Il grande e inatteso rinascimento del tennis italiano

Era da molti anni che il tennis azzurro non esprimeva giocatori davvero competitivi. Le cose sono cambiate grazie ad alcune riforme strutturali: più tornei, decentralizzazione dell’allevamento dei giovani talenti. E qualche campione ad accendere l’entusiasmo.

È un gioco di abitudini, alla fine di questo si tratta. Il tennis è una serie di consuetudini ripetute, una dietro l’altra. Ivan Lendl, per esempio. Quasi se le strappava, le ciglia, una a una, quando increspava la fronte per cercare la le strappava, le ciglia, una a una, quando increspava la fronte per cercare la concentrazione al servizio. Rafa Nadal è sotto gli occhi di tutti, si tocca la spalla sinistra, la destra, il naso, sposta i capelli dietro un orecchio, si cerca il naso un’altra volta, mette le ultime ciocche a posto dall’altra parte. Andy Roddick, poi: chi se lo scorda. Aggiustava la visiera del cappellino, dava una scossa al polso e al braccialetto, sistemava la maglia sulle spalle, e bum, metteva la palla a 200 all’ora dall’altra parte della rete. Da Isner che si passa la palla tra le gambe a Djokovic che palleggia una ventina di volta prima di servire, l’elenco potrebbe non finire mai. Björn Borg a Wimbledon ha fatto per cinque anni le stesse cose nell’arco delle due settimane del torneo, stesso hotel, stessa camera, stessi tragitti in auto, la barba incolta.

E poi c’è l’Italia, l’Italia tutta, che ha avuto su quella stessa erba per centodiciannove anni un’abitudine sola. Fallire. Non era perdere, perdere è un’altra cosa, si trattava proprio di fallire. Fallere dicevano i latini, nel senso di ingannarsi. È il verbo dell’insolvenza. L’insolvenza è lo scorno da che mondo è mondo. Un verbo così spietato in ambito economico per un’azienda, eppure così malinconico, per certi versi letterario, quando finiscono per fallire beni più eterei come le promesse, le attese, le speranze. Questo ha fatto il tennis italiano per molto tempo, a Wimbledon più che altrove. Centodiciannove anni sono i trionfi di Borg moltiplicati per 24 volte. Finché è arrivato Matteo Berrettini. Finché è arrivato il 2021. Finché è arrivato il cosiddetto Rinascimento italiano che ha spezzato la catena dei gesti e delle vicende più ingannevoli.

Così, adesso siamo dinanzi al primo italiano della storia capace di qualificarsi per due volete al Master di fine anno, siamo di fronte a due italiani tra i primi quindici al mondo (l’altro è Jannik Sinner), mentre per quarant’anni era stata un’impresa rara – quattro volte – averne uno tra il diciottesimo e il ventesimo posto. Siamo soprattutto di fronte a un movimento, uno scenario sempre preferibile al campione che arriva, vince, saluta e se ne va. Questa del 2021 è un’Italia da sette titoli Atp in un anno, migliore prestazione di sempre insieme ai sette vinti nel 1977. Un’Italia da quattro italiani tra i primi 40, otto fra i primi 100, con due fra i tre più giovani in classifica, Jannik Sinner e Lorenzo Musetti. Qualche giorno fa, uno di fronte all’altro negli ottavi di finale a Anversa, hanno dato un assaggio di che cosa può riservare il futuro. E ancora: cinque dei dieci giocatori con più tornei vinti nella storia del nostro italiano sono tuttora in attività.

Come è stato possibile allora che un deserto diventasse un giardino dove i frutti non mancano, maturano a rotazione, d’inverno e d’estate, sulla terra battuta e sul cemento? Dodici settembre 2015, New York, Flushing Meadows. Si deve forse partire da qui. Nel cuore del quartiere della mescolanza, dove accanto ai cinesi vivono messicani e dominicani, ecuadoriani e colombiani, in mezzo al profumo delle banane fritte coperte di formaggio e dei gamberi marinati al lime, nello stadio che porta il nome di Arthur Ashe, ci sono due ragazze italiane che si giocano il titolo degli US Open. Nei viali all’esterno dei tornelli stanno invece le donne del Sud America che mettono le loro griglie a gas sui tavoli pieghevoli e cuociono le empanadas, lungo sentieri nei quali stanno incastrati migliaia di tappi di bottiglie di birra nell’asfalto. Quella sera Flavia Pennetta e Roberta Vinci stanno portando il tennis italiano su una cima mai raggiunta, una finale dello Slam che è un derby. Un’impresa riuscita nell’Era Open tra i paesi europei solo al Belgio di Justine Henin e Kim Clijsters e alla Russia delle innumerevoli teenager che hanno usato la racchetta per la scalata sociale, come un tempo nei sobborghi e nelle periferie, ai margini, si usavano i guantoni, il ring e la boxe. Flavia e Roberta, per giunta, sono nate a ottanta km di distanza l’una dall’altra, la prima a Brindisi e l’altra a Taranto, un’ora di macchina da una costa all’altra della Puglia.

