Il dribbling è cambiato?

L'arte di superare gli avversari non è perduta, si è solo evoluta: da arma offensiva primordiale è diventata uno strumento multiforme.

Pensare e affermare che una volta il calcio era tutto dribbling è un po’ come dire che una volta qui era tutta campagna: è una frase sempre buona perché sempre vera, anche se chi la pronuncia non sa cosa bene dice, non poteva esserci quando il calcio era tutto dribbling, non poteva esserci quando qui era tutta campagna – e probabilmente non ha neanche letto La Piramide Rovesciata di Jonathan Wilson, che descrive proprio con la locuzione «dribbling game» il calcio degli albori praticato in Inghilterra, prima che i pionieri scozzesi iniziassero a capire che passarsi il pallone tra loro, forse, poteva essere una buona idea.

La stessa definizione di dribbling è troppo estesa e onnicomprensiva, quindi inevitabilmente vaga: che cos’è un dribbling? Come e quando si può parlare di dribbling? Secondo la Treccani, si tratta di una «manovra individuale dell’atleta che consiste in leggeri tocchi del piede, dati rapidamente al pallone, per portarlo da destra a sinistra o viceversa, così da ingannare l’avversario e scartarlo velocemente». Ma allora una finta di corpo che permette a un giocatore di lasciare un avversario sul posto senza toccare la palla (per intenderci: come quelle che faceva Pirlo) non è un dribbling? Una sterzata secca e completata con un solo tocco, come quelle che fa Neymar, non è un dribbling? Insomma, ripensandoci bene è una tautologia bella e buona: il calcio era tutto dribbling perché in realtà tutto il calcio può essere dribbling.

L’idea per cui il calcio era tutto dribbling è legata indissolubilmente a un’altra idea, forse ancora più diffusa e potente: quella per cui il gioco moderno ha deciso di fare a meno di quest’arte antica e irriverente. È un discorso che sentiamo fare da anni, lo hanno fatto tutti almeno una volta. Qui, per esempio, c’è un articolo di Espn datato 19 ottobre 2003 in cui Claudio Ranieri – allora manager del Chelsea – parla dell’addio di Zola e della necessità di sostituirlo, di avere in squadra un nuovo dribblomane «che potrebbe essere Joe Cole»; nello stesso testo, Cristiano Ronaldo viene definito «un ipnotizzatore di tifosi con i suoi trucchi palla al piede» e poi l’autore scrive che «gli allenatori DEVONO essere coraggiosi e incoraggiare i loro migliori giocatori a puntare l’avversario, perché il dribbling ormai è un’arte perduta». Più o meno quindici anni dopo, in un articolo del Daily Mail si legge che «i campi di oggi sarebbero perfetti per i dribblatori del passato. Invece le ali che saltano l’uomo stanno diventando una rarità, e la colpa è tutta degli allenatori». L’autore dell’articolo in questione è un ex giocatore: Chris Waddle.

Chris Waddle, proprio come facciamo tutti noi, tirava semplicemente acqua al suo mulino, anche se in realtà il suo mulino era chiuso già da un po’: negli anni Ottanta e Novanta, infatti, Waddle è stato una delle ultime ali anarchiche, un dribblomane spettacolare e difficilissimo da fermare. Per rendersene conto basta riguardare i suoi video-skills su YouTube e resistere al fascino delle sue capigliature sempre diverse, sempre ricercate, che anche oggi sembrano alla moda anche se non lo sono, mentre il suo gioco è evidentemente rètro: oggi un giocatore come Waddle non potrebbe avere cittadinanza, sarebbe considerato troppo monocorde nel suo puntare continuamente l’avversario, troppo egoista, troppo avulso rispetto ai compagni, troppo isolato sulla fascia. Eppure Waddle era già un’evoluzione della specie, era già un’altra cosa rispetto alle vere ali: sapeva convergere verso il centro e sapeva con entrambi i piedi, non era come gli attaccanti esterni degli anni Sessanta e Settanta, calciatori che non rientravano mai in difesa, che rimanevano larghissimi sulla fascia del loro piede forte, perennemente in attesa di poter scattare e andarsi a prendere il pallone in profondità, di poter affrontare il loro avversario diretto, solitamente il terzino, e lasciarlo sul posto – come dicevano i radiocronisti.

