La leggenda intermittente di Guillermo Ochoa

Ritratto del portiere del Messico, che sembra scomparire e poi riapparire, sempre più forte, alla vigilia della Coppa del Mondo.

Se andassimo ad analizzare le due partite giocate dal Messico fino all’osso, scopriremmo che El Tri ha ancora la possibilità di passare la fase a gironi – e di essere eliminato agli ottavi, come al solito – solo per merito di Guillermo Ochoa: a 37 anni, Ochoa ha parato un rigore a Robert Lewandowski e ha mostrato per l’ennesima volta di avere un rapporto unico, profondissimo, umanamente non spiegabile, con la Coppa del Mondo. Non solo per via del suo record, perché è uno dei sette giocatori – gli altri sono Matthaus, Messi, Cristiano Ronaldo, Buffon, Carbajal, Guardado e Rafa Márquez – che hanno partecipato per cinque volte al torneo: quando ci sono i Mondiali, è come se Ochoa apparisse ogni volta dal nulla, dopo essere scomparso per quattro anni, per ricominciare a fare parate incredibili. Non importa quanti anni abbia, dove stia giocando o dove si giochi la fase finale della Coppa del Mondo: Ochoa c’è, ed è quasi insuperabile. In fin dei conti Guillermo sembra un personaggio uscito dalla penna di Gabriel García Márquez, messicano d’adozione: un uomo capace di creare miti. E Guillermo, con la sua folta chioma e i fini lineamenti aztechi, potrebbe essere il protagonista di un suo racconto. D’altronde Márquez spesso scherzava con il passare del tempo. In Cent’anni di Solitudine, uno dei suoi capolavori, narra di un villaggio, Macondo, intrappolato in una sequenza circolare di eventi. Proprio come accade a Ochoa.

Il 15 febbraio 2004, allo Stadio Azteca di Città del Messico, si gioca Club América-Monterrey. Appena diciottenne, el Memo – diminutivo usato da tutte le mamme messicane che hanno scelto il nome Giullermo per il proprio figlio – si muove freneticamente tra i pali della squadra di casa. Le gambe gli tremano. Gocce di sudore scivolano giù dalla fronte e macchiano la camiseta dell’América. Subisce due gol, per altrettante volte viene salvato dai pali e blocca il primo pallone solo al quinto tiro. Non il migliore degli esordi. Ma si sa, l’Azteca è un luogo particolare: quando si entra dentro all’enorme struttura costruita nel ’66 è come se le lancette degli orologi si spostassero senza logica, facendo ritornare i ricordi al Partido del Siglo, Italia-Germania del ’70, e all’indimenticabile doppietta di Maradona all’Inghilterra nel 1986. Nello stesso modo, per tutta la carriera di Ochoa, l’ordine degli eventi non segue nessuno schema temporale. Dopo la prima disastrosa partita, infatti, si prenderà l’América tra le mani. Nel 2006 è già con el tricolor del Messico sul petto. Fa parte dei 23 convocati che partecipano alla Coppa del Mondo in Germania. E così, a 20 anni, inizia il suo romantico rapporto con il torneo iridato, un legame destinato a diventare storia. Ma è ancora troppo giovane e rimane in panchina: il titolare è Oswaldo Sánchez.

Quando torna a casa continua a sorprendere. Nel 2007 è il titolare in Copa América, e il Messico arriva terzo. Ochoa ha solo 22 anni ed è tra i 30 candidati per il Pallone d’Oro. «È tra i tre migliori portieri di tutto il globo», dice Diego Maradona a fine stagione. È il primo messicano della storia a comparire in questa lista, uno dei pochissimi che allora giocava lontano dall’Europa. In quell’anno non solo trascina la sua Nazionale a suon di parate, ma porta anche il Club América in finale della Sudamericana. Il Mondo comincia a conoscerlo. Il Liverpool pare interessato, ma l’affare non va a buon fine. Certo, Ochoa non è un portiere classico, non è diligente, composto e imponente: tra i pali può sembrare goffo; in uscita non è il migliore; con i piedi non è proprio efficacissimo. Ma quando si tuffa pare fermarsi a mezz’aria, come un colibrì, capace di stabilizzarsi elegantemente in volo.

