L’anno dell’Inter

Conte, lo scudetto, l'ottimo impatto di Inzaghi, ma anche la crisi economica, gli addii di Lukaku e Hakimi, il dramma di Eriksen. Il 2021 nerazzurro è stato bellissimo e difficile, e proprio per questo può rappresentare una svolta importante per il futuro.

Scrollando la home del canale YouTube dell’Inter, si può notare come l’ultimo video in cui è presente Antonio Conte sia quello successivo al 5-1 all’Udinese del 23 maggio 2021, a campionato già vinto – anzi: stravinto. Si tratta di un’intervista in cui ricorrono i topoi classici della narrativa contiana: la celebrazione del gruppo, l’importanza dell’etica del lavoro, l’invito a ricordarsi del punto di partenza prima di quello d’arrivo, il rimarcare come nessuna vittoria debba considerarsi scontata, nemmeno quella conquistata con quattro giornate d’anticipo e con 12 punti di vantaggio sulla seconda in classifica – «questo Scudetto lo colloco nel campo delle imprese», dice a un certo punto il tecnico salentino, quasi a voler evidenziare come i rapporti di forza che si erano andati consolidando nel corso della stagione fossero stati una conseguenza del suo lavoro più che la causa del successo finale.

Più delle parole, quindi, a colpire è la prossemica, il linguaggio del corpo, quello che Conte intende comunicare attraverso la mimica, gli ampi sorrisi e lo sguardo di chi ha potuto finalmente dormire qualche ora in più senza doversi preoccupare di un allenamento da preparare, di un avversario da studiare, di una partita da vincere: è un Conte disteso, rilassato, per certi versi si potrebbe dire persino felice, certamente consapevole di ciò che aveva fatto, del percorso che aveva portato a termine nei modi e nei tempi che aveva previsto, della qualità di un lavoro sul campo che sarebbe “sopravvissuto” a lui e al carattere estemporaneo ed etereo della vittoria stessa.

La differenza con gli ultimi fotogrammi da allenatore della Juventus è piuttosto evidente: in quell’occasione la sensazione era che Conte fosse stato quasi costretto ad andare davanti a una telecamera per spiegare termini, condizioni, ragioni e responsabilità di un divorzio che, già lo sapeva, pochi avrebbero compreso, molti avrebbero frainteso e tutti gli avrebbero addossato. Almeno lì, in quel momento: «C’è da comunicare la rescissione consensuale del contratto tra me e la Juventus, che ci legava ancora per quest’anno. C’è stato un percorso in cui ho maturato delle percezioni e sensazioni che mi hanno portato a questa decisione», disse con lo stesso tono ansiogeno di chi stava recitando un copione mandato frettolosamente a memoria e stava cercando di liberarsi di quell’incombenza il più presto possibile.

Consapevolezza è anche il termine, anzi il filtro – l’unico possibile – attraverso cui raccontare il 2021 dell’Inter. Consapevolezza di sé, dei propri mezzi, della propria dimensione, di uno status acquisito attraverso il consolidamento di certezze che non sembrano scalfibili nel breve periodo e che vanno al di là anche del grande lavoro che Simone Inzaghi sta facendo per alzare ulteriormente il livello competitivo di una squadra che, competitiva, sembra esserlo diventata di default. Non è tanto o non è solo una questione di campo, di una manifesta superiorità cristallizzatasi nella continuità dei risultati e nei record individuali e collettivi – 104 punti e 104 gol fatti nell’anno solare, di cui 49 nel solo girone d’andata della Serie A 2021/22; una striscia aperta di sei vittorie consecutive; 550’ di imbattibilità per Handanovic – collezionati dai nerazzurri, piuttosto di narrazione, di come si sia dato forma, sostanza e concretezza quell’idea di «No more Pazza Inter» che costituisce il claim, a parole e nei fatti, di questo nuovo ciclo.

Un nuovo manifesto programmatico, un deciso cambio di paradigma per quella generazione di tifosi che non ha vissuto, o forse ha solo sfiorato, i fasti dell’epoca mourinhana: un’Inter costante, continua, lineare ma non per questo noiosa, quasi “rassicurante” nelle modalità, previste e prevedibili, con cui esercita la sua evidente supremazia su partite e campionati. Una sorta di tranquillità insita nelle ripetizione di qualcosa che ha funzionato, funziona e, probabilmente, continuerà a funzionare ancora per un po’, avendo raggiunto il giusto compromesso tra aspettative, risultati e capacità di gestione della pressione che accompagna i più forti: «Vediamo un’Inter sempre più forte: gli avversari in campo sono rassegnati a non trovarsi comodi, e a perdere forza psicologica mentre cercano di lottare. La forza dell’Inter diventa la debolezza degli altri», ha detto recentemente Riccardo Trevisani a Tutti Convocati su Radio 24.

