È impossibile abituarsi a Theo Hernández

Il più grande "freak" della Serie A ha avuto un ruolo fondamentale nello scudetto del Milan.

Prima di realizzare il gol destinato a diventare la copertina del diciannovesimo scudetto milanista, la partita di Theo Hernández contro l’Atalanta era stata ordinata e ordinaria, da giocatore stanco di una squadra altrettanto stanca che doveva vincere il campionato e che, per questo, stava cercando di gestire al meglio le residue energie fisiche e mentali a poco più di 100 minuti dal termine di una stagione logorante. Una partita, quindi, lontano dall’iconografia che siamo abituati ad associare alla dimensione superomistica dell’ex Real Madrid, un giocatore in grado di cristallizzare in singole manifestazioni di supremazia atletica e tecnica quella superiorità, anzi quella diversità antropologica rispetto a compagni e avversari, che ha permesso di inserirlo fin da subito, e legittimamente, nei discorsi che hanno coinvolto – e continuano a coinvolgere – Hakimi, Cancelo, Alexander-Arnold e tutti quelli che hanno proiettato nel futuro la figura, il ruolo e l’importanza del terzino. Eppure, a un certo punto, anche lui sembrava aver accettato una certa logica conservativa per cui era meglio “tenere la posizione”, evitando di lasciare scoperti quegli spazi in cui avrebbero potuto infilarsi a piacimento Pessina, Pasalic e Hateboer, e lasciando al solito Rafael Leão il compito di provvedere per sé e per gli altri – cosa che è effettivamente avvenuta.

Poi, all’improvviso, è arrivato il lampo che ha ristabilito l’ordine naturale delle cose, l’apparizione del solito Theo Hernández “with no regards for human life” che siamo abituati a vedere, pensare raccontare. Un coast to coast di 90 metri palla al piede, tagliando da sinistra verso destra e poi ancora verso sinistra, 13 secondi di delirio e onnipotenza in cui Koopmeiners, De Roon, Djimsiti, Musso e tutti gli altri che si sono visti superati a velocità doppia se non tripla, sembravano quasi scansarsi nel loro non riuscire a tenere un giocatore troppo più forte, troppo più veloce, troppo più cattivo, troppo più tutto: «Sono partito e mi sono detto: vado fino alla fine. Ho tirato e ho fatto un gol incredibile», ha detto a Dazn a fine gara, mentre intorno a lui San Siro impazziva di gioia e su Twitter le clip della sua solo run facevano il boom di interazioni e condivisioni. Così semplice eppure così difficile, proprio come l’idea che ci siamo formati su di lui in questi anni: un giocatore per certi versi persino prevedibile nella prevalenza della componente istintiva, diretta, verticale e fisica del suo gioco, eppure ugualmente inarrestabile, manifestazione di una volontà di potenza superiore, cui sembra difficile opporre qualsiasi tipo di resistenza.

Dal punto di vista strettamente numerico e statistico il 2021/22 di Theo Hernández non è stato poi così dissimile dal 2020/21 in cui il francese si era affermato come l’unico freak del campionato dopo Romelu Lukaku: al di là dei gol (5) e degli assist (6), parliamo del terzo “difensore” della Serie A sia per dribbling riusciti che per occasioni create. Nonostante questo, la percezione visiva e di campo – che è ciò che più conta quando si tratta di stabilire il peso specifico del singolo in un collettivo – sembrava essere quella di un giocatore non più così dominante come nei primi mesi del calcio post lockdown, quando valeva la pena seguire le partite del Milan quasi solo per essere testimoni dell’ennesimo momento in cui il numero 19 avrebbe brutalizzato il diretto avversario con una giocata in cui sarebbe stato difficile stabilire il confine tra forza e crudeltà, tra effettiva superiorità e semplice volontà di mettere l’altro – e gli altri – davanti al fatto compiuto della propria inadeguatezza.

La ragione è da ricercarsi nell’uso che Stefano Pioli ha fatto dei suoi terzini, all’interno di un contesto tattico in cui Theo, ma anche Calabria, Florenzi e, all’occorrenza, Kalulu, costituiscono i principali riferimenti nello sviluppo dell’azione, sia che si tratti di risalire il campo in verticale in pochi secondi che di allargarlo per poi stringere al centro in fase di rifinitura nell’ultimo terzo dopo aver consolidato il possesso: «Nella nostra fase di costruzione, la cosa fondamentale è che i giocatori si facciano trovare sempre aperti in ricezione, muovendosi e occupando preventivamente gli spazi», rivelò Pioli qualche tempo fa in un’intervista a DAZN, ampliando ulteriormente il concetto dopo la vittoria in trasferta a Cagliari: «Ho la fortuna di avere due terzini molto intelligenti, che sanno leggere gli spazi. Oggi il Cagliari è stato aggressivo fuori e ci ha lasciato più spazio dentro al campo. Noi siamo stati bravi a sfruttare questa situazione». In quell’occasione Calabria e Hernández sono stati decisivi nell’individuare e attaccare con continuità le tracce e le direttrici di passaggio che hanno poi portato al gol vittoria di Bennacer, costruito ribaltando il lato e spostando velocemente il pallone dall’esterno verso l’interno.