Per certi giocatori, e per chi li guardava, il momento in cui l’avversario veniva saltato provocava piacere fisico ma anche un raffinato piacere intellettuale: il dribbling era il trionfo del bene sul male, era un’arma offensiva semplice e primordiale, permetteva di forzare le marcature a uomo rifiutando la complessità di uno schema provato in allenamento. Questo non vuol dire che i vari Stanley Matthews, Garrincha, Bruno Conti, Jairzinho e Franco Causio – giusto per fare qualche nome – non avessero grandi qualità tecniche e tattiche, e la stessa cosa ovviamente si può dire di Pelé, George Best, Omar Sivori, Zico, Alfredo Di Stéfano, che non giocavano come ali pure ma che sono rimasti nella storia per la loro capacità di passare attraverso gli avversari come fanno gli sciatori con le porte dello slalom speciale; il punto è che tutti questi grandi fuoriclasse hanno illuminato un gioco concettualmente e strategicamente più semplice, in cui la ricerca della superiorità numerica era un compito individuale più che collettivo, e allora il dribbling non era solo una scelta estetica, piuttosto una strategia funzionale – forse la più funzionale in assoluto – per arrivare allo scopo. È così, grazie alla ripetitività ossessiva e inevitabile dei tentativi, che sono nate le giocate più famose: il doppio passo, che si esegue roteando le gambe intorno alla palla prima del tocco e dello scatto decisivi; la finta alla Matthews, eseguita da fermo, simulando un movimento col corpo in una direzione per poi scattare nell’altra; l’arresto alla Garrincha, che consiste nel fermarsi e poi ripartire all’improvviso piegando il corpo dalla parte in cui si vuol scappar via. Queste sono solo le più famose.

Prendetevi qualche minuto di pausa, e godetevi un po’ di bellezza

Ma allora è proprio vero che un tempo si dribblava di più? Sì, e lo dicono anche i numeri. Partiamo da un confronto tra Maradona e Messi, che possiamo considerare come i più grandi fuoriclasse del dribbling delle rispettive epoche: secondo i dati della celeberrima Argentina-Inghilterra dei Mondiali 1986 – rilevati da StatsBomb con strumentazioni e metodi moderni Maradona ha tentato 14 volte il dribbling in poco più di 90 minuti di gioco. Di questi, gliene sono riusciti 12. Nella sua stagione con più dribbling tentati, Messi ha toccato la quota di 6,3 per match: meno della metà rispetto a Maradona. Nella Serie A 2021/22, giusto per fare un confronto con i comuni mortali, il giocatore con più dribbling tentati è Nicolò Zaniolo: la sua quota è di 4,9 dribbling tentati ogni 90 minuti.

Alla luce di queste cifre, è evidente che la visione/lettura di Chris Waddle, per quanto anacronistica e imbevuta di nostalgia partigiana, sia almeno in parte veritiera: oggi i calciatori dribblano poco perché sono gli allenatori a chiedergli di farlo in quantità minima indispensabile, e comunque molto meno rispetto al passato. Ma non si tratta di un rifiuto ideologico: semplicemente nell’era contemporanea esistono – perché sono stati inventati, insegnati, allenati, tramandati e perfezionati – dei nuovi strumenti per ottenere i vantaggi che prima si ottenevano soprattutto attraverso i dribbling. E infatti da circa vent’anni, ormai, i migliori dribblatori giocano in posizione più arretrata, o comunque non solo in attacco; quelli che resistono, ovvero quelli che puntano costantemente gli avversari sulle fasce e/o in avanti, sono visti come dei freak, se va bene, altrimenti sono considerati dei calciatori impertinenti, irridenti, provocatori. Al primo gruppo sono appartenuti e/o appartengono Pirlo, Iniesta, Frenkie de Jong, Xavi, Modric, Riquelme, e in fondo anche Zidane, Messi e Maradona che hanno espanso a tutto campo l’arte di superare l’avversario con il primo controllo, facendo ondeggiare il corpo, nascondendo il pallone con evoluzioni eleganti, con giochi di gambe imprendibili e imprevedibili; nel secondo gruppo ci sono invece i vari Denílson, Adama Traoré, Neymar, il Cristiano Ronaldo degli esordi, Ronaldinho, Robinho, ovviamente Ronaldo Nazário – che ha rivoluzionato il calcio proprio perché ha saputo coniugare giocate incredibili e dribbling supersonici con una straordinaria efficacia realizzativa.

Oggi il dribbling è una giocata multiforme: può essere ovviamente offensivo, ma è anche uno strumento di controllo, persino difensivo in alcuni casi. Ha vissuto la stessa evoluzione di tutte le altre abilità calcistiche, nel senso che è stato assorbito da sistemi tattici sempre più sofisticati e complessi. Questo processo ne ha cambiato il senso, ne ha invertito la cultura: oggi dribblare un avversario è un atto che sembra ancor più ribelle e quindi politico rispetto al passato, e invece dietro ogni isolamento di Vinícius Jr. sulla sinistra, dietro ogni giravolta di Neymar, dietro ogni finta di corpo di Verratti, dietro ogni cambio di direzione di Fekir, Salah o Boga c’è uno studio strategico, c’è una volontà di rendere più efficace quella situazione. È un paradosso: in questa era calcistica, i dribbling e i giocatori che provano a farli ai massimi livelli esistono in numero minore rispetto al passato, eppure sono più nobilitati dal lavoro degli allenatori, perché le responsabilità creative passano da loro ma anche da altre cose, da altre azioni, nel nome del talento, ma anche delle idee. Le due cose che fanno progredire il gioco del calcio, e anche il mondo.