Juan Musso, nuovo portiere argentino

È diventato uno degli estremi difensori più forti della Serie A, e non solo, grazie a doti che di solito non appartengono ai suoi connazionali: solidità, costanza, adattabilità.

Nel suo racconto più famoso, Il rigore più lungo del mondo, Osvaldo Soriano racconta la storia di El Gato Díaz, attempato portiere dell’Estrella Polar, una sgangherata squadra di provincia che, per qualche inafferrabile ragione, arriva a giocarsi il campionato all’ultima giornata. A pochi secondi dal fischio finale, che sancirebbe la vittoria dell’Estrella, l’arbitro fischia un rigore per gli avversari. Il rigore però non viene battuto, una rissa caotica lo impedisce, e la sua esecuzione viene rimandata alla domenica seguente. In quella settimana, El Gato ha sulle spalle le speranze di tutti gli abitanti del Paese, che vanno al campo di allenamento per tirargli i rigori e gli promettono la mano della donna dei suoi sogni, la rubia Fernanda, se parerà il rigore. Alla fine El Gato parerà, consegnando all’Estrella il suo primo titolo, ma non riuscirà a sposare Fernanda.

Díaz, icona crepuscolare di un calcio polveroso, rappresenta all’estremo tutto quello che si è sempre detto e pensato dei portieri: uomini soli sì, ma ultimi depositari della speranza collettiva. Poiché fanno un mestiere che convive con l’ombra dell’errore, per cui vengono ricordati più delle parate, si dice spesso che i portieri devono essere un po’ pazzi, per reggere il logoramento nervoso. Quest’epica dell’estremo difensore non può che germogliare in Argentina, terra di realismo magico, onirismo futbolistico e, per l’appunto, di Soriano: un ecosistema calcistico che, nel ruolo dell’arquero, ha storicamente offerto un pantheon variopinto di personaggi spesso stravaganti e mai troppo affidabili. Qualità più che evidenti in Nazionale dove, solo negli ultimi quattro anni, si è assistito a un’alternanza quasi schizofrenica di interpreti, da Armani ad Andrada a Marchesín, dopo una decade non indimenticabile di Sergio Romero.  L’ultimo inquilino della porta albiceleste, Emiliano “Dibu” Martínez, è l’apoteosi dell’argentinità: un personaggio dal carisma abbacinante, eccessivo e sufficientemente volgare per essere eletto – nell’arco temporale di una sola partita – a idolo delle masse: succede nella semifinale dell’ultima Copa América contro la Colombia quando, nella fase ai rigori, ne para tre grazie a un formidabile esercizio di intimidazione verbale e psicologica: Dibu urla in faccia ai rigoristi colombiani, promettendo loro che se li mangerà (lo siento, pero te como hermano). E Dibu, come promesso, se li divora.

Quel giorno, al trionfo di Martínez assiste, dalla panchina, Juan Musso. Parlare del portiere dell’Atalanta implica inserire una nuova figura nel tradizionale e forse stereotipato panorama dei portieri argentini, una figura decisamente in controtendenza. Juan Musso non si presta infatti a nessuna narrazione epica: non è il portiere pazzo che sopravvive alle responsabilità del ruolo con incoscienza; non è Dibu, trascinatore di folle, e non è nemmeno El Gato, sottomesso alle pressioni esterne. Non si può neanche dire che Musso sia un portiere spettacolare, perché lo stile delle sue giocate richiama piuttosto a un essenzialismo spogliato di artifici estetici, la cui sobrietà delle movenze si accompagna a quella della gestualità e del suo modo più generale di stare in campo. Alla stessa maniera, Musso non è nemmeno definibile un portiere moderno di ultima generazione, disinvolto nel gioco coi piedi e abile nel ricoprire il ruolo di difensore aggiunto.

Questa sua naturale avversione all’appariscenza e il suo basso profilo, uniti alla sua appartenenza – fino all’anno scorso – a una squadra come l’Udinese che non competeva per grandi obiettivi, ha forse un po’ offuscato ciò che Musso è ormai da qualche tempo: uno dei portieri più forti e affidabili della Serie A, e non solo. Un primo indizio lo restituiscono i dati di mercato: è il secondo acquisto più caro della storia dell’Atalanta, il secondo portiere più costoso dell’attuale Serie A (dopo Meret) e dell’Argentina (dopo Martínez, naturalmente). Ma lo dicono pure i dati sul campo – non è mai sceso sotto il 72.9 nella percentuale di parate – e, soprattutto le prestazioni, contraddistinte da un crescendo di sicurezza ed efficacia.

Che cosa rende allora Juan Musso così speciale? Ha a che fare con ciò che gli inglesi, in ambito sportivo, amano chiamare consistency: un termine che sta a indicare la continuità di prestazioni nel tempo combinate a un atteggiamento mentale solido e improntato alla crescita (alert: non si userà in questo articolo la parola “resilienza”). In particolare, la forza di Musso risiede nella sua capacità di esercitare il controllo nelle più disparate situazioni di gioco, che fa di lui un atleta estremamente cerebrale. Il percorso che l’ha portato a essere dov’è ora non è stato né particolarmente veloce né troppo lento: non aderisce alla narrazione della fame e del riscatto sociale, ma piuttosto si compone di pazienza e determinazione sin dai primi passi, quando riuscì a convincere i genitori – madre avvocato, padre ingegnere – che nella vita avrebbe preferito il pallone ai libri. Pazienza e determinazione che l’hanno portato a superare gli ostacoli che un normale adolescente incontra nel cammino verso il professionismo – alle giovanili del Racing de Avellaneda scappava dalla foresteria per tornare a casa dalla famiglia – e a esordire in prima squadra a ventitré anni.

