Un rigore si tira con la testa o con i piedi?

Serve un particolare tipo di concentrazione oppure un'ottima tecnica di tiro? Un po' di casi celebri in positivo e negativo, da Panenka a Seedorf, da Cruijff a Ramos.

Il calcio di rigore è calcio in purezza: un attaccante, un portiere, una porta, un pallone. Il calcio di rigore è calcio semplice: il pallone finisce fuori, il portiere para, l’attaccante segna. Il calcio di rigore è sia un momento della partita che un fondamentale del gioco: va da sé che si dovrebbe prepararlo, come tutti gli altri momenti della partita, e allenarcisi, come in tutti gli altri fondamentali del gioco. Il calcio di rigore è una stranezza di questo gioco: esistono somiglianze e omonimie in altri sport, ma nessuna ha la stessa importanza né è circondata dalla stessa drammaticità. Forse perché il calcio di rigore non è proprio calcio, non fa davvero parte del gioco: riduce uno sport di squadra a un duello, avviene quando il gioco è fermo. «Quella di calciare i rigori è una capacità molto peculiare. La pressione, l’emozione e la stanchezza fanno la differenza. In tutta sincerità, non è una cosa che si può preparare: tirare i rigori in allenamento non serve a niente», diceva Johan Cruijff.

Tra le innumerevoli influenze che Cruijff ha esercitato, c’è anche quella che ha portato alla diffusa convinzione che i calci di rigore siano una lotteria: un momento, un evento nelle mani di divinità che decidono del destino degli uomini con gli occhi coperti da una benda. I critici del 14 hanno sempre spiegato questa sua posizione con il fatto che Cruijff i rigori non sapeva tirarli: nelle sue 250 presenze con l’Ajax ne tirò e segnò solo uno, il famoso “rigore a due” battuto assieme a Jesper Olsen. Di suoi rigori se ne ricorda soltanto un altro, tirato alla fine di un’amichevole con la Roma finita in pareggio al novantesimo. «Avevo giocato due partite in due giorni, più i supplementari, ed ero allo stremo delle forze. Fai la tua corsetta, chiudi gli occhi e immagini dove andrà a finire il pallone. Quel pallone finì tra i seggiolini del secondo anello. La porta quel giorno era piccola già prima dei rigori. Più alta la tensione, più piccola diventa la porta», spiegò anni dopo Cruijff. C’è chi sostiene che l’incapacità di Cruijff di tirare i rigori avesse a che fare con la testa: era un giocatore frenetico e intuitivo, aspettare il fischio dell’arbitro per fare quel che voleva fare era l’unica cosa per lui impossibile su un campo di calcio. C’è chi sostiene, invece, che la cosa avesse a che fare con il fisico: da giovane Cruijff era magrolino e non aveva la forza per calciare in una certa maniera, limite che lo costringerà a creare un altro modo di toccare il pallone – con l’interno del piede, disegnando sempre un piccolo arco – perfetto per il passaggio ma inutile dal dischetto.

Attraverso Cruijff passa uno dei dibattiti eterni del calcio: la capacità di tirare – e segnare, soprattutto – i rigori sta nella mente o nei piedi di un calciatore? La storia di Cruijff dovrebbe suggerire la risposta che a questa domanda diede Shad Forsythe, il preparatore atletico della Nazionale tedesca dal 2006 al 2014: «I rigori sono una questione di fisico, di piedi, solo per il 10%. Il resto è psicologia». Ormai nessuno crede più che l’abitudine a tirare i rigori faccia davvero e spesso la differenza: non dopo che il portiere del Portogallo Ricardo parò i rigori di Lampard e Gerrard nel quarto di finale del Mondiale 2006: «Non sbagliavano un rigore da due anni o che so io», dirà poi il portiere portoghese. «Questi giocatori non sbagliano perché non sanno calciare. Questi giocano nei migliori club del mondo, ma in alcune grandi partite non so proprio cosa succede. È una questione mentale». Nella sua autobiografia, Gerrard dedicherà un discreto approfondimento a quell’episodio. Non per dare ragione a Ricardo, ma l’ex-capitano del Liverpool scrive a proposito: «Io ero pronto. Elizondo (l’arbitro, ndr) no. Fischia. Datti una mossa, arbitro, cazzo! Perché aspettare? Avevo sistemato il pallone, Ricardo era sulla linea di porta. Perché mi tocca aspettare quel fischietto del cazzo?!».

