Perché le grandi squadre scelgono sempre gli stessi allenatori?

Per un tecnico giovane è sempre più difficile arrivare a guidare un top club. E coloro che ci riescono fanno una fatica immensa a mantenersi a quel livello.

Tutto, di Massimiliano Allegri, guarda al passato. La semplificazione del gioco, l’idiosincrasia per il talento acerbo e grezzo degli Under 23, il cortomusismo. Quando la Juventus lo ha contattato per ridargli il suo vecchio posto conosceva molto bene il suo interlocutore: il passato, evidentemente, era proprio quello che cercava. Del resto, nei due anni precedenti, il club bianconero aveva navigato per rotte alternative, prima con un tecnico che vede il calcio in maniera diametralmente opposta al cinismo fatalista della storia bianconera, e poi con un giovane alla prima esperienza. Due stagioni, non di più, prima di tornare nel porto sicuro (anche se le navi non sono fatte per stare in porto).

La scelta della dirigenza juventina non è unica nel suo genere, non è assurda. È la stessa che ha fatto il Real Madrid con Carlo Ancelotti: i blancos sono tornati dall’allenatore che ha vinto la Décima ormai otto stagioni fa. Anche a Madrid hanno preferito un comandante con diversi anni di carriera nell’élite del calcio per sostituire Zidane. Perché l’ultima volta che avevano provato a cambiare registro puntando su un allenatore con un curriculum, un pedigree e uno status diverso, come Julen Lopetegui, l’esperimento era fallito dopo appena quattro mesi. Forse un esperimento ambizioso come quello dell’ex ct spagnolo e attuale allenatore del Siviglia avrebbe meritato più tempo, ma a Madrid l’idea di rinunciare a qualcosa oggi per ottenere di più domani non è ammessa. E infatti su quella panchina era tornato Zidane, dopo il breve e infruttuoso interregno di Solari.

Real Madrid e Juventus, la massima espressione dell’élite (per la verità un po’ decadente, almeno in questo momento) del calcio europeo, sono andate sul sicuro puntando su allenatori che hanno un passato nel club, una bacheca trofei indiscutibile. Sembrano dire: aver vinto in passato – non conta quanto, non conta quando, non conta come – è un’assicurazione sul rendimento futuro. È probabile che, su questa frase, tutti gli economisti del mondo sarebbero in disaccordo, a differenza dei presidenti di calcio. Non si spiegherebbe in altro modo la tendenza degli ultimi anni secondo cui, per avere un’occasione sulla panchina di un club prestigioso, a un allenatore non basti un grande risultato con l’underdog di turno, ma serve per forza aver fatto esperienza al top. «Avere successo nella gestione di un club non è più necessario. È molto più importante la conoscenza di come funzionano questi templi giganti e tentacolari, la capacità di sentirsi a proprio agio al loro interno», ha scritto Rory Smith sul New York Times.

Quando a gennaio il Paris Saint-Germain ha scelto Mauricio Pochettino sembrava, per l’allenatore argentino, l’ennesimo step verso l’alto in una carriera che lo ha visto passare dall’Espanyol al Southampton al Tottenham, prima di approdare al vertice della piramide calcistica. Per qualcuno è stato un rischio troppo grande: un allenatore che non ha vinto niente, costretto a gestire una squadra che vive la vittoria come un obbligo più che un’ambizione, un’ossessione più che un desiderio. La campagna acquisti estiva potrebbe aver peggiorato la situazione: più la rosa si rafforzava, aggiungendo una stella dopo l’altra, più Pochettino era troppo poco per quell’incarico, come se squadra e allenatore fossero collegati da una proporzionalità inversa – cresceva la rosa, si rimpiccioliva l’allenatore. Pochettino è diventato come il neolaureato in cerca di lavoro, incapace di trovarne uno perché nessuno assume un giovane senza esperienza. Così lui, che di esperienza a quel livello non ne ha, di esperienza non ne può fare.

L’élite calcistica è diventata sempre meno accessibile per gli outsider, per gli allenatori che non hanno il timbro del predestinato o un passato da calciatore ad altissimo livello. Carriere come quelle di Arrigo Sacchi, Louis van Gaal, José Mourinho – rigorosamente in ordine cronologico – sono sempre più rare. Certo, qualche esempio contemporaneo si trova. Maurizio Sarri, per esempio, sembra entrare nella stessa categoria dei tre allenatori citati prima: dopo l’Empoli e il Napoli dei 91 punti è arrivata la chiamata del Chelsea, poi la Juventus, due trofei, due anni in tutto, poi basta. Per Sarri e per quelli come lui, per gli allenatori che provano a costruire una carriera dal nulla, lo spazio si restringe. Arrivare al vertice è un’impresa, e a volte viene compiuta. Il punto è che rimanerci, in alto, è ancora più difficile. Se non impossibile