Dopo i primi successi ha però una battuta d’arresto. Il 2010 dovrebbe essere un grande anno, visto che ci sono i suoi Mondiali. Ma rimane di nuovo in panchina: il CT messicano Javier Aguirre, dopo avergli promesso una maglia da titolare, per qualche sconosciuto motivo preferisce il più stagionato e “affidabile” Oscar Pérez. I rapporti tra Aguirre e Ochoa non sono mai stati idilliaci ma, in questi giorni, dopo il rigore di Lewandowski, Aguirre ha dovuto dire, al canale televisivo messicano TUDN, che «Memo ha salvato la squadra».

Guillermo Ochoa è il sesto giocatore con pià presenze nella storia della Nazionale messicana: ne ha accumulate 134, con 133 gol subiti (Dan Mullan/Getty Images)

L’Europa lo avvicina e lui la sfiora spesso: «Alla fine del 2010 sono volato a Londra: ero vicino al Fulham. E ho avuto contatti anche con Olympiacos e Real Betis», racconta Guillermo ai microfoni di France Football. Nella stagione successiva, nel 2011, è pronto a giocare la Gold Cup. Ma a inizio torneo viene fatto un controllo antidoping, e Guillermo risulta positivo: «In quelle settimane», racconterà in seguito, «stavo per firmare per il PSG, avevamo già concordato le cifre del contratto. Ma la storia del doping ha rovinato tutto». Arriva un’istantanea sospensione. Ochoa si ribella, urla allo scandalo. Dopo pochi mesi, si scopre che le tracce dello stimolante provengono da un’intossicazione alimentare di un pranzo di squadra. Squalifica revocata, ma Parigi ormai è perduta. Solo che Televisa, gigantesco gruppo radiotelevisivo messicano, ha già comprato i diritti della Ligue 1 per il Centro America. E allora Ochoa deve rimanere in Francia, e pur di farlo accetta l’unica offerta che gli arriva: quella dell’Ajaccio.

Passa tre anni nei bassifondi della Ligue 1, tra goleade subite e prestazioni indimenticabili, come quella del 18 agosto 2013 contro il PSG. Ibra e compagni tentano in ogni modo di segnare, calciando ben 17 volte in porta. Ci riesce solo Cavani, all’86esimo, dopo una gara che racconta alla perfezione lo stile eterodosso di Ochoa: quella sera blocca l’impossibile, per salvare una rasoiata dello svedese utilizza poco elegantemente l’intero corpo; respinge con un bagher pallavolistico una girata di testa di Cavani; salva di puro istinto e con la forza degli addominali un colpo ravvicinato di Verratti. La squadra corsa retrocede dopo tre stagioni in cui Ochoa sembrava il solo in grado di tenere in piedi la squadra. Temporalmente, siamo alla vigilia dei Mondiali brasiliani.

Il 17 giugno 2014 si gioca la seconda gara dei gironi. El Tricolor contro la Seleçao, i padroni di casa, all’Arena Castelão di Fortaleza. E Ochoa fa una parata che cambierà la storia, per farlo entrare nel mito. Al 25esimo minuto, un cross si impenna da destra a sinistra. Neymar si alza in cielo e dà una frustata al pallone, spedendolo a fil di palo. Ma Ochoa spicca il volo. Da fermo, con un colpo di reni improvviso, riesce a toccare quel che basta la sfera. Nessuno può credere a quello che ha assistito. Per i telecronisti messicani quello che ha fatto il portiere è «monumentale». L’attaccante della Seleçao, Fred, definirà «un miracolo» quell’intervento, destinato a essere ricordato tra i migliori di sempre. La gara finisce 0-0 e Ochoa diventa leggenda: «C’è un Memo Ochoa prima di quella gara e uno dopo», ha detto a GQ Mexico. «Ero sui giornali di Cina ed Europa, per la prima volta ho visto il mio nome in Medio Oriente. Si parlava in ogni angolo del mondo e la foto era la stessa: io che paravo». Per i tifosi brasiliani è un tuffo nel passato: la memoria torna all’Estadio Jalisco di Guadalajara, Messico, casa di Ochoa, e ricorda l’enorme salvataggio di Gordon Banks su Pelé. È un peccato che O’ Rey non possa rivivere quel momento: è intrappolato nel traffico di Fortaleza e arriva solo nel secondo tempo.