Non a caso, in una lunga intervista pubblicata su The Athletic lo scorso gennaio, Hernández ha individuato proprio in Pioli «l’allenatore che ha cambiato la mia vita», colui che «dal primo momento in cui sono arrivato al Milan mi ha dato quella sicurezza di cui avevo bisogno per ottenere di più del mio gioco e grazie a questo ho migliorato il mio rendimento». Volendo tradurre queste parole in fatti concreti si può dire che il tecnico rossonero è riuscito a diminuire l’irruenza e ad aumentare l’efficacia di tutto ciò che Theo fa in campo con e senza palla, facendo in modo che le sue doti tecniche e fisiche fossero al servizio del sistema senza che lo stesso ne risultasse poi dipendente; l’assist per il gol di Calabria a Bergamo dopo aver agito da mezzala/trequartista spurio entrando dentro il campo, la doppietta al Venezia, la solidità negli scontri diretti contro Inter e Napoli risultati poi decisivi nell’economia di un campionato giocato punto a punto, sono gli highlights stagionali di un giocatore forte, fortissimo, che incarna e definisce l’identità di un Milan che è riconosciuto e riconoscibile per caratteristiche e peculiarità, che è una soluzione, ma non la soluzione, di una squadra che ha vinto – e promette di continuare a farlo – anche per essere riuscita ad andare oltre se stessa e i suoi limiti, individuali e collettivi: «Oggi il calcio è cambiato e sta cambiando e i terzini stanno acquisendo un’importanza crescente per il loro peso specifico in campo. Io stesso certe volte mi vedo più come un regista, mi piace aiutare la squadra segnando e servendo un assist a un compagno».

A febbraio, alla vigilia del derby, Pioli disse che «Theo è cresciuto, sta diventando un giocatore veramente completo, con grandissime potenzialità. Deve puntare veramente al massimo: può essere un giocatore decisivo in entrambe le fasi e anche domani avrà modo di dimostrarlo». La multidimensionalità, soprattutto se intesa in un’accezione di completezza del repertorio di un esterno moderno, è l’aspetto che definisce la vera crescita di Theo Hernández, il suo valore nel medio-lungo periodo, il suo essere riuscito a smentire la narrazione preconfezionata del “terzino che non sa difendere” e quindi poco adatto al campionato italiano. In quel derby il francese fu espulso per un fallo speso per evitare l’ultima ripartenza realmente pericolosa dell’Inter ma, più in generale, disputò 90’ di pura applicazione, ben al di là dei numeri – 2 contrasti vincenti, altrettanti recuperi decisivi,  4 intercetti – che raccontano come il suo modo di difendere non sia più solo una questione strettamente fisica, di fiducia di poter rimediare a un errore di marcatura o posizionamento sfruttando unicamente il suo atletismo fuori scala, ma di letture preventive, concentrazione, tenuta mentale, pulizia d’esecuzione: «Un terzino deve prima difendere e poi attaccare ed è su questo che sto cercando di migliorare lavorando giorno dopo giorno. Sono ancora giovane e ho tanti altri anni di calcio davanti a me, per questo sto cercando di migliorare in tutti gli aspetti del mio gioco in cui mi sento carente, e la fase difensiva è una di queste».

Anche nel calcio in cui Paris Saint-Germain e Manchester City stanno materialmente “comprandosi” la propria attuale grandezza, non si smette mai di essere un grande club, nella misura in cui esiste ancora «qualcosa di intangibile che crea una distanza ancora ampia, tra le big storiche e quelle in via di costruzione, di formazione». Mbappé e il suo rifiuto al Real Madrid per via di un rinnovo a cifre fuori mercato sembrerebbe aver smontato questo assunto, eppure quando Theo Hernández racconta della sua infanzia passata a veder giocare Maldini – «è grazie a lui se sono diventato il giocatore che sono oggi» – parla proprio di questo, di uno status acquisito, immutabile, che resiste al tempo, alle distanze, alle contingenze sfortunate e ai momenti bui. Cioè tutto ciò attraverso cui il Milan è dovuto passare per tornare ad essere il Milan, per riconquistare qualcosa che era già suo e che sembrava aver smarrito.