Uno che aveva i cosiddetti piedi buoni era Clarence Seedorf, un giocatore il cui rapporto con il calcio di rigore fu splendidamente riassunto dal compagno di Nazionale Pierre van Hooijdonk: «Chiunque non conosca la sua storia come rigorista lo sceglierebbe sicuramente per calciare dal dischetto, perché ha una perfetta tecnica di tiro. È stranissimo il fatto che Clarence sbagliasse così tanto. Probabilmente era una questione psicologica, la porta è grande la metà vista da quel punto del campo, in quel momento della partita». Seedorf sbagliò un rigore nella serie che decise il quarto di finale contro la Francia a Euro ‘96, poi ne sbagliò un altro un anno dopo in una partita di qualificazione ai Mondiali contro la Turchia (letteralmente rubando il rigore a Ronald De Boer, che avrebbe dovuto tirare dopo la rinuncia del rigorista Wim Jonk: Seedorf prese il pallone, disse all’arbitro di fischiare e tirò prima che il compagno, partito dalla difesa, potesse raggiungere l’area di rigore avversaria), e un altro nella finale di Champions League del 2003, e un altro nella Coppa Intercontinentale contro il Boca Juniors, e un altro in un’amichevole contro il PSV nell’estate del 2007, e un altro (l’ultimo) nella partita contro la Fluminense che valse il campionato carioca al Botafogo nonostante il suo errore. Guus Hiddink, suo allenatore a Euro ‘96, disse che un rigore lo può sbagliare chiunque ma che ci vuole invece una «autostima particolare» per continuare a insistere. Quando si dice che la capacità di segnare un rigore sta nella testa, non si intende che il segreto sta nella spavalderia: «Il miracolo di Seedorf sta nel suo non avere paura dei rigori, nonostante sbagli sempre. Ignorare questa paura porta a risultati disastrosi. Clarence, lasciati dominare dalla paura!», scrisse il giornalista Pieter van Os su De Groene Amsterdammer. «Deve far male!», si potrebbe dire, prendendo in prestito le parole del Mariottide di Maccio Capatonda in L’uomo che usciva la gente.

Quando si dice che la capacità di segnare un rigore sta nella testa, si parla di Tim Borowski. Forsythe racconta un episodio al quale ha assistito durante il Mondiale del 2006, quando la Germania era tra quelle poche squadre che, ai rigori, dedicavano allenamenti specifici. Dopo la fine della fase a gironi, i tedeschi iniziarono a provare i rigori alla fine degli allenamenti. Ogni giocatore, prima di calciare, doveva rivolgersi a una videocamera messa lì da Klinsmann e dire dove avrebbe indirizzato il pallone. Una volta Borowski parlò a voce troppo alta e si fece sentire dal portiere: avrebbe tirato in basso a sinistra. Il portiere si piazzò dunque accanto al palo alla sua destra. Borowski calciò comunque in quella direzione e segnò. Quando capì che il quarto di finale contro l’Argentina si sarebbe deciso ai rigori, Klinsmann fece entrare Borowski. La Germania vinse quella partita 4-2 ai rigori: Borowski segnò il quarto per i suoi, decisivo visto il successivo errore di Cambiasso. «Non si può dire sia entrato soltanto per tirare il rigore ma è sicuramente un vantaggio sapere di avere a disposizione un giocatore così sicuro di sé dal dischetto», dirà anni dopo Forsythe.

Nella maggior parte dei casi, la capacità di segnare un rigore sta nel carattere che serve a prendere una decisione e a proteggerla dai dubbi. Le parti in cui il fondamentale-calciare rigori può essere scomposto vengono tutte dopo e pesano tutte meno della decisione: a destra, a sinistra o in mezzo? In basso o in alto? Di potenza o con precisione? “Allargare” il tiro verso il lato forte o “stringerlo” verso il lato debole? Il resto sono meccaniche ottimizzatrici per il corpo e routine rilassanti per la mente: giocherellare con il pallone prima di sistemarlo sul dischetto aiuta a rilassarsi; dare le spalle al portiere o guardarlo dritto negli occhi, in un caso ci si difende e nell’altro si attacca; un respiro in più, mezzo secondo di attesa ulteriore serve a controllare l’ansia; la rincorsa della giusta lunghezza e velocità contribuisce a liberare la mente dai pensieri. Non è un caso che il calcio di rigore sia l’oggetto di ricerca che ha messo assieme il calcio, la statistica e la psicologia: le ricerche di Ignacio Palacios-Huerta della London School of Economics (che nel 1999 scrisse un paper considerato oggi seminale, Professionals play minimax); Stress, coping and emotions on the world stage: the experience of participating in a major soccer shoot-out, di Geir Jordet; De Strafschop (Il rigore) di Gyuri Vergouw, manager ossessionato dal calcio che prima di Euro 2000 lanciò un sondaggio sul suo sito per chiedere ai tifosi Oranje chi fossero secondo loro i migliori rigoristi a disposizione della Nazionale. Quando quelli risposero De Boer e Kluivert, Vergouw spiegò per filo e per segno perché i due erano i meno adatti ad andare sul dischetto. Quando De Boer e Kluivert sbagliarono i loro rigori contro l’Italia, «il libro divenne una sorta di leggenda», dice a malincuore oggi Vergouw.

