Il David Beckham coreano si chiama Son Heung-min

Leadership tecnica, visibilità e collaborazioni fashion: l'attaccante degli Spurs ha portato la Corea in un'altra epoca calcistica.

«Welcome to Seoul». Il cartello su cui erano riprodotte queste parole sventolava nelle mani di Son Heung-min: era il suo personalissimo benvenuto ai compagni di squadra del Tottenham, arrivati in Corea del Sud per la tournée di precampionato. Ogni tanto, Son si voltava e ondeggiava la mano in direzione dei numerosi tifosi ammassati dietro le transenne, arrivati in aeroporto per vedere da vicino alcuni dei loro idoli della Premier League. Più di tutti, però, era Son l’osservato speciale. Le decine di maglie bianche del Tottenham, non a caso, avevano tutte sul dorso il numero sette. Le mani protese verso l’attaccante e le urla di entusiasmo quasi inebetivano il povero Son, che a queste scene, però, è certamente abituato – in Corea la gente ha preso a tracciare i voli su cui è a bordo, pur di poter strappargli una foto o un autografo. Nei giorni seguenti, il Paese si sarebbe fermato. Per la prima partita del Tottenham, a Seoul, contro una selezione del campionato locale, i 64mila biglietti in vendita del Seoul World Cup Stadium sono stati polverizzati in 25 minuti. All’esterno dell’impianto, bagarini rivendevano i ticket a costi da capogiro: fino a 3000 dollari, cifre che sarebbero più logiche per una finale dei Mondiali o di Champions. Nella capitale coreana, quattro ore prima del calcio d’inizio le strade erano già intasate di fan, con il traffico bloccato nelle principali arterie cittadine.

Qualche giorno dopo, scene simili si sono riviste a Suwon, dove il Tottenham affrontava il Siviglia. In venti minuti di vendita, tutti i posti a sedere erano andati sold out. Chi aveva avuto la fortuna di accaparrarsi un biglietto, era allo stadio con maglietta bianca degli Spurs, intonando i cori che abitualmente risuonano dalle parti del nord londinese. Avete capito chi è Son Heung-min in Corea del Sud? Non soltanto un giocatore del Tottenham, né semplicemente un bravo attaccante della Nazionale. È il calcio. È una parte importante della cultura coreana, al pari del K-pop, di Parasite o di Squid Game. Ogni anno, Forbes Korea stila una “Power Celebrity”, un ranking delle quaranta personalità coreane più influenti: nella lista di quest’anno, l’attaccante degli Spurs è al terzo posto, dietro i colossi musicali dei BTS e delle Blackpink.

Negli anni Novanta l’Inghilterra aveva David Beckham e le Spice Girls, oggi la Corea del Sud ha Son e le star del K-pop. L’attenzione mediatica su di lui, con le dovute differenze, è la stessa. Ogni volta che Son disputa una bella prestazione, racconta qualcosa in più di sé o della sua squadra, presta il volto a una campagna pubblicitaria, in Corea diventa materia di conversazione. Solo che difficilmente attirerà commenti negativi per qualche sua paparazzata di troppo, per un taglio di capelli che fa tendenza o per farsi buttare fuori in un ottavo contro l’Argentina (per ora). Son è molto popolare nel suo Paese ed è anche una figura trasversale: è amato sia tra i giovanissimi che tra le fasce di età più anziane, è conosciuto e apprezzato tanto da chi segue assiduamente il calcio quanto da chi ha altri interessi. La Corea del Sud si aspetta molto da lui: che riporti la sua Nazionale almeno alla fase a eliminazione diretta, dopo due uscite di fila alla fase a gironi. Quattro anni fa, ai Mondiali di Russia, Son segnò due reti, tra cui il 2-0 alla Germania, approfittando di Neuer che pasticciava con il pallone tra i piedi nella trequarti avversaria. Non bastò: la Corea finì soltanto terza.

Son ha solo 30 anni, ma è un veterano da top 10 tra i più presenti in Nazionale, a sole 30 presenze dal primo posto. Ha esordito dopo il Mondiale del 2010, andando a segno sia nell’edizione del 2014 che in quella del 2018. Miglior giocatore d’Asia per 3 anni, ha vinto per ora soltanto un’edizione dei Giochi Asiatici, nel 2018 (Catherine Ivill/Getty Images)