Il motivo di tutto questo è da ricercarsi nel come l’Inter sia arrivata a questo compromesso, nei singoli momenti chiave della stagione, nei turning point tattici, tecnici e psicologici che hanno caratterizzato il passaggio da una dimensione all’altra fissando nuovi standard d’eccellenza. Generalmente si tende a far coincidere l’inizio di tutto con la vittoria del 17 gennaio 2021 contro la Juventus – quella che, secondo Barella, «ci ha fatto capire di essere forti e ci ha fatto scattare qualcosa dentro». Il successo è arrivato al termine di una partita in cui il 2-0 finale non aveva restituito di tutto ciò che si era visto sul campo, ovvero una percezione di sistematica e progressiva demolizione di certezze e convinzioni della squadra che aveva dominato gli ultimi nove campionati. In realtà quella che può essere considerata la vera svolta coincide con una dichiarazione di Beppe Marotta prima di Fiorentina-Inter del 5 febbraio, nel bel mezzo di una crisi societaria che sembrava potesse diventare qualcosa da vecchia Inter in grado di interferire e sabotare le ambizioni della nuova: «Questo è un momento complicato, per questioni che vanno al di là dei meriti sportivi. Noi stiamo isolando la squadra da questi problemi». L’Inter vince 2-0 (reti di Barella e Perisic) e poco meno di due settimane dopo sbriciola le residue resistenze del Milan di Pioli in un derby che ha la sua polaroid nell’esultanza di un Lukaku in beast mode dopo la rete del 3-0: «I’m the fuckin’ best, io, io, te l’ho detto cazzo!». Si riferisce a lui stesso, ovviamente, ma potrebbe riferirsi anche al gruppo squadra nel suo complesso, a quello che sarà la stagione da lì in avanti, a un ambiente finalmente compattatosi attorno ai suoi uomini chiave, dentro e fuori dal campo.

Gli highlights di un derby dominato

In questo senso la figura di Marotta ha avuto – e ha tuttora – un peso specifico e una rilevanza pari, se non superiore, a quelle dei Conte, dei Lukaku, dei Barella, degli Inzaghi, dei gregari alla Darmian e di qualsiasi altro uomo-copertina di questa nuova era interista. La sua centralità è prima di tutto comunicativa, risiede nella sua costante presenza fisica e verbale sui media, nell’essere diventato l’interlocutore privilegiato ­– e, quindi, credibile – soprattutto nei momenti difficili, nell’aver aggiunto alla dialettica tremendista da “noi contro il mondo” di Conte quegli argini di realismo e buon senso che hanno fatto in modo che la situazione fosse sempre sotto controllo, anche quando i risultati non sembravano all’altezza di mercato, investimenti, parco giocatori, allenatore: «Qui all’Inter c’era una certa instabilità, e l’obiettivo era proprio invertire questa tendenza: insieme a Conte abbiamo fatto un percorso che ci ha permesso di costruire un’area sportiva delineata, e così siamo riusciti a tornare al successo», dichiarò a scudetto appena vinto, ribadendo come il punto di forza di un club di prima fascia risieda nella catena di comando, nelle competenze degli uomini giusti, al posto giusto e nel momento giusto, nella continuità progettuale che non deve essere scalfita al momento del ricambio necessario di alcuni di quegli uomini.

È così che l’Inter di oggi è riuscita a rimanere così uguale all’Inter di ieri, a questa nuova versione di se stessa, talvolta riuscendo persino a migliorarla quasi senza accorgersene – ad esempio passando in tranquillità un girone il Champions League dopo due eliminazioni consecutive –, andando oltre il dramma di Eriksen, oltre le cessioni inevitabili di alcuni big, oltre persino la separazione con Conte, congedato con il minimalismo da comunicato stampa di chi sa di essere finalmente in grado di fare le cose per conto proprio. E, quindi, di chi sa che può sostituire Lukaku e Hakimi con Dzeko e Dumfries senza perdere nulla in termini di efficacia, di chi sa che può permettersi di aspettare Inzaghi, di chi sa che presente e futuro sono nella testa e nei piedi di Barella e Bastoni, di chi sa che il 2021 è stato un punto d’arrivo ma anche di (ri)partenza perché, in fondo, appartiene già al passato. E l’Inter, che quest’anno lo ha dominato, lo ha fatto perché ha dimostrato di saper guardare al futuro.