Nel momento in cui Pennetta tocca contemporaneamente il suo apice e la sua fine, mentre vince e lascia dicendo al microfono «questo è il modo più bello per dire goodbye al tennis», l’Italia la guarda, si commuove e si domanda: ma i maschi dove sono? In quel momento non c’è nemmeno un giocatore tra i primi 20. Il migliore è Fabio Fognini con il 21. In quel momento è il signor Pennetta. Dietro di lui vivacchiano Andreas Seppi al posto 29, Simone Bolelli al 58, Paolo Lorenzi al 68. Numero di tornei Atp vinti nell’arco della stagione: zero. Com’era già successo senza sosta tra 2007 e 2010. Quando uno dice le abitudini. Nel decennio tra il 1995 e il 2005 i tornei conquistati da un italiano erano stati in tutto sei: tre con Gaudenzi a Casablanca, Sankt Pölten e Bastad, due con Sanguinetti a Milano e Delray Beach, uno con Filippo Volandri sempre a Sankt Pölten. Mentre il movimento femminile ha già avuto Francesca Schiavone regina al Roland Garros, la gloria del doppio Errani-Vinci in tutto il mondo, quattro successi in Federation Cup, in quel 12 settembre del 2015 il tennis maschile pare in viaggio solo verso il campo dei ricordi. Si sta preparando al quarantesimo anniversario della Coppa Davis di Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli: 1976. Più che una celebrazione, una commemorazione.

Nel 2001 era stato toccato il punto più basso del ventennio per numero di tesserati (129.797), ma nel frattempo erano saliti a 329.897, dei quali 223.468 atleti. Si trattava del record di tutti i tempi, ma parve in tempo reale – in quel dicembre del 2016 – un’aggravante per i risultati assenti, non l’annuncio di una svolta. Era un numero inferiore solo ai tesserati della federcalcio (1 milione e 400 mila), della pallavolo (451 mila 936), e del basket (364 mila 206), tre federazioni che nell’arco del ventennio avevano comunque tutte vinto qualcosa sulla scena internazionale, dal Mondiale di Lippi a Berlino nel 2006, ai tre titoli del volley fra 1998 e 2002, all’argento olimpico della pallacanestro nel 2004 in Atene, con sei giocatori successivamente arrivati in Nba. Il tennis si lamentava di non aver più rivisto non solo un nuovo Panatta, ma nemmeno un Omar Camporese. Il numero chiave che avrebbe dovuto accendere la spia era un altro. Quello dei tornei organizzati dalla Federazione, saliti a 8.427, quattro volte più dei 2.600 circa del 2001, l’anno di inizio della gestione del presidente Angelo Binaghi. Era stato il piccolo grande segreto di Pulcinella del tennis spagnolo.

Il concetto in fondo è elementare. Più tornei sul proprio territorio significano più wild card da distribuire. Ogni invito offerto a un giocatore che non avrebbe i requisiti per partecipare, diventa un’occasione per permettergli di migliorare la posizione in classifica. Più partecipa, più la scala. Più scala, più gioca a un livello superiore. L’invasione a un certo punto dei giovani terraioli cresciuti tra Madrid, le Canarie e Barcellona aveva questo vento alle spalle. Un po’ per volta, mettendo fine alla logica dei finanziamenti a pioggia, i contributi federali si sono concentrati nel sostenere la crescita dei tornei nei circuiti minori, dove potessero trovare un posto in tabellone i nostri giovani. L’Italia è diventato così il secondo Paese al mondo dopo gli Usa per numero di challenger organizzati, i tornei di seconda fascia con un montepremi fino a 125mila dollari, il territorio di caccia dei valori medi. Nel 2016 quelli in Europa erano 71 in tutto. L’Italia ne amministrava 24. Averne tanti in casa propria offriva l’ulteriore vantaggio di poterli raggiungere senza troppi viaggi e dunque senza troppi costi. Il criterio dell’accessibilità ha allargato il bacino per la pesca. Il secondo passaggio è stato scegliere cosa prendere e come. I talenti in fondo non erano mancati neppure negli anni bui. Nel settembre del 2012, molto prima del Rinascimento, l’Italia era riuscita a vincere la sua prima Coppa Davis juniores. A Barcellona Gianluigi Quinzi e Filippo Baldi avevano battuto per 2-1 l’Australia di Kokkinakis. Quinzi sarebbe stato anche il campione juniores di Wimbledon, alimentando speranze prima che i tempi fossero maturi per il raccolto. È stato parte dell’ultimo flusso bruciato.