In Qatar, Son arriva, decisamente, con un altro status. Dagli ultimi Mondiali, Son è stato promosso a capitano della Nazionale, ha disputato una finale di Champions League, ha vinto il titolo capocannonieri della scorsa Premier League, a pari merito con Momo Salah. Due figli di due culture diverse, lontane dal fulcro del calcio mondiale, che segnano il maggior numero di gol nel campionato nazionale più ricco e prestigioso che ci sia, nel Paese, l’Inghilterra, con la più grande e affollata tradizione calcistica che ci sia. A differenza di Salah, però, Son arriva da un Paese e soprattutto da un intero continente che nel calcio ha avuto pochissimi momenti di gloria e moltissime difficoltà nell’affermarsi. Quasi nessun eroe da idolatrare, soprattutto. Son, per molti, è già adesso il miglior calciatore asiatico mai esistito. In effetti, ancora oggi, nel calcio globale e globalizzato del Ventunesimo secolo, non è scontato che tra i nomi più gettonati di un Mondiale, in mezzo alle fuoriserie brasiliane, francesi, argentine, tedesche, spagnole, ci sia anche un esponente del “nuovo mondo”. Questo è Son: un pioniere, l’immagine di un calcio nuovo che avanza.

Anche per questo, Son è molto altro rispetto alla sua dimensione tecnica. Da trait d’union tra il football nella sua accezione più tradizionale – il calcio inglese, con la sua passione, la sua storia e le sue squadre arcinote in tutto il mondo – e un Paese/continente con una relativamente giovane attrazione per il calcio, con l’organizzazione del Mondiale 2002 come spartiacque epocale, Son è davvero l’eroe di due mondi. In un’epoca in cui i calciatori si vestono bene, hanno profili social curatissimi e seguitissimi (l’account Instagram di Son ha otto milioni di follower), hanno opinioni che possono influenzare positivamente i comportamenti di chi li segue, l’attaccante sudcoreano è il fit perfetto come identikit del calciatore del futuro. Negli ultimi mesi, Son è diventato ambassador di due marchi importanti come Burberry e Calvin Klein. L’attaccante del Tottenham non è nuovo a endorsement – è stato testimonial di brand tanto internazionali, come Gillette, quanto di aziende coreane come Yuhan e Binggrae. Ma la scelta di due giganti del fashion di puntare su di lui è molto più significativa. Uno, perché il mondo della moda, solo pochi anni fa refrattario ad accostarsi all’immagine del calcio, ha oggi un peso molto notevole nella definizione dello status pubblico di un calciatore – che deve, in qualche modo, interpretare il dna di un brand, e questo non è affatto scontato. Due, perché le operazioni di Burberry e Calvin Klein guardano contemporaneamente a due mercati: quello inglese e più in generale europeo, e quello coreano e più in generale asiatico.

Son Eè il capitano della Nazionale, e in quanto tale l’uomo simbolo del calcio sudcoreano. Ma è di più: l’edizione coreana di Forbes l’ha selezionato al terzo posto tra i coreani più influenti, dopo i BTS e le Blackpink, colossi musicali capaci di riunire centinaia di milioni di follower (Jung Yeon-je/AFP via Getty Images)

Avere un testimonial così potente, per la Corea del Sud, è una coincidenza felice, perché aumenta la popolarità in un Paese che, nel rapporto con il calcio, sta tracciando nuove interessanti direzioni. A Seoul sono nati e si stanno imponendo sempre più al centro dell’attenzione vari collettivi che cercano di rielaborare, in un senso street e fashion, la tradizionale estetica del calcio: Nivelcrack, Over the Pitch, Pepperoni Seoul e altri hanno fatto molto parlare di sé con varie collaborazioni e reinterpretazioni, mettendo insieme ispirazioni vintage, tagli oversize ed elementi tipici dello streetwear moderno per dare vita a pezzi e capsule assolutamente unici. In una città in cui ribolle un grande fermento culturale, moda in primis come dimostra la rilevanza che sta conquistando la Seoul Fashion Week, anche i giganti del calcio stanno guardando con interesse alle trasformazioni in atto: nel 2020 il Psg è diventato il primo club europeo ad aprire un pop-up store nella capitale coreana, mentre Nike, il kit supplier della Nazionale, ha confezionato due divise da gioco per i Mondiali che hanno attirato l’attenzione generale, soprattutto con una maglia away che è il più classico dei prototipi che fanno da ponte tra il calcio e il fashion – in mancanza della Nigeria in Qatar, la Corea si prende la palma di Nazionale più stilosa, e non sarebbe stato possibile senza tutto il background sviluppatosi negli ultimi anni.

La miccia è accesa: adesso tocca alla Nazionale, sul campo, andare a caccia di un exploit in grado di mettere la Corea del Sud sulla mappa del calcio internazionale. Son ha uno di quei ruoli all’apparenza scomodi, in realtà molto affascinanti: prendere per mano un gruppo e condurlo il più lontano possibile. Missione complicata, in un girone che comprende Portogallo, Uruguay e Ghana, ma non persa in partenza. Un Mondiale è il tipo di torneo in grado, sul serio, di cambiare lo status di un calciatore, e di ricalibrare il modo in cui sarà ricordato: a 30 anni, per Son è l’occasione della vita. Sua, e di tutta la Corea.