E se non avessimo capito Neymar fino in fondo?

È uno del più grande talenti di sempre, ha vinto moltissimo, eppure è un giocatore incompreso, se non addirittura odiato. È per questo che ha annunciato di volersi ritirare prima del previsto?

Raccontare Neymar Júnior solo attraverso la lente dei numeri è riduttivo, quasi offensivo: le statistiche non possono restituire la bellezza e la varietà del suo repertorio tecnico, l’influenza dominante su ogni contesto e ogni partita, la sua estetica estrema, in campo e fuori. Le cifre, però, sono utili affinché proprio tutti possano intuire facilmente la grandezza del fuoriclasse brasiliano: dal suo arrivo in Europa, nel 2013, Neymar ha giocato 303 partite, segnando 191 gol e servendo 107 assist decisivi per i compagni; in Nazionale è a quota 115 presenze e 70 gol, ha già superato Romário e Ronaldo e si sta avvicinando velocemente a Pelé, primatista della storia della Seleçao con 77 gol. Su quel record, e sui campioni venuti dopo Pelé senza riuscire a batterlo, si concentra Neymar Jr. and the Line of Kings, il documentario originale Dazn uscito il 10 ottobre scorso.

Nei minuti finali dell’intervista, parlando del Mondiale di Qatar 2022, Neymar ha detto: «Penso che sarà il mio ultimo Mondiale, non so se dopo avrò ancora la forza mentale per affrontare il calcio». In pratica, il numero 10 del Psg e del Brasile ha detto che potrebbe ritirarsi, o quantomeno lasciare la Nazionale, quando avrà 32 o 33 anni – ai Mondiali 2026 ne avrebbe 34. Sono parole che fanno riflettere: com’è possibile che un calciatore così ammirato, che si diverte così tanto quando si trova in campo, sia potuto arrivare a questa saturazione, a sentirsi tanto soffocato? Com’è possibile che abbia dichiarato pubblicamente di volersi ritirare così presto?

Forse c’entra qualcosa il tempo: Neymar è entrato a far parte delle nostre vite più di dieci anni fa, quando era ancora un adolescente e già, con il Santos, vinceva la Libertadores (con un gol in finale) e tre Paulistão, tutti da miglior giocatore. Già allora l’hype era altissimo: del resto, come si vede nel documentario, l’intero stadio cantava il suo nome quando aveva compiuto da poco 17 anni e non aveva giocato un solo minuto in prima squadra. In tutto questo tempo, Neymar non ha mai smesso di fare gol e giocate impensabili, di vincere trofei, di essere determinante. Eppure ovunque serpeggia la sensazione secondo cui la sua carriera sia scivolata via troppo in fretta, senza permetterci di cogliere appieno il valore di uno dei migliori talenti del nuovo millennio. Le ragioni sono tante: riguardano le nostre aspettative e la nostra percezione, il racconto dei media spesso avvelenato e parziale, ma anche le sue scelte, e tutta una serie di situazioni contingenti.

Per esempio: nella stagione 2014/15, la seconda in Europa, Neymar ha giocato e vinto una Champions League con il Barcellona. E non l’ha fatto da comprimario, anzi: ha segnato dieci gol (gli stessi di Messi e Cristiano Ronaldo), sette dei quali nelle ultime cinque partite del torneo, compresa la finale contro la Juventus; in totale, considerando anche la Liga e la Copa del Rey (entrambe vinte) del 2014-2015, Neymar ha messo insieme 39 gol e otto assist in 47 partite. Sono numeri incredibili, frutto di prestazioni eccezionali, ma spesso finiamo per dimenticarci di quel Neymar, di quella meravigliosa annata. Forse perché accanto a lui, nella stessa squadra, giocava Lionel Messi, ovvero un calciatore capace di segnare 58 gol in 57 partite ufficiali, e di servire pure 27 assist. Numeri alla mano, è evidente che la presenza di Messi abbia aiutato Neymar a vincere, a esprimere il suo talento. Allo stesso modo, però, l’ombra enorme dell’argentino ha finito per oscurarlo, a livello soprattutto mediatico. Nel Barcellona, Neymar ha continuato a brillare nelle due stagioni successive, ma il dualismo tra Messi e Cristiano Ronaldo – che in quegli anni segnavano regolarmente 50-60 gol a stagione – non lo ha mai messo al centro del dibattito su chi fosse il miglior giocatore del momento. 

Neymar nella Champions vinta dal Barcellona nel 2015: tre gol ai quarti, tre nelle semifinali, uno in finale

Forse è proprio per ribaltare tutto questo che a 25 anni, nell’estate del 2017, Neymar si è trasferito al Paris Saint-Germain. Era una scelta coerente con il desiderio di crearsi un luogo tutto e solo suo, uno spazio dove avrebbe potuto essere leader riconosciuto e assoluto, il protagonista unico di un kolossal. La stessa ratio, se vogliamo, sta dietro alla sua decisione di abbandonare Nike e di diventare il primo volto calcistico di Puma. Certo, in entrambi i casi la componente economica ha avuto un peso notevole (il suo stipendio a Parigi supera i 36 milioni netti, mentre con il brand tedesco ha sottoscritto un contratto record da 25 milioni l’anno), ma si è trattato di due decisioni molto umane, di un tentativo – anche un po’ estremo – di imporsi come il miglior giocatore del mondo, senza ulteriori discussioni. In moltissime partite la sensazione è stata esattamente questa: si pensi per esempio alle prestazioni epocali e luccicanti con cui ha trascinato il Paris in finale nel 2020, ai gol all’andata e al ritorno contro il Borussia Dortmund nei due match degli ottavi, ai 16 dribbling riusciti contro l’Atalanta ai quarti, alla partita a tutto campo contro il Lipsia in semifinale. Anche nel 2021, un anno dopo, ha dominato per 180 minuti la miglior squadra degli ultimi anni, il Bayern Monaco, eliminandola dalla Champions League. 