Un anno dopo, Musso atterra a Udine e nessuno sa bene cosa aspettarsi. È l’anno di Julio Velázquez sulla panchina dei bianconeri e la linea societaria è quella di dare fiducia a Simone Scuffet, chiamato al decisivo esame di maturità dopo un inizio di carriera fenomenale ma un prosieguo balbettante. Alla fine, Musso impiega nove giornate per soffiare il posto al friulano ed esordisce a Marassi contro il Genoa, dove pur non si distingue in positivo, causando un rigore con un’uscita avventata e scomposta su Bessa. Nonostante un inizio non particolarmente convincente, le prestazioni di Musso seguiranno una rotta di miglioramento costante e inarrestabile, che l’ha visto crescere negli aspetti più delicati del suo gioco: le uscite e la sicurezza nella presa, dove agli inizi concedeva troppi rimbalzi.

In un ambiente morigerato e sobrio – un po’ come lui – che ha saputo aspettarlo scorgendone le qualità fin dall’inizio, Musso è approdato, stagione dopo stagione, a uno stadio di maturazione che ne ha ben definito le caratteristiche tecniche: l’argentino fa dell’esplosività e della reattività i suoi punti di forza. Queste qualità trovano particolare espressione nella sua abilità di andare a terra in brevissimo tempo e di avere un’efficacia straordinaria nelle conclusioni dalla distanza ravvicinata: in queste circostanze, grazie al mantenimento del busto eretto, Musso sembra moltiplicare il volume del suo corpo già possente (191 cm per 93 kg) per chiudere ogni spiraglio di porta. Un esempio lampante ne è l’incredibile parata su Lautaro Martínez nella scorsa stagione, quando prende un fendente angolato e rasoterra scagliato alla velocità della luce. La reattività di Musso non si esaurisce nel colpo di reni ma riguarda anche e soprattutto le gambe, portandolo a ricorrere spesso alla parata di piede, un gesto non bello ma efficace, che alimenta la sua narrazione di portiere non spettacolare insieme alla sua carenza più evidente: non essere un pararigori. In Serie A, Musso ne ha parati solamente 2 su 32, 0/13 nella passata stagione.

La parata su Lautaro, e qualche altro intervento di grande qualità

L’arrivo di Musso all’Atalanta rappresenta così il continuum naturale del percorso di crescita di un portiere pronto ai grandi palcoscenici europei. Ciononostante, il suo acquisto da parte della Dea non è apparso agli occhi di tutti come ciò che esattamente serviva alla squadra. Musso non incarna infatti il prototipo di sweeper-keeper – il portiere libero dai piedi buoni – ideale per l’assetto tattico di Gasperini con la linea difensiva alta, che invece aderiva bene al profilo di Pierluigi Gollini. L’evidente contrapposizione tra i due portieri è visibile non solo nelle caratteristiche tecniche ma anche nelle personalità. All’esuberanza carismatica di Gollini, rapper e idolo della tifoseria, risponde lo stile misurato e quasi burocratico di Musso: un aspetto certamente apprezzato da Gasperini, allenatore noto per esigere rigore e massima obbedienza ai propri princìpi.

A oggi, la stagione dell’argentino all’Atalanta è la dimostrazione di come anche un portiere abbia bisogno di un periodo di ambientamento quando arriva in un contesto tattico nuovo – a discapito della superficiale convinzione che, alla fine, un portiere deve parare e basta. È così che il rendimento di Musso è stato fin qui segnato da molte prestazioni solide e altre letteralmente straordinarie – in Champions League contro Manchester United e, soprattutto, Villarreal – intervallate da errori piuttosto gravi, sintomo di una sicurezza forse minata dai nuovi compiti tattici. Si ricordano, a riguardo, la mancata trattenuta sul debole tiro di Calabria contro il Milan, l’uscita a vuoto nel corner contro l’Udinese, più un tuffo non impeccabile sul gol di Berardi contro il Sassuolo. A questi episodici blackout, però, l’argentino ha sempre risposto con performance convincenti e sicure sin dal turno successivo, rivelando tutta la sua consistency, fatta di tenuta psicologica e duro lavoro. In una recente intervista, ha dichiarato che la parte preferita del suo mestiere è l’allenamento: è così che, in un ruolo intimamente connesso all’inquietudine e alla paura dell’errore, Musso sembra saper bene che la semplice bravura non serve, se non è mediata e controllata dall’alto. Non sarà allora solo un caso che, nel 1994, anno della sua nascita, la Pirelli rilasciava la sua pubblicità più nota: ritrae il centometrista Carl Lewis, chino ai blocchi di partenza con dei tacchi a spillo rossi, come la scritta in sovrimpressione: la potenza è nulla senza controllo.