sorta di “Fernando Redondo wannabe”, in grado di uscire in quattro tocchi da una situazione di tre contro uno nello stretto, di utilizzare la ruleta per guadagnare un tempo di gioco sulla transizione, di recuperare palla semplicemente mettendosi sulla direttrice del pallone e utilizzando la punta del piede per togliere il possesso a un avversario che passa oltre quasi senza accorgersi di nulla. Eppure non è tanto, o non solo, una questione di ciò che Fabián Ruiz pensa – quindi fa – quando è in possesso di palla, piuttosto del fatto che costringa tutti quelli che gli stanno intorno a pensare – quindi a fare – quello che vuole lui. Come se la realtà debba adattarsi, anzi adeguarsi, alla sua idea di calcio, al tipo di giocatore che è oggi.

In virtù di tutto questo, la domanda giusta da porsi è un’altra: non tanto a cosa pensa Fabián Ruiz mentre gioca, piuttosto come e in quanto lo pensi, soprattutto in uno sport in cui tutto, ormai, dipende dal tempo che il pensiero impiega a trasformarsi in atto. Dopo la partita vinta dal suo Napoli in casa del Genoa, Luciano Spalletti ha detto che «Fabián conosce il calcio, sa di cosa si parla, è la sua materia: aveva solo il vizio di portare troppo la palla, come tutti quelli che hanno tecnica. Gli piace farla vedere, dimostrarla: ora ha trovato comunque uno sfogo nel passarla molto e riceverla molto. Se ognuno tiene palla, poi chi la riceve vuole tenerla di più, invece in questo modo tutti sono invogliati a passarla di più». Tra l’altro la vittoria a Marassi è arrivata grazie a un gol che è diventato un marchio di fabbrica per Fabián: finta di corpo “in allontanamento” a crearsi lo spazio per la conclusione, tocco a fermare il pallone sulla sua mattonella, sinistro a giro sul palo lungo.

Quella di Spalletti è dichiarazione significativa, racconta come la metamorfosi di Fabián Ruiz sia legata al tempo e al tempismo con cui esprime il suo gioco cerebrale, alla velocità con cui la teoria diventa pratica, al tipo di impatto che la rapidità di un’intuizione individuale può avere sul collettivo. L’azione che porta al rigore dell’1-1 nella gara del in casa della Fiorentina rappresenta perfettamente questo concetto. Con il Napoli che fatica a uscire dalla propria metà campo a causa del pressing uomo su uomo portato dalla squadra di Italiano, Fabián Ruiz offre uno scarico semplice a Mário Rui e lancia di prima senza guardare – andando, quindi, totalmente a memoria – sulla traccia in verticale che sa essere preda di Osimhen: il risultato è che due linee di pressione vengono saltate con un singolo passaggio, permettendo all’attaccante nigeriano di puntare il diretto avversario in campo aperto.

Definizione di “lancio perfetto a scavalcare le linee avversarie”

Questa giocata ci fa capire come il cambiamento in positivo di Fabián Ruiz sia avvenuto perché pensa meno e in meno tempo, avendo interiorizzato e metabolizzato quelle giocate sul lungo che prima, semplicemente, non facevano parte del suo repertorio – del resto proveniva da un sistema come quello del Betis di Quique Setien – e che, per essere eseguite, necessitavano di un attimo in più. Questo tempo di gioco finiva per essere inevitabilmente perso, restituendo un’immagine che non appartiene a Fabián Ruiz: quella di giocatore lento o comunque inadatto non solo al campionato italiano ma più in generale a un calcio sempre più diretto, immediato, verticale, dinamico, iper-cinetico, dominato da assoluti freak atletici in grado di declinare al meglio il concetto di tecnica in velocità.