Dopo, sono venuti i ragazzi che non hanno avuto più bisogno di spostarsi da casa per emergere. Nel serbatoio creato con la prima intuizione, la seconda andava a individuare i giocatori più interessanti, evitandogli il trauma dello sradicamento dai luoghi nei quali erano cresciuti. La politica del decentramento e dei team privati ha progressivamente tolto peso a Tirrenia, il centro federale a lungo intoccabile. Michelangelo Dell’Edera, direttore dell’Istituto Superiore di Formazione “Roberto Lombardi”, si è messo alla regia di questa metamorfosi nel nome della delocalizzazione. L’obiettivo era che ragazzi con una spiccata predisposizione fossero affiancati da insegnanti altrettanto bravi e che il processo di formazione fosse continuo. La federazione ha smesso di portarli via dai loro circoli e dai loro maestri. È andata con i suoi mezzi in giro per l’Italia, rafforzando luoghi e persone che mostravano potenzialità. Ha offerto le consulenze di esperti nell’alimentazione, match analyst, istruttori tecnici, preparatori atletici, in qualche caso mental coach. Ha coinvolto nella formazione i genitori, una rivoluzione culturale in questo caso, spiegando che a una vittoria tra gli Under-qualcosa andava preferito invece un percorso con una gittata più lunga, un risultato posticipato ma che fosse un mattone su cui edificare altro. Le scuole tennis sono passate da 1200 a 2000. Nei 133 centri di aggregazione provinciale, affidati alla cura di tecnici federali, sono stati organizzati raduni periodici per bambini sotto i 10 anni. Hanno avuto tutti lo stesso protocollo, uguali la misura della racchetta e il tipo di palline adoperate. I più bravi sono stati indirizzati subito anche allo studio della lingua inglese, tutti hanno imparato a dare un nome a ciascuna emozione provata in campo, così sapranno riconoscerle, e chi le riconosce sa gestirle, sa controllarle. Una leva uscita dalla logica della terra rossa, considerato che nel tennis contemporaneo l’80% dei punti del ranking viene distribuito nei tornei su cemento.

In poche settimane, tra giugno e luglio 2021, Matteo Berrettini è diventato il primo tennista italiano a vincere al Queen’s e poi a raggiungere la finale di Wimbledon (Clive Brunskill/Getty Images)

Questo è successo, mentre ci lamentavamo davanti alla tv di un altro Panatta che non arrivava. Marco Cecchinato, con la semifinale al Roland-Garros 2018, è stato la stella cometa che annunciava il tempo di mettersi in cammino. Il bello è che giocatori assai diversi tra loro sono arrivati per sedersi alla destra del veterano Fabio Fognini, uno che ha tirato da solo la carretta tra lampi e cadute, giudicato dal New York Times come il giocatore dal braccio con maggiore qualità dopo Federer. Matteo Berrettini è Mister Certezza. Negli ultimi cinque Slam è sempre arrivato alla seconda settimana e negli ultimi tre almeno ai quarti, peraltro incocciando sempre in Novak Djokovic, altrimenti chi può dirlo. Ha giocato nel 2021 quarantuno partite contro avversari piazzati peggio di lui in classifica e ne ha perse solo quattro, infilando una serie di 19 successi consecutivi tra aprile e agosto. È il tratto del vero top-10. Uno che non perde (quasi) mai contro chi non deve. È il più immerso nello spirito del tempo. Se è vero che il tennis contemporaneo si fonda e spesso si risolve con i primi due colpi, servizio e diritto, lui ne dispone di devastanti. Romano, 25 anni, è la potenza. È il quarto al mondo per ace nel 2021, il terzo sulla terra e sull’erba. Jannik Sinner è la prospettiva ribaltata di Fognini, arci-italiano uno, con tutta l’arte della fantasia e della bellezza, anti-latino l’altro, calibrato e asciutto nei gesti e nei pensieri già a 20 anni, pure troppo, stortignaccolo, privo ancora di qualche variazione che ogni tanto gli servirebbe. Altoatesino, 20 anni, è la réclame dell’essenziale declinata nella maniera più dritta: spara forte e tieni la palla dentro le righe. Lorenzo Musetti è il teenager in ascesa, 19 anni, un braccio baciato da qualche coppia di divinità che dall’Olimpo posò lo sguardo su Carrara. Una specie di Henri Leconte italiano ma destrimane. Un ultimo germoglio di Classicità in un mondo passato dal 37% al 4% negli scambi giocati serve and volley sui prati di Wimbledon tra il 2001 e oggi.

Lorenzo Sonego, torinese, 26 anni, è la forza della volontà. Eccelle nel servizio e nella difesa dell’angolo destro. Uno che per battere ti devi scrollare di dosso, ennesima variazione all’Assortimento Italia. Altri verranno e il prossimo passo sarà intercettare la Nuova Italia. I figli dell’immigrazione. Quelli che stanno arricchendo il tennis di Usa e Canada. Vanno raggiunti nelle scuole, dove fa setaccio la pallavolo, soprattutto femminile. Cinque anni fa è partito il progetto Racchette in Classe, pensato per una nuova fase di reclutamento e rivolto a 100 mila bambini delle primarie. La pandemia l’ha rallentato. Di tutto questo fervore magico, non si capacitano i francesi. Il loro tennis è in frenata e adesso dicono: copiamo il modello Italia. Cinque anni fa pareva una barzelletta.

Da Undici n° 41