Promesse diverse

Intervista a Hamed Junior Traoré ed Edoardo Bove.

Hamed Junior Traorè non ha bisogno di presentazioni. In un calcio come quello italiano che spesso si autoaccusa di non impiegare a sufficienza i giovani, il centrocampista del Sassuolo è tra quelli che più di tutti smentisce la vulgata: a 22 anni, ha già giocato oltre 120 partite in Serie A. Ci è arrivato quando aveva appena 18 anni, con la maglia dell’Empoli, quando fu uno dei più impiegati in assoluto tra i toscani. Con il passaggio al Sassuolo nel 2019, le cose non sono cambiate, se non in meglio, facendo dell’ivoriano uno dei giovani più interessanti del nostro campionato: «Ma io non ci penso», dice lui, «e le persone che mi sono accanto mi aiutano tantissimo a farlo». Traorè ha il volto disteso, sorride spesso nel corso dell’intervista, è certamente lontano da certi standard paludati del mondo del calcio. Si vede che sta realizzando il suo sogno: «Sì, per me era un sogno fare il calciatore», conferma. Al punto da lasciare la sua famiglia in Costa d’Avorio per l’Italia quando aveva appena quattordici anni. «È stato difficile, ma non ci pensavo, ero contento, e poi mia madre ha sempre saputo dirmi le parole giuste per andare avanti. Dopo aver fatto provini a destra e sinistra, a quindici anni ero all’Empoli: per me era tutto nuovo, dovevo andare a scuola, non parlavo nemmeno la lingua. Ma ero dentro il mio sogno, avevo in testa di fare bene, di arrivare dove volevo».

La sua ascesa con la maglia dei toscani è stata rapidissima: «È successo tutto velocemente. Giocavo negli Allievi Nazionali, poi dopo qualche partita ho avuto cinque giornate di squalifica e così mi hanno aggregato in Primavera. Dopo poche settimane ero già titolare, e a 16 anni già mi portavano ad allenarmi in prima squadra. I giovani in Italia giocano, ma è giusto che abbiano più opportunità di scendere in campo. Bisogna avere la fortuna di trovare un allenatore che ti dia fiducia». Un concetto che per Traorè ha assunto le sembianze di Aurelio Andreazzoli: «Mi ha insegnato tantissimo, con lui sono davvero migliorato». E poi, a Sassuolo, sono arrivati De Zerbi e Dionisi: «Sono stato fortunato nell’avere avuto tutti allenatori simili per modo di giocare. De Zerbi mi ha insegnato la fame, il non mollare mai. Dionisi mi ha fatto capire di non dover pretendere le cose, ma di andare a cercarle».

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Se chiedete a Traorè qual è il suo talento migliore, vi risponderà prontamente e con un entusiasmo contagioso: «La tecnica!». È facile rimanere ipnotizzati da quello che riesce a fare in campo, con la sua padronanza con il pallone tra i piedi abbinata a un senso pratico nella scelta della giocata: nel sistema offensivo del Sassuolo, un’arma micidiale. E dire che anche uno come lui deve conquistare il proprio spazio, la propria dimensione, ogni giorno: «Un giovane deve dimostrare all’allenatore che ha fame, che può fare la differenza in campo. Qui nel Sassuolo passo tanto tempo con un mio compagno di squadra: lui è bravo nel puntare l’uomo, ma a volte non lo dimostra. Ma sai puntare o no, gli chiedo. E allora punta! Gioca sulle tue qualità, fai vedere quello che sai fare! Io stesso prima non lo facevo. Non so se era un discorso di fiducia, ma l’ho capito dopo. C’era un periodo in cui non giocavo, ero un po’ arrabbiato, avevo voglia di dimostrare le mie qualità. A un certo punto mi sono fatto delle domande, mi sono detto: se voglio davvero arrivare in alto, devo lavorare».

Il pungolo di giocare in Coppa d’Africa, nello scorso inverno, gli è servito da molla. «Ho cominciato a rivedere le mie partite, sapevo di non essere al top. Così ho iniziato a lavorare fisicamente anche a casa con un preparatore, ho cambiato alcune abitudini di vita, come l’alimentazione, sono diventato un professionista vero. Poi guardi i campioni, come si comportano, ho cercato di rubare un po’ da loro, dando il massimo in allenamento, mettendomi in mostra. Sta andando bene… ma non è un punto di arrivo».

