I big data sono diventati giganti

Sono dieci anni che parliamo di come i numeri e le statistiche stanno cambiando il calcio: a che punto siamo arrivati? Gli algoritmi, oggi, riescono a spiegare sempre di più le costruzioni offensive, i movimenti di calciomercato, i carichi di allenamento individuale.

Il calcio ha un’infatuazione per la teoria della fine della storia, l’illusione per cui il presente dovrebbe rappresentare lo stadio finale di un processo, un limite ultimo impossibile da valicare, specialmente quando si guarda allo sviluppo atletico dei giocatori. È facile pensare che sia insuperabile Erling Haaland che raccoglie un cross all’altezza della traversa con la punta dello scarpino; che non possa esserci niente oltre Theo Hernandez che gioca due partite a settimana e continua a bruciare la fascia alla massima velocità anche nei minuti finali; che non sia migliorabile la tenuta atletica di Luka Modric, che all’età in cui molti campioni sono già ex giocatori riesce a dominare nelle partite a eliminazione diretta di Mondiali e Champions League. È quel che stanno dicendo da anni gli allenatori che hanno plasmato questo momento storico del calcio con le loro idee innovative: per velocizzare il gioco non si può insistere sui parametri fisici – già esplorati oltre ogni confine immaginabile – ma occorre agire sulla capacità di pensiero e di analisi dell’individuo. Una visione forse troppo comoda: venti, quindici o anche solo dieci anni fa era impossibile immaginare i livelli di allenamento e performance del calcio di oggi, e quindi fra quindici anni chissà cosa potranno fare i calciatori.

Per scorgere il futuro bisogna guardare oltre i confini del calcio. Si può ad esempio dare un occhio ai nuovi visori per la realtà virtuale presentati da Meta, Apple e altre aziende. Non sappiamo ancora quando la vita nel metaverso sarà paragonabile a quella reale, quando cioè un visore potrà davvero essere uno strumento utile per semplificare e sperimentare cose nuove con un’applicazione nel mondo reale. Ma è un futuro non così lontano, e riguarderà anche il calcio. «Le nuove realtà virtuali sono sempre più credibili e tra qualche anno saranno uno strumento di uso quotidiano anche sui campi d’allenamento delle squadre di Serie A», dice a Undici Nicolò Guberti di Kama Sport, agenzia che applica la data science al mondo del calcio nell’analisi tecnico-tattica di un match, ed è la nuova sensazione del settore. «Con buona probabilità la realtà virtuale tornerà utile per l’allenamento calcistico, per provare certe situazioni che si devono ripetere in partita, e lo farà in modi che non sono mai stati possibili prima».

In realtà non c’è bisogno di tirare in ballo i visori e le visioni di Zuckerberg e dei suoi colleghi: “virtuale” è già un aggettivo del calcio degli anni Venti di questo secolo. Ogni club, ogni giocatore, ogni attività calcistica a livello d’élite – e non solo – è immersa in una nube di dati, metriche, numeri prodotti in partita e in allenamento, informazioni preziose che vanno messe a sistema per trarne vantaggio. Per questo ci si affida a piattaforme e competenze come quelle Kama Sport per filtrare i dati e rielaborarli, interpretarli, renderli ricchezza per leggere meglio le partite, per analizzare l’impatto degli allenamenti, per lo scouting in sede di mercato.

I primi a costruire un calcio misurabile in ogni dettaglio sono stati i produttori di videogiochi, che per esigenza di somigliare alla realtà hanno dovuto dare un valore numerico, quantificabile, a ogni singolo aspetto del gioco, in modo da creare avatar credibili rispetto alla controparte reale. Quei valori però hanno sempre avuto un sapore artificiale e un po’ arbitrario, forse anche finto se paragonato alle infinite variabili di un gioco estremamente fluido per natura, quindi difficile da misurare con valori preimpostati. Adesso invece è il calcio ad avvicinarsi ai videogame, in una sovrapposizione imprevedibile dei due mondi: si misura tutto, tutto risponde a un parametro e può quindi essere quantificato, confrontato e conosciuto. I calciatori esistono già in forma di avatar, non solo alla PlayStation o su Football Manager, ma anche nei database di club, osservatori, aziende specializzate.

