Storie belle e improbabili di calciatori giapponesi

Chi sono davvero i calciatori che hanno eliminato la Germania?

Ao Tanaka e Kaoru Mitoma sono amici d’infanzia, hanno fatto le elementari insieme, hanno giocato insieme nei tornei giovanili dall’Under 12 in poi, tra i piccolini del Kawasaki Frontale, e sono sempre stati nella stessa squadra fino al 2021, quando si sono trasferiti in Europa. Sono i due giocatori del Giappone che hanno costruito l’azione per il gol della vittoria contro la Spagna, quello con la palla rimasta in campo per poco più di un centimetro e anche quello che ha dato il primo posto ai Samurai Blu in un girone che nei pronostici li vedeva eliminati dopo tre partite. O anche prima. Questa sarebbe a mani basse la storia più bella di questi Mondiali, se non altro perché l’amicizia tra Tanaka e Mitoma aggiunge al torneo quella componente emotiva e umana che il Qatar ha provato a stracciare in tutti i modi. Invece sul gol ci si è spesi solo in termini di «è uscita», anzi no «è dentro», mentre il primo posto del Giappone è stato venduto al pubblico come una vittoria della disciplina, della squadra equilibrata, dei giocatori composti e tatticamente ordinati. Come se i giocatori del Giappone fossero intrappolati in uno schema fisso che li costringe a essere solo quella cosa lì, non possono avere altri aggettivi.

Per lo stesso motivo, dopo la prima partita, la vittoria storica e sorprendente contro la Germania, del Giappone si è parlato per la pulizia che i giocatori hanno lasciato nello spogliatoio quando sono andati via: è una cosa che si ripete in ogni grande manifestazione, ma viene sempre sottolineata, perché conferma le nostre idee su chi sono e come sono i giapponesi. Ma se non ci si vuole concentrare sulle prestazioni di una squadra che ha battuto Germania e Spagna nella stessa settimana, sarebbe almeno opportuno raccontare le storie migliori di quella squadra, come quelle di Tanaka e Mitoma. «Questa ossessione dei media per la pulizia del Giappone ritorna a ogni Coppa del Mondo. Sarà pure guidata da buone intenzioni, ma sembra fin troppo arrendevole, considerando la mancanza di attenzione per le prestazioni della squadra», ha scritto BloombergAppunto.

Come per tanti calciatori che arrivano da luoghi lontani, anche questa generazione di giocatori giapponesi si è fatta strada verso il vertice del calcio europeo seguendo percorsi diversi dai coetanei italiani, francesi, spagnoli, tedeschi che sono nati e cresciuti al centro del mondo (almeno per quanto riguarda il calcio). L’autore del gol decisivo contro la Germania, Takuma Asano, si porta dietro una storia singolare: a 22 anni era stato scelto da Arsène Wenger nel solito schema di rinnovamento continuo del talento in casa Arsenal. Poi ci furono problemi con il permesso di lavoro e non se ne fece più niente. Oggi Asano è un’ala del Bochum, penultimo in Bundesliga, e sta provando a rimettersi in carreggiata una stagione alla volta. Asano può essere uno che è stato rallentato dalla burocrazia, dai regolamenti sui calciatori extracomunitari, può darsi che fosse già troppo cresciuto per essere considerato un talento da sviluppare, oppure può essere solo un late bloomer che ha trovato un po’ più tardi del previsto il suo posto nel calcio d’élite; oppure, ancora, può essere tutte queste cose insieme. E in Qatar si è concesso il lusso di ricordarci che il talento esplode in momenti inaspettati, magari su un controllo che è una citazione di Roberto Baggio o Antonio Cassano, e un gol memorabile a Manuel Neuer nel torneo più prestigioso di tutti.

Un gol da vedere e rivedere

L’altro eroe di quella partita contro la Germania – averla vissuta e vinta non è un’esclusiva solo italiana – è senza dubbio Shuichi Gonda. Il portiere del Giappone ha salvato il risultato in più di un’occasione, ma comunque non basterà a cambiare lo status tradizionalmente precario dei portieri asiatici (forse per lo stesso motivo per cui si parla poco dei portieri neri). Le sue parate al massimo gli sono valse qualche tweet che, grazie a un mirabolante volo di fantasia, fa riferimento a Benji Price – che nella realtà fittizia del manga/anime Captain Tsubasa, da noi italiani conosciuti come Holly e Benji, porta il nome non proprio sexy di Genzo Wakabayashi. Almeno, se può consolare, alle Isole Salomone lo hanno elogiato per ragioni più nobili: «Gli abitanti delle Isole Salomone sono sempre dalla parte del più debole, quindi c’era un buon tifo per i giapponesi contro la Germania», scrive il Solomon Times, che poi fa parlare un giovane tifoso di 19 anni: dice che da adesso in poi lo chiamerà «Sweet Gonda» e ammette di aver avuto voglia di giocare tra i pali dopo aver visto quella partita.