Allo stesso tempo, però, la sua scelta di trasferirsi a Parigi si è rivelata sfortunata, nel senso che è stata un po’ superata dagli eventi: l’esplosione di Mbappé, gli infortuni frequenti (nella scorsa Ligue 1 Neymar ha giocato solo 18 partite su 38), la minor visibilità del campionato francese, soprattutto la mancata vittoria della Champions League. Quest’ultimo aspetto è fondamentale: a Neymar manca ancora la grande affermazione da protagonista assoluto, e fino ad allora una buona parte dell’opinione riterrà sempre più pesanti i suoi fallimenti, piuttosto che i suoi successi. Questo bias cognitivo, che impedisce a molti di godere della bellezza del suo gioco, è sicuramente alimentato da una narrazione tossica, secondo cui il brasiliano sarebbe un giocatore antipatico, narcisista, fumoso. Tutte cose che probabilmente non erano vere quando era giovane – e allora forse indugiava davvero in qualche dribbling irridente di troppo – e che sicuramente non lo sono adesso: Neymar, infatti, è diventato un uomo squadra sia per il Paris sia per il Brasile, disposto a lasciar spazio a Mbappé e Messi (da lui fortemente voluto) pur di vincere, a sacrificarsi andando a prendersi il pallone nella sua metà campo. La sua è sicuramente una leadership più calda rispetto a quella distaccata di Messi o a quella fagocitante di Ronaldo, ma, nonostante negli ultimi anni le abbia provate tutte, O Ney non è ancora riuscito a convincere il mondo di poter essere lui la nuova stella polare del calcio mondiale, l’erede del duopolio. Forse proprio consapevolezza potrebbe averlo portato a superare il suo limite emotivo. A chiedersi se solo lontano dal calcio si sentirà totalmente realizzato, sereno, felice.

Da quando è arrivato al Psg, nell’estate 2017, Neymar ha disputato 123 partite di tutte le competizioni, con 88 gol complessivi (Franck Fife/AFP via Getty Images)

La carriera in Nazionale di Neymar è ancora più sintomatica della dissonanza tra realtà e percezione. Nel 2014, nel Mondiale casalingo, tutto il peso tecnico, emotivo e spirituale del Brasile-Nazionale – e quindi anche del Brasile-nazione – era sulle sue spalle. Neymar ha giocato ad altissimo livello fino all’infortunio alle vertebre nei quarti di finale contro la Colombia, poi in semifinale lo storico 7-1 rimediato dal Brasile ha finito per azzerare qualsiasi discorso su quel Mondiale. E quindi anche sulla sua leadership, sul fatto che, a soli 22 anni, fosse stato il trascinatore di una Seleçao tutt’altro che trascendentale. Il desiderio bruciante di essere l’eletto, di regalare gioia al suo popolo, si è manifestato plasticamente due anni dopo, quando Neymar ha accettato di giocare da fuoriquota le Olimpiadi 2016 – anche quelle disputate a casa sua, a Rio de Janeiro. L’oro olimpico era, fino a quel momento, l’unico trofeo mancante al Brasile, che aveva giocato e perso tre finali, l’ultima nel 2012 a Londra contro il Messico, con Neymar in campo: in virtù di questa maledizione le aspettative in Brasile erano alle stelle, e così Neymar aveva – ancora una volta – tutto da perdere.  Quando ha segnato il rigore decisivo nella finale contro la Germania, dopo aver realizzato quattro gol in tre partite dai quarti in poi, è crollato in ginocchio, con le braccia al cielo, in lacrime: per un momento finalmente leggero, in pace. Col mondo e con il calcio

Due anni dopo, ai Mondiali 2018, si parlava solo delle sue simulazioni, non del fatto che, fino alla sconfitta contro il Belgio, era stato di nuovo la guida spirituale e tecnica del Brasile. Nel 2019, ironia del destino, la Seleçao ha vinto la Copa America senza Neymar, infortunato, mentre quest’anno O Ney è stato premiato come miglior giocatore del Sudamericano, ma il Brasile ha perso in finale contro l’Argentina. Ancora una volta, insomma, una serie di avvenimenti e coincidenze ci ha fatto perdere di vista che Neymar, pur senza vincere un Mondiale, è un giocatore epocale per il Brasile. Forse non come Pelé o Ronaldo, ma solo per una questione di contrattempi.

Neymar, insomma, ha vinto tutto ciò che poteva vincere in una squadra di club in cui però non era il primo violino; da dieci anni mostra costantemente tutta la sua forza, il suo talento fuori dal comune, il suo calcio visionario; è cresciuto moltissimo a livello tecnico, tattico, caratteriale. Allo stesso tempo, però, ha passato gli anni del suo prime in Ligue 1, in una squadra detestata da conservatori, nostalgici, presunti romantici; ha saltato oltre cento partite per infortunio solamente tra Barça e Paris, oltre alla semifinale del Mondiale in casa; ha giocato in un periodo in cui il calcio era completamente appiattito su Ronaldo e Messi. In virtù di tutto questo, è giusto considerarlo come un incompiuto? Forse è proprio questo il punto: Neymar sta iniziando a sentire il peso di queste aspettative disattese solo in apparenza, ad aver bisogno di allontanarsi dal calcio e di ritrovare serenità. E noi ci accorgeremo di quanto fosse grande solo allora, quando l’avremo perso senza averlo capito davvero.