Oggi l’innovazione permette di valutare non solo la quantità, ma anche la qualità delle informazioni prodotte da una partita o un allenamento. Grazie al machine learning le nuove piattaforme al servizio di allenatori e staff tecnici – sempre più numerosi, con professionalità che arrivano dal settore informatico, ingegneristico, matematico, fisico – riconoscono le situazioni di gioco e le interpretano: «I nostri algoritmi sono innovativi soprattutto perché sono in grado di riconoscere all’interno di una partita situazioni sempre più complesse», dice Guberti di Kama Sport. «Riconosciamo costruzioni col portiere o transizioni positive, ad esempio, e lavoriamo per perfezionare sempre più la capacità delle macchine di leggere l’azione. Presto si arriverà a valutare, ognuno con i criteri che preferisce, non solo l’oggettività di quel che avviene, quindi i dati, ma anche le scelte soggettive, cioè capire in base agli spazi liberi che un giocatore ha a disposizione se la scelta che ha preso è ottimale o se è solo quella meno rischiosa, o proprio sbagliata rispetto alle indicazioni dell’allenatore». Le innovazioni portate da Kama Sport fanno parte di un settore di mercato che entro il 2024, secondo le ultime stime, varrà un giro d’affari da 30 miliardi di dollari: la tecnologia applicata allo sport sta cambiando i metodi di allenamento, la preparazione delle partite, lo sviluppo dei giocatori, in un approccio davvero scientifico che renderà presto vintage anche le cose che oggi sembrano venire dal futuro, come le acrobazie di Haaland o le gambe supersoniche di Theo Hernandez.

La scorsa primavera, alla vigilia della finale di Champions League, Trent Alexander-Arnold era stato ripreso durante gli allenamenti del Liverpool mentre indossava uno strano casco, fatto da elettrodi e cavi sottilissimi. Sembrava un personaggio uscito dalla penna di Philip Dick, il preludio a una società in cui la tecnologia ha creato una nuova generazione di calciatori-cyborg, invece il terzino inglese stava solo facendo un allenamento in cui le condizioni cognitive fanno parte dei parametri da monitorare al pari delle performance atletiche. Il caschetto indossato da Alexander-Arnold, e dai suoi compagni di squadra, fa parte di uno dei più recenti sviluppi del calcio: le wearable technologies, tecnologie indossabili che le aziende mettono a punto per perfezionare il processo di raccolta dati, negli ultimi anni sono diventate protagoniste di allenamenti e partite. Le pettorine con il Gps integrato ormai sono presenti in tutte le categorie dei professionisti e permettono di ricavare dati fondamentali che tutti gli staff tecnici vogliono monitorare: fanno parte dei dispositivi EPTS (Electronic Performance and Tracking System) che contengono tutti i tipi di sensori, come accelerometri, giroscopi e bussole – di fatto sono lo stesso tipo di chip GPS di un normale smartphone, quindi possono rilevare la posizione, ma anche in quale direzione è rivolto il giocatore, quanto velocemente si sta muovendo, e quanto velocemente accelera e decelera.

È finita l’epoca dell’improvvisazione e dei metodi tradizionali. Nessun club europeo può permettersi di fare a meno di strumentazioni avanzate per analizzare tutto quello che ruota attorno a un giocatore e alle sue performance, e per farlo deve ovviamente dotarsi dei mezzi migliori possibili, in termini di know how, professionalità, tecnologie fornite da aziende specializzate – come l’italiana Soccerment, un’avanguardia nel settore delle tecnologie indossabili e dell’intelligenza artificiale applicata al calcio. A fine settembre l’azienda ha lanciato XSEED, il più innovativo e avanzato device per il tracking e l’analisi della performance del giocatore. Sembra un normale parastinco ma permette di accedere a un mondo informazioni, dalla registrazione di eventi atletici e heatmap, a un’analisi completa e intuitiva degli eventi tecnici – numero di tocchi, numero e direzione di passaggi, cross, tiri.