Si trattava, e si tratta, di una percezione sbagliata, per di più alimentata dal fatto che Fabián Ruiz è stato allenato da tre allenatori diversi in quattro stagioni, e quindi dalle ovvie difficoltà conseguenti al continuo cambiamento per ciò che riguarda compiti, funzioni, posizione, zone d’influenza: Ancelotti vedeva in lui l’erede naturale di Hamsik – che, non a caso, fu reimpostato regista nel tentativo di allungargli la carriera prima del trasferimento in Cina – anche in termini di gol e inserimenti senza palla, poi da giocatore utilizzabile in tutti – ma proprio tutti – gli slot di centrocampo del suo 4-4-2 fluido; Gattuso ne aveva fatto prima il vertice basso di centrocampo in un 4-3-3 in cui i problemi principali erano le distanze tra i reparti e la difficoltà di trovare l’uomo libero alle spalle della linea di pressione, poi uomo di costruzione in un 4-2-3-1 non abbastanza aggressivo per poter sostenere Osimhen, Mertens, Lozano, Insigne e lo stesso Fabián schierati tutti insieme; Spalletti, infine, lo ha reso il centro tecnico ed emotivo di una squadra che riesce a risalire il campo attraverso l’occupazione preventiva degli spazi e un’idea di progressività che si realizza anche quando lo spagnolo non è direttamente coinvolto nella prima costruzione. Un contesto perfetto per un calciatore così.

Prendiamo il gol del 2-0 alla Sampdoria, che Fabián realizza con un mancino a pelo d’erba simile a quelli che hanno reso celebre Toni Kroos, di fatto toccando il pallone una sola volta in un’azione che si era sviluppata da un lancio di Ospina: la bellezza del gesto tecnico e la pulizia d’esecuzione quasi ci fanno dimenticare che Zielinski e Lozano riescono a portare la palla fino al limite dell’area di rigore con relativa facilità per merito dell’attrazione che Fabián Ruiz esercita sui centrocampisti avversari deputati alla pressione su di lui. Succede spessissimo: i giocatori che devono marcare e limitare l’andaluso finiscono con  il lasciare spazi e tempi di ricezione piuttosto comodi all’altra mezzala e agli esterni offensivi che entrano dentro il campo. Insomma, Fabián è come se fosse una sorta di generatore automatico di superiorità numerica e posizionale, un campione che si concretizza negli intangibles, quelle piccole cose che non confluiscono nelle big stats attraverso cui misuriamo il rendimento di un giocatore, ma che alla fine fanno la differenza in una partita e in una stagione.

Palla in buca d’angolo, ma per davvero

Si può dire. perciò, che Fabián Ruiz abbia conferito al concetto di regia una nuova connotazione box-to-box, esportandola – anzi trasportandola – per tutto il campo, da un’area all’altra, muovendosi sempre e comunque in funzione della palla e in base a quello che già sa essere lo sviluppo e la conclusione dell’azione. Questo è il dettaglio che gli permette di essere in anticipo su tutti gli altri e di creare le condizioni perché tutto avvenga come lui lo ha pensato, immaginato, voluto. «Non gli manca niente: sa giocare, ha resistenza, tecnica, fisico. Fabián non è una sorta di regista, lui fa il regista, tocca più palloni di tutti ed è nel mezzo di tutti gli sviluppi e le costruzioni», ha detto Spalletti prima di un Napoli-Torino in cui Juric è stato quasi costretto a “sacrificare” Linetty sullo spagnolo per provare a uscire imbattuto dallo stadio Maradona. Senza riuscirci, peraltro, perché il Napoli ha moltissime armi in più oltre alla regia illuminata di Fabián.

L’arrivo e l’inserimento in pianta stabile di Anguissa è stato certamente decisivo, perché ha permesso e permette a Fabián interpretare a modo suo – quindi a due tocchi e muovendosi continuamente per offrire sempre un’opzione al portatore di palla – la prima costruzione, associandosi di volta in volta all’ex Fulham, a Zielinski sul lato destro, a Insigne su quello sinistro: praticamente Fabián Ruiz è sempre al centro del gioco perché è naturale che lo sia, perché non può non esserlo in un sistema dove è lui a imporre il ritmo, la velocità, l’intensità mentale e tecnica. Oggi è lui il regista del Napoli, senza dover occupare quella posizione di vertice basso davanti alla difesa che tendiamo naturalmente ad associare al giocatore che organizza tutto, in quello che ormai è più uno stereotipo narrativo che una necessità vera e propria. Fabián Ruiz è la rappresentazione dell’idea che quello del regista sia un compito prima ancora che un ruolo, conferendo alla funzione stessa della regia una nuova dimensione spaziale e temporale legata al quando prima che al cosa. Perché spesso non è il pensiero in sé che fa la differenza ma il modo e il tempo – anzi il tempismo – con cui si riesce a dargli forma: in fondo il controllo del pallone e quindi della partita è tutto qui, è sempre stato tutto qui, e Fabián l’ha sempre avuto. Doveva soltanto abituarsi all’idea.