Perché Paolo Sollier affascina ancora

Torna in libreria Calci e sputi e colpi di testa, biografia imperfetta ma utile per capire qualcosa di un decennio ancora difficile da inquadrare, anche nel calcio.

La cosa più comunista che so del calcio l’ha fatta Ezio Vendrame. Si giocava un Padova-Cremonese, ai lombardi (capitanati da Emiliano Mondonico) occorreva disperatamente un punto; secondo la vulgata, Vendrame pensava che il pareggio a reti inviolate potesse essere concordato. Nell’ultima parte dell’incontro, prese palla e cominciò a dribblare tutti i suoi compagni, scartando all’indietro fino al portiere e fermandosi – come se nulla fosse – sulla linea di porta. A un tifoso del Padova, cardiopatico, venne un infarto. Vendrame commentò quella morte dicendo che il tifoso sapendosi malato di cuore aveva accettato il rischio di morire allo stadio, scegliendo in fondo una buona morte, al contempo si stupì del fatto che qualcuno potesse rischiare la propria vita per lui. Quell’azione all’indietro, l’insistenza dello scartare a perdere è comunista, perché sovverte lo stato della partita, le regole e (l’eventuale) accordo irregolare sul risultato. È comunista perché Vendrame forse lo era, un calciatore fuori dagli schemi, uno che ha scritto poesie (seppur dimenticabili). Comunista perché a Vendrame interessava più dribblare che segnare, perché il gol rappresentava la fine di tutto. Comunista perché erano gli anni Settanta e allora eri una cosa o l’altra. Comunista anche se Vendrame non levava il pugno chiuso verso gli spalti dopo un gol. Comunista perché Vendrame non era il Best italiano, perché Vicenza e Padova non sono Manchester.

La cosa più comunista che so collegata al calcio è forse un’altra. Quella che fece Jorge Carrascosa alla vigilia dei Mondiali del ’78, rifiutando la convocazione, rifiutando perciò di essere il capitano della Nazionale che avrebbe vinto. Carrascosa, lo chiamavano Lobo, il lupo, disse no, non voleva il sangue sulla maglia, sulla Coppa. Non voleva giocare il Mondiale mentre la giunta militare di Videla non interrompeva né le torture, né i voli della morte, né le esecuzioni. Aveva 30 anni, non disse una parola ma fece una scelta, di giustizia, di onestà. L’anno dopo si ritirò dal calcio. Non ha mai più detto niente.

La cosa più comunista accaduta su un campo da calcio forse è un’altra. L’ha fatta Maradona quel giorno ad Acerra, quando convinse sia Ferlaino sia i potentissimi Lloyds di Londra (pagando una penale), per andare a giocare in un campo sperduto e fangoso, per raccogliere fondi per un ragazzino malato. I fondi furono raccolti, non c’era bisogno di impegnarsi, ma Maradona – dopo aver fatto riscaldamento in un parcheggio (il video lo abbiamo visto tutti) – giocò come se fosse la Coppa dei Campioni, e nella sua testa lo era, perché far felice il pubblico era tutto.

Tre cose comuniste, forse o forse no, solo cose reali, cose che c’entrano (come molte altre) con il pallone e la società. Forse anche Chinaglia che andò a contrattare i premi partita negli anni alla Lazio fece qualcosa di comunista, di sindacale, in quella squadra che, come ha ben raccontato Angelo Carotenuto in Le Canaglie, c’era di tutto. Ed è proprio negli anni di Ezio Vendrame, della Lazio di Chinaglia, in quelli in cui Carrascosa se ne va dalla Nazionale argentina, quegli indimenticabili, sconvolgenti, memorabili e terribili anni Settanta, un centravanti dalla tecnica mediocre «continuo a non saper fare gli stop», che gioca nel sorprendente Perugia di Ilario Castagner, che quando segna leva il pugno chiuso verso la curva, che porta i capelli lunghi, che dentro uno schema non ci sa stare, questo centravanti fa la cosa comunista dalla mattina alla sera, lui è la cosa comunista. È nato in Piemonte, ha lavorato alla Fiat, si chiama Paolo Sollier.