Questo montaggio si apre proprio con quella parata, ma poi ci sono anche tutte le altre

Il Mondiale continua con il Messico che esce agli ottavi, Ochoa si è fatto notare. Per lui pare esserci un futuro luminoso. Dopo una prima fase di carriera tra luci e ombre si pensa che Guillermo meriti una grande squadra. D’altronde 29 anni non sono ancora troppi per un portiere. Ma da quella parata in poi è come se Ochoa fosse stato colpito da una maledizione, per cui è costretto a brillare solamente ogni quattro anni. Infatti, dopo la fine di Brasile 2014 non firma con nessun top team, bensì si lega al Málaga. In Andalusia tutto andrà storto: non gioca perché davanti a lui c’è il camerunense Kameni e sparisce nell’anonimato. In Liga esordisce solo a marzo del 2016, dopo 64 partite in panchina. Poi va in prestito al Granada, dove subisce 82 gol in una stagione, ma è anche il portiere con il numero più alto di parate di tutta la Liga. Nel 2017 finisce in Belgio, allo Standard Liegi, tra gelo e pioggia. Ma trova una sua dimensione: ha di nuovo fiducia in sé e si riprende la convocazione ai Mondiali.

Così sono trascorsi quattro anni da Fortaleza: due li ha passati in panchina, a Málaga, e negli altri due si è riscattato, tra il sole di Granada e le nuvole belghe. È come se avesse voluto sparire, per poi riapparire ai Mondiali. In Russia è di nuovo tra i migliori: infrange le speranze della Germania, strozzando in gola l’urlo di gioia di Tony Kroos con un volo possibile solo con le ali, respingendo sulla traversa una punizione perfetta. Stavolta il pallone è destinato sotto l’incrocio. Ochoa parte leggermente a destra, con i talloni sulla linea di porta. Con due passi recupera prontamente la posizione, al terzo si lancia in aria, dove pare quasi fluttuare, devia il pallone sull’incrocio e lascia la Germania a zero. Il Messico, alla fine, vince per 1-0. Ed elimina la Mannschaft.

Di nuovo El Tricolor si ferma agli ottavi, eppure Ochoa, sempre con il suo modo apparentemente goffo ma efficace, mantiene il livello del 2014. Poi quelle due settimane arrivano al termine e i tifosi si domandano perché non giochi ancora in una squadra importante. Domanda senza risposta. Forse è il destino che puntualmente, dopo ogni spedizione mondiale, lo riporta indietro alle sue origini, al febbraio 2004, quando ha esordito nello Stadio Azteca, impaurito e tremante. Oppure è proprio Guillermo Ochoa che vuole illuderci di poter apparire e sparire a suo piacimento. Perché dopo il 2018 è rimasto un altro anno in Belgio, per poi tornare all’América. La squadra in cui gioca ancora oggi, a 37 anni. In fondo è invecchiato bene: le sue ultime tre stagioni in Messico sono state le migliori della sua vita e si è portato a casa una medaglia di bronzo alle ultime Olimpiadi.

Se guardiamo alla carta di identità, Qatar 2022 potrebbe essere l’ultima chiamata di Ochoa, l’ultima occasione per apparire. Per ricordarci che siamo tutti dentro a un ciclo che continua a ripetersi. Perché al Mondiale Ochoa sa essere insuperabile e lo ha già dimostrato. Ma forse è proprio per questosua che sta pensando addirittura di fare l’ultimo inchino su un grande palcoscenico. nel 2026, la fase finale della Coppa del mondo si disputerà tra il Canada, gli USA e il suo Messico. Lo ha annunciato a GQ: «Voglio essere l’uomo dei sei Mondiali. È il mio nuovo sogno. Potrei essere l’unico nella storia. Amo la coppa del Mondo, la amo davvero».