Il giapponese di cui si parla di più da due settimane è Ritsu Doan, autore di due dei quattro gol della Nazionale nipponica in Qatar. È un esterno mancino a cui piace partire da destra per convergere dentro al campo controllando il pallone con il piede forte. È arrivato in Europa prima ancora di completare una stagione intera in prima squadra in J-League. Il Groningen ci ha creduto, lo ha portato in Olanda e attorno a lui è stata costruita subito una narrazione del tipo il Robben del Sol Levante. Un paragone un po’ ingeneroso: Robben è una leggenda calcistica del XXI secolo, ha iniziato e chiuso la sua carriera con la maglia del Groningen ma in mezzo ha fatto conoscere la sua signature move a tutto il mondo.

Nel Giappone anche il commissario tecnico ha una storia non convenzionale. Hajime Moriyasu non era un fenomeno generazionale, era un centrocampista con una buona carriera in patria e 35 presenze in Nazionale. Era abbastanza bravo da meritare un provino con il Manchester United, nel 1990, a 22 anni, ma non abbastanza bravo da farsi comprare da Sir Alex Ferguson. Moriyasu oggi ha la possibilità di portare la Nazionale ai quarti di finale dei Mondiali per la prima volta nella storia. Sarebbe una buona ricompensa per uno che da giocatore è stato tra i protagonisti di uno dei giorni più cupi della Nazionale, in una partita passata alla storia come “la tragedia di Doha”. In realtà non è una tragedia, se non in senso sportivo: una partita di qualificazione a Usa ‘94, il Giappone sognava la prima storica qualificazione alla Coppa del Mondo, al novantesimo sembrava cosa fatta, poi nei minuti di recupero un gol dell’Iraq ha chiuso il punteggio sul 2-2, escludendo i Samurai Blu dai Mondiali solo per il calcolo della differenza reti. Però Moriyasu non fece seppuku con una katana come Yukio Mishima.

Da allenatore Hajime Moriyasu non è proprio amatissimo, forse perché non è un uomo particolarmente carismatico. Un tifoso lo ha descritto a Bloomberg come «il (Gareth) Southgate del Giappone». Non era inteso come un complimento. E allora Southgate deve avere il suo Sterling, il suo giocatore feticcio che va in campo in ogni partita sempre e comunque. Lo Sterling del Southgate Moriyasu è Junya Ito: secondo il Guardian alcuni critici «deridono Ito definendolo il fidanzato di Moriyasu».

Con i suoi 17 gol in 44 presenze ufficiali, Takumi Minamino è il calciatore più prolifico tra quelli convocati da Moriyasu per Qatar 2022; il record di tutti i tempi appartiene a Kunishige Kamamoto, autore di 75 gol con la Nazionale maggiore (Anne-Christine Poujoulat/AFP via Getty Images)

Si può guardare alle storie singolari e originali di Moriyasu, Tanaka, Doan, Asano con una lente eurocentrica e occidentale, oppure si può provare a considerare anche tutti gli altri elementi che altrimenti resterebbero fuori. Vale lo stesso per la crescita del movimento calcistico giapponese, che viene accostata un po’ semplicisticamente a Captain Tsubasa, che ha avuto un ruolo evidente nell’avvicinare il Paese al calcio e alla sua cultura. Ma non può bastare, non si possono scansare le considerazioni sugli investimenti della Federazione nella J-League, sui Mondiali del 2002 organizzati con la Corea del Sud, sull’ufficio allestito dalla federazione a Dusseldorf, per seguire da vicino i molti giocatori giapponesi che giocano in Bundesliga. E ovviamente l’influenza di alcune squadre europee, prima tra tutte il West Ham, nella creazione di una cultura basata sulla valorizzazione del talento. «La cosa su cui abbiamo lavorato fin dall’inizio qui in Giappone», ha dichiarato Terry Westley, ex capo dell’Academy del West Ham, «è la tendenza a fidarsi dei ragazzi: qui non era contemplato l’inserimento di un 18enne nel turn over, ora invece le cose stanno cambiando, c’è una crescita più veloce dei calciatori e quindi ci sono più margini di ritorno tecnico anche economico, rispetto alla loro carriera».

È molto comodo banalizzare il calcio e lo sport – e non solo – ragionando per stereotipi, esattamente come si fa per la narrazione coloniale dei calciatori africani, che sono sempre rocciosi o velocissimi o simili a connazionali pari ruolo del passato anche se giocano in modo molto diverso. I giapponesi vengono subito ricondotti all’universo manga o dei cartoni animati, o al massimo a un’ideale di educazione silenziosa mista a stravaganza. In questo modo si può appiattire la complessità delle loro storie, dribblare l’alterità o ricondurla a un vocabolario a noi familiare. Siamo noi a filtrare la nostra visione del Giappone, a partire dai riferimenti ai cartoni animati. E ci rendiamo conto di non poter applicare quello stesso ragionamento se vogliamo parlare di una squadra che passa avanti alla Spagna e alla Germania. Così come ignoriamo ogni considerazione prettamente calcistica quando un club europeo compra il mediano o il terzino nuovo dal Kawasaki Frontale o dagli Urawa Red Diamonds e lo presenta sui social con un video che cita, nell’ordine, Holly e Benji, Dragon Ball, Naruto.