«Siamo arrivati a questo risultato dopo anni di investimenti e ricerca, collaborando anche con le Università di Milano per avere i risultati migliori, ma il prossimo scoglio da superare non è nella mole di dati a disposizione, quanto nel saperli e volerli leggere», dice Aldo Comi, amministratore delegato di Soccerment. «Tutti i grandi club sono già pieni di dati, infatti il nostro XSEED è rivolto soprattutto ai settori giovanili, che sono più poveri di dati anche se sono quelli che ne avrebbero più bisogno, per monitorare le performance, quindi lo sviluppo dei ragazzi. Oggi ci sono 300 milioni di persone che giocano a calcio nel mondo e solo uno zero virgola ha a disposizione statistiche dettagliate, gli altri sono al buio», qualcuno per l’impossibilità di procurarsi gli strumenti, altri per scelta: ogni club professionistico potrebbe investire una quota minima del suo budget per poter ricavare e studiare certe informazioni, solo che alcuni sono ancora un po’ reticenti. In una prima fase, dice Comi, bisognava capire se, come e quanto i dati potessero essere d’aiuto nel calcio, «oggi quella fase è superata, siamo nella fase due, quella della creazione di metriche e modelli che permettono di mettere in piedi modelli predittivi e prescrittivi grazie a Expected Goal, Expected Assist, e altri indicatori che trasformano la realtà da binaria (gol/non gol, ndr) a probabilistica, e così spiegare le performance annullando la dimensione casuale e randomica del calcio». La fase tre, lo step successivo dell’evoluzione, sarà raggiunta quando le squadre si trasformeranno in data driven organizations, cioè non solo avranno a disposizione i dati, ma avranno anche i loro modelli per ricavare in maniera sistematica le informazioni più utili: non dovranno comprare le informazioni, ma potranno creare da sé quelle che cercano. 

Lo spostamento del calcio, o almeno di una sua parte, nella dimensione virtuale non deve far dimenticare che l’obiettivo ultimo è sempre quello di perfezionare l’output sul campo, alzare l’asticella delle performance, sviluppare giocatori più forti e squadre sempre più integrate. La ricerca e l’approccio scientifico sono, in questo senso, chiavi aggiuntive per generare un miglioramento puramente calcistico – quindi anche se si dovesse arrivare a parlare di rocket science, un giorno, sarebbe comunque rocket science applicata al gioco del calcio, di certo non un vezzo o un modo per complicare una cosa altrimenti più semplice. «Oggi sarebbe impossibile affidarsi solo alla percezione visiva», dice a Undici Alberto Bartali, preparatore atletico della Ternana, con una carriera ventennale che l’ha portato in squadre di tutta Italia, poi anche allo Zenit San Pietroburgo e al Galatasaray, premiato con il Cronometro di Bronzo dall’Associazione italiana allenatori calcio insieme alla FIGC per la stagione 2020/21. «Sapere in maniera esatta il carico di lavoro che incide su un giocatore», aggiunge, «sapere quanto si muove un ragazzo nei cinque o sei allenamenti settimanali ci dà vantaggi importantissimi: permette di capire quanto e come possono caricare in allenamento, ma ci dice anche se nello stesso ruolo ci sono atleti che possono avere un impatto diverso dal punto di vista dinamico».

Vale anche per il monitoraggio degli infortuni e il recupero fisico, per l’individuazione della fase corretta di ritorno al gioco dopo un problema. Un segmento di studio in cui ancora ci sono enormi margini di miglioramento. «La ricerca scientifica», ci dice Christian Barbato, ricercatore in neurobiologia del CNR, «è da tempo impegnata nell’individuazione della fase corretta di ritorno al gioco dopo un infortunio. Si lavora soprattutto per cercare dei biomarcatori oggettivi e facilmente ottenibili che possono guidare i medici nel prendere decisioni più sicure sul ritorno al gioco di un calciatore».

