Campioni d’ombrellone: Juventus 2009/10

Era la Juventus di Ferrara, Diego e Felipe Melo: doveva essere la stagione del riscatto, finì nel modo peggiore possibile.

L’estate calcistica è il tempo dei sogni e delle fantasie, spesso trainati dal calciomercato, dal nuovo acquisto in grado di risollevare l’umore di un ambiente, del desiderio che la stagione ricominci in fretta perché si ha il sentore che sia, finalmente, quella “giusta”. Ma nella storia del calcio italiano molte stagioni ammantate di grandi aspettative si sono risolte in spettacolari fallimenti. Questa è la prima puntata.

«Non temo assolutamente qualsiasi decisione dovesse prendere la società, che deve essere tranquilla nel fare le proprie valutazioni. In questo momento la mia preoccupazione è quella di cercare di invertire la tendenza». Il 10 gennaio 2010 Ciro Ferrara si trova nella mixed zone dello Stadio Olimpico di Torino e sta commentando ai microfoni di Controcampo lo 0-3 interno contro il Milan, quarta sconfitta della Juventus nelle ultime sei partite. Lo sguardo è basso, il tono dimesso. A un certo punto però, dopo una pausa scenica che sembra preparata, la parlata di Ferrara riprende vigore, persino il volto sembra illuminarsi di una luce nuova: «Mi sembra di aver visto in studio Maifredi, no?».

A quel punto, le telecamere staccano su Gigi Maifredi. Il volto è quello di chi sa cosa sta per succedere, eppure riesce a non tradire la minima emozione mentre Ferrara riprende il discorso: «Beh eventualmente la Juventus può già aver trovato il sostituto». Ci vuole poco prima che i toni degenerino, comunque abbastanza perché il conduttore Alberto Brandi riesca a dare un minimo di contesto: erano mesi che Maifredi non lesinava critiche nei confronti del tecnico bianconero – «Io al posto di Ferrara sarei già sopra l’Inter ed in testa alla classifica» aveva detto a novembre – e prima della partita contro i rossoneri aveva ribadito che «la Juventus con i giocatori che ha dovrebbe vincere lo scudetto».

La reazione di Ferrara però non dipende tanto, o non dipende solo, dal tenore delle critiche ma da chi le ha pronunciate: Gigi Maifredi è l’allenatore del settimo posto del 1991, il fantasma del Natale passato, lo spettro che ciclicamente agita le notti insonni dei tifosi juventini, l’epitome di ciò che un tecnico della Juve e da Juve non deve mai essere. Ferrara lo sa e nelle sue risposte al vetriolo condensa un disprezzo e un livore che non appartiene solo a lui ma ad un’intera tifoseria.

Poco più di due settimane dopo, al termine di un mese di gennaio da incubo, Ferrara viene effettivamente esonerato: a essergli fatale è la sconfitta in Coppa Italia contro l’Inter, che arriva dopo i ko contro Roma e Chievo. Nella conferenza stampa della vigilia, quando sui media già si stava facendo il nome di Claudio Gentile traghettatore in attesa di Rafa Benitez, aveva trovato comunque il tempo di scherzarci su: «Vedo il pubblico delle grandi occasioni: del resto c’è Inter-Juve e mi aspetto che si parli della gara. Se poi c’è un periodo in cui le cose non vanno bene, devo accettare le decisioni della società senza peraltro avercela con questa. L’unica cosa in cui la Juve non è riuscita è farmi diventare più bello». Al suo posto, due giorni dopo, viene chiamato Alberto Zaccheroni.

A oltre dieci anni di distanza sappiamo che il principale motivo del fallimento di quella stagione è da ricercarsi nella difficoltà di Ferrara di relazionarsi in maniera credibile come allenatore verso alcuni di quelli che, un tempo, erano i suoi compagni di squadra, perdendo progressivamente autorità anche nei confronti del resto del gruppo: «Alla fine dover dirigere alcuni amici è stato un problema. L’autorità dell’uomo di campo è mancata nei momenti di crisi, quando i dirigenti parlavano alla squadra, anche in tono aspro, e ai giocatori si leggeva in viso ‘chi diavolo sei per dirmi cosa devo fare?’» raccontò in un’intervista alla Gazzetta dello Sport pochi mesi dopo l’esonero. Tuttavia anche gli aspetti di campo rivestirono un ruolo decisivo, a partire proprio dalla scelta dell’allenatore.