Pep Guardiola ha scoperchiato il vaso di Pandora. Al Barcellona è diventato l’archetipo dell’allenatore perfetto per la sua squadra, per la società, per l’ambiente. Quel quadriennio straordinario ha stappato la nuova epoca del calcio contemporaneo e ha spinto molti club a emulare il Barça alla ricerca di una storia simile. A qualcuno è andata bene: il Real Madrid con Zidane ha dominato per tre anni la competizione meno controllabile di tutte, nonostante il francese fosse alla sua prima esperienza vera da capo allenatore. In altri casi è stato più difficile: il Chelsea ha esonerato Lampard dopo un anno e mezzo; il Manchester United sembra mettersi i bastoni fra le ruote da solo con Solskjaer; lo stesso Pirlo a Torino non è stato particolarmente fortunato, e non è durato granché. Da ieri il Barcellona ci prova con Xavi, in futuro il Liverpool potrebbe mettere Steven Gerrard al posto di Klopp, Raúl ha un giro prenotato sulla giostra del Real Madrid.

Forse c’entra la dimensione caratteriale, o l’aura magica che si trascinano dietro alcuni allenatori che sono prima di tutto vecchie glorie del loro club. È facile immaginare che un’icona del Barcellona, dello United o della Juventus possa superare, dalla panchina, difficoltà che ha già vissuto da calciatore nella stessa squadra, nello stesso clima, negli stessi luoghi fisici e quindi anche dell’anima. E poi anche per un direttore sportivo assumere una leggenda del club significa ingraziarsi con una mossa buona parte della tifoseria, questo è innegabile. Ma se le panchine dei top club sono appannaggio di leggende del gioco e allenatori che hanno già anni e anni di carriera alle spalle, allora il mercato degli allenatori va verso la stagnazione: l’ascensore funziona solo a metà, e fatica ad arrivare ai piani più alti.

Da quando è arrivato sulla panchina del Manchester United, a dicembre 2018, Ole Gunnar Solskjaer ha accumulato 91 vittorie, 37 pareggi e 38 sconfitte in 166 gare ufficiali sulla panchina dei Red Devils. Non ha ancora vinto un trofeo (Alex Pantling/Getty Images)

Nei campionati europei ci sono tecnici che da diverse stagioni dimostrano le loro capacità nella gestione di una squadra, nel rapporto con lo spogliatoio, con approcci tattici moderni. L’Ajax di Erik ten Hag è uno spettacolo; Rúben Amorim ha fatto volare il Braga e ora sta facendo lo stesso con lo Sporting; Marco Rose ha creato macchine perfette prima al Red Bull Salisburgo, poi al Borussia Mönchengladbach, adesso si sta ripetendo con il Borussia Dortmund. Nessuno di loro sembra dover dimostrare ancora il suo talento. Fuori dall’Europa ci sarebbe Marcelo Gallardo, che al River Plate sta facendo cose straordinarie. Eppure una chance non l’hanno avuta, né al Barcellona, né alla Juventus, né al Real Madrid, né altrove. Forse è anche difficile mettere in prospettiva e dare un reale valore a certi risultati: ad ogni salto di categoria diventa più difficile capire se quel che è stato fatto in precedenza è replicabile al piano superiore. Se il Borussia Dortmund dovesse arrivare secondo dietro l’irraggiungibile Bayern Monaco sarebbe un successo di Marco Rose o solo ordinaria amministrazione? Quanto vale un’Eredivisie vinta dall’Ajax con 16 punti di vantaggio sulla seconda? E aver costruito la squadra più esaltante del Sudamerica?

Tra i top manager di oggi quelli che si sono fatti strada un incarico alla volta si contano sulle dita di una mano. Klopp si è costruito una carriera brillante che va dal Mainz alla vittoria in Champions League. Thomas Tuchel ha fatto lo stesso percorso ma con tappe diverse dopo Dortmund. Il prossimo destinato a una carriera brillante è Julian Nagelsmann (il suo Bayern è un gioiello). Non è un caso che i tre esempi più evidenti siano allenatori tedeschi. Il calcio degli anni ‘20 è quello in cui si va al ritmo della scuola tedesca, si gioca sullo spartito della Deutscher Fußball-Bund, è il calcio ipercinetico immaaginato da Ralf Rangnick e applicato dai suoi epigoni. Per alcuni di loro l’imbuto che porta al vertice del calcio sembra un po’ meno stretto. Per tutti gli altri l’opportunità potrebbe non arrivare mai. E, se dovesse arrivare, potrebbe durare molto poco.