L’ambizione di Spalletti è rivoluzionaria per il Napoli

La sua sperimentazione tattica e le sue parole hanno avuto un peso enorme nella storica vittoria contro il Liverpool.

Il fatto che il Napoli e il suo stadio siano ormai da considerare come la kryptonite di Jürgen Klopp – quattro sconfitte in quattro gare al Maradona fu San Paolo, per il tecnico tedesco – non può e non deve far passare in secondo piano i meriti enormi di Luciano Spalletti. Basta riavvolgere il nastro di Napoli-Liverpool per rendersene conto: a quaranta secondi dal fischio d’inizio, dopo una costruzione bassa fatta apposta per attirare il pressing degli avversari, Giovanni Di Lorenzo ha lanciato un pallone alle spalle della difesa dei Reds e così ha messo Victor Osimhen davanti ad Alisson, solo in posizione leggermente defilata, allora il nigeriano ha dovuto aggirare il portiere allargandosi ancora e il suo tiro è finito sul palo esterno; un’azione del genere potrebbe anche essere stata casuale, se non fosse che il Napoli ha continuato a fare la stessa cosa per tutto il resto della partita. A farla bene. Ma non solo: oltre a questo meccanismo ben collaudato – che, non a caso, ha determinato il gol di Zielinski in apertura di ripresa e diverse altre occasioni – la squadra azzurra ha mostrato grande padronanza nella gestione del pallone nel proprio terzo di campo, grazie soprattutto alle prestazioni sontuose di Lobotka e Anguissa, ha saputo esplorare benissimo la profondità per merito di Osimhen e Kvaratskhelia, entrambi bravissimi a danzare perennemente sulla linea del fuorigioco, ed è riuscita spesso a sporcare la costruzione bassa degli uomini di Klopp, se non addirittura a riconquistare il possesso in zone avanzatissime di campo.

Spesso si dice e si scrive che le squadre di Serie A facciano fatica a esprimere un gioco che ci piace definire europeo, intenso e verticale ma non casuale o improvvisato. E che per questo, oltre che per un evidente gap economico e quindi tecnico, i risultati delle italiane in Champions ed Europa League nell’ultimo decennio sono stati, come dire, tutt’altro che soddisfacenti – a parte qualche isolato exploit. C’è sicuramente un fondo di verità in questa affermazione, ma ciò non significa che le cose non possano essere cambiate. Che non si possa fare diversamente senza avere la stessa qualità individuale, quindi collettiva, dei top club.

Sono giorni che Luciano Spalletti dice esattamente questo. E non si limita a dirlo: lo fa e – soprattutto – lo fa fare alla sua squadra. La grande prova offerta dal Napoli contro il Liverpool, un saggio di resistenza e concentrazione e tecnica ad alta intensità – è il seguito ideale di quanto è successo a Roma, allo stadio Olimpico, sabato scorso: la Lazio è andata in vantaggio dopo pochi secondi di gioco, il Napoli ci ha messo una mezz’oretta per riorganizzarsi e poi ha alzato i giri del motore in modo impressionante, al punto da costruire 14 conclusioni verso la porta di Provedel – da cui sono scaturiti due gol, due pali e almeno un altro paio di occasioni pulitissime – in mezz’ora di gioco effettivo. È sembrato di assistere all’arrivo di una valanga o di un tornato addosso alla squadra di Sarri, che ha resistito solo fino a un certo punto. Poi ha dovuto cedere.

Dopo la partita con la Lazio, quindi prima della notte da sogno contro il Liverpool, Spalletti ha detto che non avrebbe firmato per il pareggio contro la squadra di Klopp. Il fatto che si tratti di una frase preconfezionata non può – non deve – toglierle senso: evidentemente l’allenatore del Napoli sapeva e sa che i suoi giocatori sono in grado di giocare in questo modo, per mezz’ora o anche per un tempo più lungo – dopotutto per domare il Liverpool ci sono voluti almeno 70 minuti di concentrazione assoluta, e infatti i giocatori del Napoli erano sfiniti. Lo ha ribadito anche dopo la fine della gara contro i Reds, in un’intervista rilasciata ad Amazon Prime in cui sembrava stanco – qualche ora prima aveva subito un intervento per la riduzione di una frattura alla clavicola – ma anche non sorpreso di come fossero andate le cose: «Abbiamo fatto il Napoli contro una grande squadra. Nessuna lezione, nessuna arroganza, dobbiamo fare esattamente questo fin da domani mattina: allenarci bene come abbiamo giocato stasera, non è che sabato contro lo Spezia accendiamo una luce e vinciamo di nuovo così».

Al di là della considerazione un po’ retorica sul fare il Napoli, l’atteggiamento di Spalletti è solo da elogiare. È un cocktail di esperienza, consapevolezza e fiducia: la sua rosa magari non è e non sarà attrezzata per sperare di arrivare in fondo in Serie A e pure in Champions League, ma possiede tutto ciò che serve per praticare un calcio europeo, intenso e verticale ma non casuale o improvvisato. Per scendere in qualsiasi arena e affrontare qualsiasi avversario senza timori reverenziali. Spalletti lo sa, lo sente. E allora, deve aver pensato: perché non proiettare anche in campo questa ambizione, magari andando a prendere il Liverpool fin dentro la sua metà campo? Perché non provare a giocarcela a viso aperto, con le nostre armi e le nostre idee, ma senza dimenticare di provare ad approfittare dei bug di sistema dei nostri avversari, anche se sono più forti? Stavolta questo approccio si è rivelato giusto, funzionale, ha determinato un successo di portata storica. Altre volte andrà male, è inevitabile, ma nel frattempo il Napoli e i suoi giocatori avranno provato a fare cose nuove, diverse e forse anche più difficili, quindi saranno cresciuti un po’ di più. Tutto questo è rivoluzionario, per la squadra azzurra. Ma è anche il senso di fare l’allenatore, di essere allenatore: provare a vincere le partite, e a sviluppare il talento.