In questo senso sembra che il prescelto, almeno inizialmente, debba essere Antonio Conte, reduce da una brillante promozione in Serie A con il Bari. Durante i primi colloqui esplorativi, però, pare che il tecnico salentino chieda che gran parte del budget di mercato venga destinato all’acquisto di due esterni offensivi da collocare nel suo 4-2-4 che significherebbe la rinuncia a Diego o un suo impiego in pianta stabile da seconda punta, nello slot già occupato da Del Piero – «Vuole giocare sempre, e a volte questo diventa un problema», avrebbe poi ricordato Ferrara. La fiducia nelle qualità del trequartista brasiliano, che aveva trascinato quasi da solo il Werder Brema alla finale di Coppa UEFA e che è uno dei giocatori più in vista del panorama internazionale – «È tra i tre calciatori under 25 più forti del mondo, vale quanto Messi e Ronaldo» dice Gianluca Vialli a Tuttosport – è tale che alla fine la società si convince a confermare Ferrara, subentrato a Ranieri nelle ultime due giornate del campionato precedente da responsabile del settore giovanile: «Non è detto che uno debba partire facendo l’allenatore, anche il tipo di percorso fatto da me o da Leonardo nel Milan può essere positivo. Diego è un giocatore appena acquistato, di grandissimo valore, che va inserito in un contesto e un modulo di gioco diverso da quello degli ultimi due anni. In questo momento, con quelle che sono le caratteristiche dei giocatori acquistati e di quelli in rosa, un 4-3-1-2 potrebbe essere il modulo migliore» dice nella conferenza stampa di presentazione.

Si tratta dell’onda lunga dell’effetto Guardiola, la convinzione per cui l’essere stato un grande giocatore sia una condizione sufficiente per essere anche un grande allenatore, o comunque un allenatore che può sedere sulla panchina di una squadra che punta alla vittoria della Champions League. Uno status che la Juventus si è guadagnata anche attraverso una campagna acquisti di spessore: c’è Diego, certo, ma anche gli arrivi di Felipe Melo e Grosso e il ritorno di Fabio Cannavaro sembrano proiettare i bianconeri in una dimensione diversa e ulteriore rispetto a quella di “nobile decaduta in ricostruzione” dei due anni precedenti.

E le attese, almeno inizialmente, vengono rispettate: la Juventus vince con una facilità disarmante le prime quattro partite di campionato, comprese le due trasferte consecutive all’Olimpico contro Roma e Lazio, segnando otto gol e subendone appena uno. Contro i giallorossi è una doppietta di Diego ad alimentare quell’idea di grandezza ritrovata che, fino a quel momento, sembrava essere soltanto una suggestione estiva, una magnifica illusione alimentata dal linguaggio onirico e sognante delle notizie di calciomercato; Maurizio Compagnoni, che sta commentando la gara per Sky, dice che «la Juventus, per 24 milioni e mezzo, ha acquistato uno dei calciatori più forti del mondo».

Poi, all’improvviso, qualcosa si rompe. I due pareggi piuttosto casuali contro Genoa e Bologna sono le prime crepe sul muro di una crisi che si manifesta in tutta la sua evidenza la sera del 4 ottobre, quando la Juve cade a Palermo sotto i colpi di Cavani e Simplicio: «La Juve fino al pesante ko di Palermo stava andando avanti, da un po’ di settimane e da una partita all’altra, a colpi di “ci sta”. Ci sta che la Juve pareggi in casa una brutta partita col Bordeaux, ci sta che pareggi in casa del Genoa, ci sta ri-pareggi in casa col Bologna, ci sta che pareggi a Monaco contro il Bayern. Finché invece di passare dal pareggio – e quindi dallo scetticismo – alla vittoria, si fa addirittura un passo indietro e si viene addirittura presi a schiaffi a casa del Palermo di Zenga. Prima pesantissima sconfitta della gestione Ferrara. Alla fine tanta comprensione è stata forse mal ripagata», scrive il giorno dopo Fabrizio Bocca su Repubblica, alla vigilia di un ciclo di 14 partite in cui la Juventus perde la vetta del campionato e si fa eliminare dalla Champions League con due sconfitte nelle ultime due gare del girone contro Bordeaux e Bayern Monaco.

In realtà più che una concatenazione di eventi e circostanze sfortunate, a frenare i bianconeri sono le contraddizioni e le incongruenze tattiche e di costruzione della rosa. Il rombo di centrocampo ad esempio, pensato per esaltare le qualità di Diego, si trasforma ben presto in un boomerang soprattutto per la scelta degli interpreti: il vertice basso davanti alla difesa è Felipe Melo, mentre Poulsen – che si porta ancora dietro lo stigma di essere colui che è arrivato al posto di Xabi Alonso –, Marchisio e Sissoko sembrano poco funzionali nello schema tattico. Lo stesso Diego si ritrova sperduto nel sistema di gioco, insieme ai due titolari offensivi di inizio stagione, Iaquinta e Amauri, che combinano poco. Il resto lo fanno le condizione precarie di Camoranesi, la sostanziale incollocabilità di Giovinco, l’ostracismo a tratti incomprensibile verso Tiago, la presenza fin troppo ingombrante di Del Piero e Trezeguet anche nelle situazioni che ne richiederebbero l’esclusione.

