La Spezia, nuova città del calcio

Dopo tanti anni, ecco la prima Serie A della storia, poi anche la prima salvezza. Eppure ci sono ancora pochissimi gradi di separazione tra la squadra, la società e i tifosi.

Il bar L’idea sta al numero 227 di corso Cavour, una delle vie del commercio di La Spezia. È un bar piccolissimo, tre passi dall’ingresso al bancone. Si entra uno alla volta e si consuma fuori, dentro un dehors come i tantissimi spuntati tra un lockdown e una zona rossa, segni del long Covid che restano nelle vie delle città. In questo bar così piccolo sono conservati centoquindici anni di storia dello Spezia Calcio, con la precisione infallibile dell’archivio e la premura conservatrice del museo: il bar dei tifosi, così mi è stato descritto. Giorgio Iannello, il proprietario, conosce ogni nome, data e luogo della
storia dello Spezia: «La memoria dei tifosi», così la chiama.

Giorgio è stato un ultras prima che questa sottocultura incentrata sul calcio avesse un nome, e nella sua urgenza di parlare del passato sta il fastidio di chi sa che la storia della sua squadra non inizia con la promozione in Serie A. Lo Spezia è stato fondato nel 1906 e rifondato tre volte, in due occasioni (nel 1995 e nel 2008) a causa dei fallimenti: significa anni tra Serie D, C2 e C1. Giorgio ci tiene a raccontare quegli anni perché sono quelli che hanno fatto la città calcistica che esiste oggi: in una busta conserva ancora le ricevute delle donazioni che i tifosi fecero per cercare di salvare la squadra nel 2008, 50 euro alla volta. Si ricorda di un signore che contribuì alla colletta dicendo che «a me dello Spezia non importa nulla, ma di La Spezia sì». Mi racconta di un orgoglio che viveva di quel che c’era: «Negli anni della Serie D la società comprò un autobus dal Real Madrid. Era tutto bianco. Eravamo l’unica squadra della categoria con un autobus tutto suo per le trasferte».

Su un foglio mi scrive la sua lista degli allenatori che «avranno sempre un posto nella memoria dei tifosi». La lista inizia con Luigi Scarabello, giocatore dello Spezia negli anni ‘30 e allenatore negli anni ‘50 e ‘60, campione olimpico a Berlino nel 1936, unico calciatore convocato in Nazionale mentre giocava in Serie C (e anche attore nei film della moglie, la grandissima Lilia Silvi, con lo pseudonimo Sergio Landi). Sergio Carpanesi, spezzino, una promozione in C1 nella stagione 1985/86 e una salvezza miracolosa in quella successiva: subentrò a Gian Piero Ventura alla fine del girone d’andata, cominciò con la squadra ultima e finì al 12° posto, sette vittorie e nove pareggi dopo.

Andrea Mandorlini, una stagione (99/00) da imbattuto, una promozione in C1 e poi due finali di playoff perse contro Como e Triestina. Antonio Soda, che riportò gli aquilotti in Serie B dopo cinquant’anni e che regalò ai tifosi una delle più incredibili vittorie della storia spezzina: 2-3 all’Olimpico di Torino, contro la Juventus di Camoranesi e Nedved, Del Piero e Trezeguet. Michele Serena, l’allenatore dell’anno che tutti a La Spezia ricordano come “del triplete”: la stagione 2011/12 fu quella della promozione dalla Lega Pro alla Serie B, della vittoria della Coppa Italia e poi della Supercoppa italiana di categoria. L’ultimo nome della lista è ovviamente Vincenzo Italiano: finalmente la Serie A, addirittura la salvezza.

Che per Giorgio la storia dello Spezia sia la storia dei suoi allenatori non è un caso. Mi spiega tutto mentre raggiungiamo lo stadio, per un tour dei lavori in corso all’Alberto Picco. «Negli anni, uno dei nostri grandi problemi è stato una società che cambiava in continuazione. Quando non era la proprietà era la dirigenza. A questo aggiungi i calciatori, che in certe categorie come D, C2 e C1 è normale che vadano e vengano. L’unica certezza che potevamo avere era l’allenatore. E il fatto che fino all’ultimo non avremmo saputo se la società avrebbe trovato i soldi per iscriversi al campionato».

Sull’ultimo punto l’aneddotica di Giorgio è vastissima: quella volta che un dirigente, per mettere in cassa i soldi necessari all’iscrizione, decise che nella partita contro l’odiatissimo Pisa la curva Ferrovia sarebbe andata agli ospiti, in modo da vendere gli stessi biglietti a un prezzo superiore; quella volta che lo stesso dirigente decise che la partita di Coppa Italia contro il Napoli di Maradona si sarebbe giocata a Livorno e non a La Spezia; quella volta che lo stesso dirigente decise di dare le dimissioni e fuggire da La Spezia.

Si capisce dunque il rispetto che i tifosi hanno per Gabriele Volpi, il presidente della promozione in Serie A: ha messo ordine, dato stabilità. Nel 2008 promise: «In 10 anni vi porterò nella massima serie», e ad alcuni di quelli che lo conoscevano sembrò persino modesto, prudente. Volpi, ex-pallanuotista, tre miliardi di euro di patrimonio personale, da presidente della Pro Recco aveva vinto tutto, più di una volta, spesso consecutivamente: scudetti, Champions League, Coppe Italia, Supercoppe Europee, costruendo ogni anno una specie di Psg della pallanuoto. «Speriamo Volpi ci prenda Messi», scherzavano i tifosi. Messi non lo ha preso, ma con 40 milioni di euro spesi in poco più di dieci anni ha portato lo Spezia in Serie A, aggiungendo al patrimonio della società il centro sportivo Bruno Ferdeghini, rimesso a nuovo nel 2013 e ora casa del settore giovanile spezzino.