In queste prime settimane del 2022, Mimesis ha rieditato Calci e sputi e colpi di testa, scritto proprio da Sollier, un libro di cui di tanto in tanto si torna a parlare, testo che ha contribuito a mitizzare la figura dell’ex calciatore. Un libro diretto che suona ancora sincero, non troppo pulito, dà infatti l’impressione (ed è il suo pregio) che Sollier stia parlando con chi legge, come se fosse una conversazione in un bar, una chiacchierata a margine di un dibattito appena tenutosi in un circolo operaio, una discussione nell’intervallo di una partita che si sta perdendo. Io credo però che il libro di Sollier funzioni anche perché sono quegli anni a funzionare: lo stadio, la fabbrica, i circoli, la piazza, i referendum (aborto e divorzio), il cinema, la letteratura, erano in movimento continuo, ogni cosa alimentava l’altra, anche la più lontana. Tra comunisti e fascisti ci si menava per strada, a piazza della Loggia a Brescia scoppiava un’altra bomba.

Sollier somiglia a Vendrame (che è più silenzioso), a Gigi Meroni (morto troppo presto), ma in campo non avvicina il talento di nessuno dei due. Sollier poi non ricorda più nessuno, né i calciatori di allora né a quelli adesso. Sollier si espone sempre pubblicamente, critica i giornalisti che definisce pettegoli e asserviti al potere, si dichiara femminista, aperto verso gli omosessuali (per questo verrà quasi sfottuto dai giornali). A Cossato, i tifosi lo chiamavano Ho Chi Min, a Perugia, Mao, ma era solo Sollier una persona che aveva delle idee e manifestava pubblicamente le sue convinzioni. Il suo legame più forte lo ebbe con Walter Sabatini (l’attuale dirigente della Salernitana), un’altra persona non assimilabile al pensiero standard. Il libro è introdotto da una prefazione di Renzo Ulivieri, che pare commosso. A Perugia, Sollier, litiga con i tifosi ma li ama e lo amano e lo odiano, litiga con la città ma le vuole bene. È dispiaciuto quando viene ceduto al Rimini – lo scoprirà dai giornali – ma proprio in Romagna costruirà un legame forte (e considerato inizialmente improbabile) con Helenio Herrera. Il libro include alcune belle foto: Sollier con il quotidiano operaio, Sollier davanti a un simbolo di Democrazia Proletaria, Sollier col pugno alzato, Sollier sul campo, Sollier in libreria. È stato critico con tutti, anche con il PCI, ed eccola un’altra cosa comunista, lo è stato forse meno con sé stesso. È stato controverso e ha giocato a calcio negli anni in cui si giocava con il libero murato in porta, nei tempi in cui affermava Socrates «si concede il lusso di far vincere il peggiore: non c’è niente di più marxista o gramsciano del calcio». L’ultima parte di una poesia molto bella, del poeta friulano Giovanni Fierro (che assimila il calcio al comunismo), recita: «e che tutti e sempre / si giochi con le braghette corte / dice bene / che questo è un regime / che funziona / solo quando è giovane».

Paolo Sollier affascina ancora nella sua normalità. Non è stato un eroe, è stato testardo, onesto, coraggioso, cioè uno come tanti. Solo che nel calcio, soprattutto dalla metà degli anni Ottanta in avanti, quel modo d’essere è scomparso, quasi più nessuno si è esposto politicamente, specie nel campionato italiano. Il libro non è un capolavoro, non lo è mai stato, ma è prezioso per aggiungere un altro tassello alla comprensione di quegli anni strani, di cui non abbiamo compreso parecchie cose, e ai quali, per qualche perversa ragione, guardiamo ogni tanto con nostalgia.

In ogni caso, la vera cosa comunista che faceva Sollier era regalare libri ai compagni di squadra, o trascinarli a vedere qualche film che. Circa i giorni del suo trasferimento al Perugia (rispetto alla forte cultura e storia dell’Umbria) scrive: «[…] Mi sembra di andare ad abitare nella mia ignoranza». Forse è per superare quel modo di sentirsi inadeguato che prende le poesie di Pavese, i fumetti di Corto Maltese e li regala ai compagni.