Il carattere che serve a prendere una decisione e a proteggerla dai dubbi, si diceva. È il carattere di Matt Le Tissier, che amava tirare i rigori perché «volevo che tutto lo stadio mi guardasse, compiaceva il mio ego. Mi piaceva anche segnare e il rigore era la maniera più facile per riuscirci, soprattutto perché così non mi toccava correre!». È il carattere di Totti, che durante una sfida alla Playstation con Nesta decide che il cucchiaio prima o poi deve farlo in partita, e decide che la semifinale di un Europeo è la partita giusta. È il carattere di Pirlo, che si accorge che il cucchiaio è quello che serve per cambiare di segno una partita con l’Inghilterra che rischiava di finire male. È il carattere di Messi e Cristiano Ronaldo e di tutta la generazione di calciatori-cyborg che sta per arrivare: certezze, le loro, che diventano le nostre. È il carattere di Sergio Ramos, che dopo aver sbagliato il rigore nella semifinale di Champions League contro il Bayern Monaco chiamò suo padre e suo fratello: «Al prossimo rigore, panenka. Vedrete. Presto li metterò a tacere», diceva di quei tifosi che per prenderlo in giro si erano inventati un videogioco in cui bisognava guidare il pallone calciato da Ramos nella finale di Champions in un giro attorno al mondo, schivando Guardiola appostato tra le nuvole e Mourinho a cavallo di un razzo. Due mesi dopo si ritrovò a tirare il quarto rigore nella serie che avrebbe deciso metà della finale di Euro 2012: Spagna o Portogallo? Ramos tirò. Panenka. Gol.

Il momento in cui i raccattapalle non hanno ancora capito cosa succede, ma Hart sì, e sa che è troppo tardi per farci qualcosa (Carl De Souza/AFP/GettyImages)

La Cecoslovacchia vinse gli Europei del 1976 contro una Germania fortissima, campione d’Europa e del mondo. Li vinse grazie a un giocatore che quel giorno divenne più di se stesso e si trasformò in parte del gioco: Antonin Panenka, che segnò il rigore decisivo con quel tocco sotto dal dischetto che in Italia si chiama “cucchiaio” ma che in tutto il resto del mondo, da qual giorno e fino a oggi, si chiama panenka. Soltanto un ceco poteva calciare un rigore in quella maniera, dice Panenka. La spiegazione sta nel carattere che serve a un rigorista e la spiegazione di questo carattere, secondo Panenka, sta in un romanzo intitolato Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hasek. Sc’vèik è un eroe nazionale per i cechi, l’uomo che rispose alla notizia dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando dicendo che lui conosceva soltanto due Ferdinando: uno lavorava in una farmacia e l’altro toglieva le cacche dei cani dalla strada, «e nessuno dei due sarebbe una gran perdita». Panenka si considerava «un intrattenitore, quel rigore un riflesso della mia personalità», una gioia data a un popolo che da Sc’vèik aveva imparato a prenderla a ridere.

Quello che nessuno sapeva, nel 1976, era che Panenka aveva passato i due anni precedenti a perfezionare quel tiro: lunghezza della rincorsa, numero di passi prima del tiro, punto di impatto con il pallone, forza del tocco, tutti i dettagli infiniti e invisibili che stanno dietro ogni prodezza nella storia di qualsiasi sport. Divenne un’ossessione dopo che in una partita tra la sua squadra, i Bohemians di Praga, e il Plzen, sbagliò lo stesso rigore due volte: una prima e poi una seconda dopo che l’arbitro decise per la ripetizione. Zdenek Hruska, portiere dei Bohemians, fu costretto a stargli dietro fino alla messa a punto del gesto tecnico che avrebbe trasformato il nome proprio Panenka nel sostantivo panenka. Quello che nessuno sapeva, nel 1976, era che il Partito Comunista cecoslovacco, dopo la vittoria contro la Germania, fece sapere a Panenka che, se il rigore non lo avesse segnato, ci sarebbero state delle conseguenze perché l’Occidente avrebbe potuto prendere quel gesto come una sfida alla Cecoslovacchia, all’Unione Sovietica, al Patto di Varsavia. Un dirigente del Partito spiegò a Panenka che per certi crimini si finiva a lavorare trent’anni in miniera. Oggi, quando Panenka racconta l’episodio, ne approfitta per dire cosa, secondo lui, fa un buon rigorista e un vero ceco: «Non ci prendiamo troppo sul serio, come il buon soldato Sc’vèik. Prendiamo le cose con filosofia. Siamo anche bravi a improvvisare, a reagire diversamente da come gli altri si aspettano. Questa è la nostra arma segreta».