Volpi all’inizio ebbe l’intelligenza di affidarsi, lui che di calcio non era né appassionato né intenditore, ad Aldo Jacopetti, ex responsabile del settore giovanile della Sampdoria. Jacopetti diede alla società una forma definitiva, una struttura stabile che resiste ancora adesso che lui è andato via e che Volpi ha ceduto la proprietà al miliardario americano Philip Raymond Platek Jr. First things first, la nuova società si è dedicata allo stadio: curva Ferrovia e Piscina abbattute e ricostruite, capienza del Picco portata immediatamente a 12.000 posti (di cui 2000 riservati agli ospiti), alla fine della ristrutturazione saranno 16.000, all seater. «Guarda che belle le nostre curve», mi dice Giorgio mentre sbirciamo il campo da una distanza sufficiente a non far arrabbiare gli operai, ancora impegnati nei lavori. «Peccato tu le stia vedendo vuote», aggiunge.

Nella sua voce ci sono due note chiarissime: una che suona come la nostalgia e l’altra come l’impazienza. Questa prima parte dei lavori terminerà in tempo per la partita con l’Udinese, in programma il 12 settembre: sarà la prima partita di Serie A all’Alberto Picco per Giorgio, per i (quasi) diecimila abituati a passare “al campo” la domenica e che da un anno aspettano. Ovviamente, Giorgio torna subito in sé e riprende con gli aneddoti: «Li vedi i seggiolini grigi dei distinti? Ce li ha regalati la Fiorentina quando hanno rimesso a posto un pezzo del Franchi. Sai perché i seggiolini della tribuna sono rossi? Sono quelli di San Siro, ce li hanno dati dopo gli ultimi lavori. E il prato, lo vedi il prato? Questo è un manto da mille e una notte».

La Spezia è una città di circa 90.000 abitanti: di questi, più di 7.000 ogni fine settimana si ritrovano al Picco per la partita. È una città con pochissimi gradi di separazione tra un tifoso e l’altro e tra un tifoso e un calciatore. Me ne rendo conto quando Giorgio mi racconta che il padre di Giulio Maggiore, capitano dello Spezia, lavorava in una banca a due passi dal suo bar e che spesso si fermava lì a prendere il caffè: «Quando parlava di suo figlio sembrava così felice», ricorda Giorgio che sa tutto di Giulio anche se quest’ultimo non è mai entrato nel suo bar.

«Non lo sapevo ma sono sicuro sia vero», mi dice Maggiore – il calciatore – quando gli racconto la cosa, «mio padre ci teneva moltissimo a che io realizzassi il mio sogno, parlava di me in continuazione, con tutti». Conoscendo i numeri di cui sopra, si capisce cosa intende Maggiore quando dice che «questa è una città che sa farti sentire coccolato, amato». Una città che ha vissuto il primo anno di Serie A, e la prima salvezza, come una gioia dimezzata: «Finalmente ritroviamo il nostro pubblico», dice Maggiore. «Anzi, lo troviamo per la prima volta in Serie A: ne abbiamo e ne avremo bisogno».

«Qualsiasi cosa succeda, la Serie A va vissuta nella maniera giusta. Non ho una definizione esatta ma so che c’entra l’entusiasmo: bisogna avere voglia di andare allo stadio e sentirsi fortunati di stare a La Spezia, di essere spezzini». Federico “Fede” La Valle è la voce dell’Alberto Picco, lo speaker che chiama i giocatori in campo e i tifosi allo stadio: è lui che ogni maledetta domenica ricorda ai suoi che il Picco è un luogo di frenesia, di voci alte e di emozioni amplificate. Era uno degli ultras che nel 1974 formarono il primo gruppo di tifo organizzato spezzino, una biografia che ora custodisce gelosamente in un libro dedicato alla storia del tifo bianconero, stampato in pochissime copie e distribuito solo a chi c’era ai tempi dei fatti narrati: «Mi ricordo ancora la felicità delle prime magliette Ultras Spezia 1974, l’adrenalina della prima trasferta a San Giovanni Valdarno. Per tutta la mia vita il calcio è stato questo: un viaggio in periferia, diciamo così. È per questo che adesso dico che l’unica possibilità è l’entusiasmo: siamo in Serie A, cazzo».

La sua è una vera e propria missione: spesso lo si può trovare davanti allo Spezia Store accanto a piazza Sant’Agostino (ha lavorato nel negozio fino alla «meritata pensione» raggiunta pochi mesi fa), impegnato a convertire gli eretici, a convincere gli indecisi. A chi gli dice che in questa squadra ci sono troppi stranieri e che rischiano di non trovare nemmeno una lingua franca per capirsi, lui risponde che «parleranno in inglese, così ci prepariamo anche per la Champions». A chi quest’anno non vede speranze di salvezza, La Valle risponde «come l’anno scorso» con il sorriso beffardo di chi questa discussione l’ha già fatta e l’ha già vinta. Quando prova a spiegarmi perché lo fa, mi dice «vorrei che in futuro tutti i bambini di La Spezia sapessero cosa rispondere alla domanda “per che squadra tifi?”. Per me la risposta è una, ovvia: la mia squadra e la mia città». Quando vede che tiro fuori il taccuino per appuntarmi la sua ultima frase, si avvicina per assicurarsi che io non commetta l’errore che ovviamente commetto: «No, ho detto la mia squadra è la mia città».

Dal numero 40 di Undici
Foto di Piergiorgio Sorgetti