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Edoardo Bove

Prendete un ragazzo romano di 19 anni che gioca nella Roma da quando ne aveva dieci, immaginatelo arrivare in prima squadra, segnare il primo gol in Serie A, un gol pesante, che vale un pareggio. Chiunque al suo posto esploderebbe di gioia, ma non Edoardo Bove, che dopo aver realizzato la rete del 2-2 al Verona, all’ottava presenza in A, si comporta come un veterano qualunque: «È stato istintivo correre verso il centrocampo per provare a recuperare il risultato. Certo, il giorno dopo è arrivato un misto di emozioni: a ripensarci, una corsa sotto la Sud, quasi quasi… Ma quando entri in campo non importa chi gioca, nemmeno chi segna. L’importante è che la Roma vinca».

Classe 2002, Bove è uno dei centrocampisti italiani più promettenti: ha facilità di calcio, intelligenza tattica e fa parte di quella schiera di giocatori moderni a proprio agio in ogni ruolo del centrocampo. Ma per il momento, dice, «ancora non ho fatto nulla». Spiega: «Se uno cambia modo di pensare dopo un gol non fa tanta strada. Io ho voglia di continuare a lavorare per migliorarmi, perché già adesso li ho notati i miei miglioramenti: è come andare in palestra e vedere dopo sei mesi i tuoi risultati, è una soddisfazione. Ma devi continuare ad allenarti in un certo modo, a seguire un piano di alimentazione, altrimenti torni indietro».

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È il suo primo anno in pianta stabile in prima squadra, ma per Bove la fretta di prendersi più spazio può attendere: prima c’è da imparare, da perfezionarsi. «Sicuramente è un anno molto importante per me, è un ambiente totalmente diverso rispetto alla Primavera, per gli allenamenti, per il ritmo in campo. Per arrivare fin qui ci ho messo del mio: credo molto nel lavoro, nella crescita se ti alleni ogni giorno con la giusta mentalità, senza abbattersi se magari giochi un po’ meno».

Gli esempi a cui ispirarsi, ogni giorno, non mancano: «Pellegrini, Veretout, Cristante, Oliveira, eccetera… di loro vedo tutte le sfaccettature in allenamento. Si potrebbe pensare che i giocatori siano tali solo la domenica, in realtà non è così, gli allenamenti contano. Uno vede Pellegrini che segna spesso su punizione: perché? Se lo vedi in allenamento, sai che ogni volta si ferma a calciare punizioni, quello che fa in partita non è una casualità». In questa fase, poi, ha trovato in Mourinho un prezioso mentore: «Il mister ci ha trasmesso una mentalità vincente, fin da inizio anno. È uno molto attento al lavoro, ai singoli dettagli, non permette a nessuno di calare un pochino in allenamento, perché è subito lì a spronarti. Poi dice le cose in faccia, ed è una delle cose che apprezzo di più».

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In molti riconoscono in Bove una maturità non comune per la sua età, qualcosa che lui ricollega direttamente alla sua educazione: «Fare il calciatore è sempre stato il mio sogno e ora è diventato il mio lavoro, ma la mia famiglia ha sempre voluto che non pensassi solo al calcio, ma che mi creassi due strade. Infatti sto continuando a studiare, sono al secondo anno di università, facoltà di Economia. Reputo il valore del lavoro una delle cose più importanti e non posso che ringraziare i miei genitori». Pure il calcio è un’eredità familiare: «La passione di mio padre per il calcio è sempre stata enorme: lui è napoletano e il Napoli è sempre stato un suo pallino fisso. Ma da quando gioco nella Roma, c’è stata una tale conversione… io gli dico, ma sei un occasionale! E lui mi dice, non sai cosa significa essere padre».

Bove, invece, non ha mai conosciuto alternative alla Roma: «Essere romano e romanista non è un peso, ma un onore. Già nel settore giovanile c’è grande attaccamento alla maglia, ti insegnano a vedere la Roma come un punto di arrivo. Se vai a vedere chi sono le ultime bandiere del nostro calcio, sono giallorosse…». Nel frattempo, ha pure sperimentato l’idea di indossare la maglia azzurra, perlomeno a livello giovanile, fino all’Under 20. Ma è vero che il nostro calcio non riesce a premiare i giovani? «Io penso che tutti i settori giovanili italiani lavorino molto bene, sono al livello di tutte le altre squadre europee, questo lo vedi anche con i risultati. Arriva poi un momento in cui nelle realtà estere c’è più coraggio di buttare un giovane nella mischia rispetto a quanto accade da noi. In Italia poi c’è questa visione: se un giovane fa male viene bruciato, ma non è così, è un percorso lungo. Bisogna dare ai giovani la possibilità di sbagliare, perché è anche attraverso gli sbagli che si riesce a crescere».

Da Undici n° 44
Foto di Piergiorgio Sorgetti