Nel centro di ricerca del CNR, Barbato e altri ricercatori stanno lavorando in partnership con Delphlyx – piattaforma di analisi statistica nata nel 2021 – per coniugare la ricerca scientifica e l’innovazione alle conoscenze del settore statistico e della valutazione tecnica dei singoli calciatori «per integrare informazioni biomediche, ingegneria elettronica e intelligenza artificiale per ottenere un sistema automatico di monitoraggio delle performance atletica, affidabile, sicuro rispetto alla protezione e garanzia del dato, convertibile in sistemi di monitoraggio per varie specialità, istruito sulla base delle scelte strategiche, addestrabile con le tecniche di A.I., sostenibile economicamente». Delphlyx è ancora molto giovane, dopotutto ha due anni di vita, ma nel campo dello scouting e del calciomercato ha introdotto algoritmi e studi innovativi che parlano di sostenibilità: servono soprattutto a ridurre errori e acquisti sbagliati, a minimizzare le perdite, quindi a ridurre gli sprechi nel player trading. «L’innovazione nel nostro settore sta per vivere un’altra rivoluzione», ci dice Guido Boldoni, responsabile del mercato sudeuropeo di Delphlyx. «Se negli ultimi anni si è parlato di statistiche in grado di rappresentare e inquadrare i giocatori, tra poco non basterà più: i dati forniti da un singolo algoritmo forniscono molte più informazioni se integrati con quelli ricavati dalla medicina e dalla ricerca scientifica». Ogni singolo step, ogni passaggio di questo processo di innovazione serve per avere una versione virtuale dei giocatori sempre più fedele alla controparte reale, al calciatore, alla persona.

Il calciomercato è il luogo per eccellenza in cui la dimensione virtuale rischia di prevalere su quella reale, il campo in cui anche le operazioni concrete somigliano a quelle di un videogioco. Lo sviluppo di software, piattaforme e modelli statistici ha cambiato la quotidianità dello scouting, le operazioni degli osservatori e dei dirigenti, quindi dei club. Ma è diventato anche uno strumento nelle mani di chi sta dall’altra parte dei contratti, cioè i calciatori stessi. Sempre più spesso, infatti, i calciatori d’élite come Kevin De Bruyne, Memphis Depay, Raheem Sterling e Joshua Kimmich si sono affidati a team di data analyst per valutare i prossimi passi della carriera, eventuali trasferimenti o rinnovi con il loro club. Al momento sembra una questione di una cerchia ristretta di giocatori, ma è più facile immaginare che una diffusione maggiore di queste informazioni, e degli strumenti e delle conoscenze per ricavarle, possa portare a una forma di democratizzazione dei numeri: ogni professionista potrà, idealmente, impugnare il proprio “profilo” al tavolo delle trattative per usarlo come leva di mercato. A patto ovviamente che i numeri siano dalla sua parte.

Il calcio non si può separare dalla sua realtà terrena e reale, ma non può già più fare a meno della dimensione virtuale che lo circonda, lo avviluppa e lo sommerge. Il calcio è virtuale ovunque, per chiunque, anche per gli spettatori. L’abbiamo visto nei Mondiali in Qatar appena terminati: il pallone ufficiale realizzato da adidas, Al Rihla, è il primo pallone “connesso”, in grado di “comunicare” con gli arbitri più rapidamente e assisterli nelle decisioni, come è accaduto ad esempio con l’attribuzione del gol di Bruno Fernandes contro l’Uruguay, nonostante le rivendicazioni di Cristiano Ronaldo. In generale, i Mondiali sono stati un assaggio di come la realtà aumentata – non ancora propriamente virtuale – stia diventando una cosa sola con il calcio. In molti casi siamo solo ai primi esperimenti, ma la sovrapposizione tra virtuale e reale non è poi tanto distante. Ed è già inevitabile. È meglio farci l’abitudine.

 

Dal numero 48 di Undici. Foto di @mitikafe