Da protagonista annunciata della stagione la Juventus si trasforma in una squadra umorale e incostante, totalmente in balìa dei singoli eventi all’interno della partita indipendentemente dalla loro natura, capace di battere l’Inter di Mourinho e di farsi recuperare due gol di vantaggio in casa dal Napoli di Mazzarri. Il 12 dicembre, a Bari, finisce sostanzialmente la stagione di Diego: il rigore calciato in curva a 20’ dalla fine con il Bari avanti 2-1 sancisce il fallimento di un progetto durato lo spazio di un’estate.

Quando, il 29 gennaio, si insedia Zaccheroni la Juventus è sesta in classifica ma con la zona Champions comunque ancora ampiamente alla portata. La scelta del tecnico romagnolo – che firma un contratto di sei mesi – si colloca perciò in un’ottica conservativa, che mira alla salvaguardia dell’obiettivo minimo prima dell’ennesima rivoluzione estiva. I due pareggi anonimi contro Lazio e Livorno diventano, però, la spia accesa di un motore che appare già in riserva nonostante l’ottimo impatto di Candreva, arrivato in prestito dall’Udinese, e un Del Piero tornato in condizioni di forma accettabili: «Quello che conta maggiormente è volere la vittoria in undici, anzi, in diciotto, perché nel corso della partita c’è bisogno anche di quelli che stanno inizialmente fuori» avverte Zac prima dell’1-1 dell’Armando Picchi, subodorando il progressivo scollamento di un gruppo in cui persino i giocatori senatoriali sembrano aver perso qualsiasi tipo di stimolo e interesse.

A marzo il 2010 bianconeri assume i contorni della tragicommedia, con alcuni momenti decisamente surreali: il 14 Del Piero festeggia i gol 300 e 301 della carriera in un Juventus-Siena 3-3 in cui i toscani recuperano tre gol di svantaggio grazie a un Maccarone formato Fernando Torres; quattro giorni dopo arriva l’eliminazione dall’Europa League per mano del Fulham di Roy Hodgson che a Craven Cottage ribalta agevolmente il 3-1 dell’andata nonostante il gol di Trezeguet dopo un minuto e 38 secondi e dà il via alla “settimana terribile” chiusa dalle due sconfitte consecutive contro Sampdoria e Napoli, certificando la rinuncia a ogni ambizione europea; il 28, durante uno Juventus-Atalanta giocato in una clima di totale contestazione – sfociata anche in un’aggressione fisica a Zebina prima del trasferimento della squadra allo stadio – Felipe Melo, diventato il capro espiatorio perfetto ben al di là dei suoi effettivi demeriti, segna il gol del 2-1 ed esulta scusandosi platealmente con il pubblico che dopo qualche secondo riprende a fischiarlo come e più di prima.

Il 15 maggio, a poco più di cinque mesi dall’intervista da “dead man walking” di Ferrara, è Zaccheroni a presentarsi in mixed zone dopo un 3-0 del Milan sulla Juventus – gol di Antonini e doppietta di un Ronaldinho crepuscolare, in una gara dai contenuti tecnici ed emotivi pressoché nulli. Paolo Aghemo di Sky gli chiede come si possa spiegare una prestazione del genere e il tecnico risponde, semplicemente, che «la partita non c’è più stata dopo che il Milan è andato in vantaggio». Il linguaggio del corpo è totalmente diverso da quello del predecessore un girone prima; in Ferrara c’era tutta l’amarezza di chi si era trovato a fare i conti con dei limiti che non pensava di avere, stavolta a emergere è la dignitosa rassegnazione verso una situazione che non era più gestibile in alcun modo: «Avevo chiesto ai giocatori una prestazione diversa, ma bisogna poi prendere atto di quello che ha detto il campo».

La Juventus chiude il 2009/2010 al settimo posto in classifica, a 27 punti dall’Inter campione e a 12 dal quarto posto, e ai preliminari di Europa League solo perché  la finale di Coppa Italia si è giocata tra Inter e Roma. Il 19 maggio Andrea Agnelli diventa ufficialmente il quarto Agnelli esponente della famiglia a ricoprire il ruolo di presidente e quattro giorni dopo Antonio Conte siede su una panchina bianconera, quella del Siena. Perché a Torino, intanto, è già arrivato Gigi Del Neri, artefice dell’incredibile qualificazione della Sampdoria in Champions League: «Sono emozionato ed è una cosa logica ma sono anche sicuro di quello che si deve fare e di quello che ci aspetta in questo periodo. È la sfida più importante della mia carriera». Nemmeno un anno prima Ciro Ferrara aveva detto che «il mio grande sogno si è avverato».