L’irresistibile brutalità del tennis, in pasto agli spettatori

La psiche ingarbugliata dei tennisti finisce su Netflix, con la docu-serie Break Point.

Matteo Berrettini è seduto a tavola, con la sua famiglia. Siamo in una Roma soleggiata, forse domenicale, pigra e un po’ oziosa. Berrettini parla delle sue prossime sfide, fa bilanci e previsioni, lo fa con tranquillità e un po’ di spensieratezza, di leggerezza, discorrendone con la madre e i nonni. È uno dei momenti del “dietro-le-quinte” – definizione abusata, pur sempre vincente di un prodotto che vuole unire sport e intrattenimento – di Break Point, la nuova docu-serie su Netflix dedicata al mondo del tennis (dei primi dieci episodi, cinque sono già disponibili). La formula è quella di Drive to Survive, dedicata al mondo della Formula Uno, e non a caso è stata scelta la stessa casa di produzione: un modo per avvicinare un pubblico non per forza di cose interessato all’attualità, agli aspetti più tecnici e alle vicende prettamente di campo (vengono persino spiegati i meccanismi di punteggio…), ma a una storia, anzi alle storie che lo sport – e il tennis in questo caso – possono offrire.

Il prodotto funziona, perché è confezionato in un modo impeccabile, è cucito in un modo sopraffino, ha un’attenzione estetica non banale – ma questo, si sa, ormai sono concetti che non si possono derogare nel mare magnum dell’infotainment moderno. Funziona soprattutto perché le storie dei tennisti sono genuine, reali. Lì dove Drive to Survive esaltava il machismo dei piloti, l’atteggiamento un po’ spavaldo un po’ da bullo, qualcosa che sembrava contagiare persino i team principal delle varie scuderie, solerti a punzecchiarsi e a cercare di rivalersi l’uno sull’altro, in Break Point i protagonisti aprono il bauletto delle loro paure, delle loro incertezze, delle loro inadeguatezze. Anche il senso della competizione è completamente assente. È come se Break Point mandasse in onda una sofferenza condivisa, e accettata unanimemente.

Open di Agassi ha rappresentato uno spartiacque nel racconto del tennis e nella sua stessa rappresentazione: un gioco non più concepito come un divertimento, ma come un’imposizione che con il passare degli anni è diventata una prigione, con le sue angosce peculiari. Qualche anno dopo, ancora su Netflix, con Untold, il tennista americano Mardy Fish avrebbe raccontato tutto lo stress del circuito, con le sue regole, i suoi viaggi in solitaria, il suo mondo alienante e – elemento inevitabile – quella lotta in campo e fuori con i propri demoni interiori. Un tunnel oscuro culminato con la sorprendente rinuncia di Fish a giocare il match di quarto turno degli Us Open 2012 contro Federer, dilaniato dallo stress e dalla pressione.

In Break Point il tema emerge solo in superficie – se si esclude la puntata dedicata a Paula Badosa, in cui la tennista spagnola parla apertamente di salute mentale, di depressione, di ansia da prestazione. Ma è il filo conduttore di tutto, in fondo. Il tennis come sport brutale: puoi perdere quando sei già certo di vincere, e viceversa. Puoi sentirti forte e poi, una volta in campo, scopri che non ti riesce più nulla. Puoi spremere tutta l’energia fisica e mentale che vuoi, ma per motivi che sfuggono possono non bastare. Non c’è la brutalità corporea di un match di boxe: è soltanto una brutalità mentale. Quando Matteo Berrettini parla dei propri punti di forza, non dice il servizio o il diritto (che pure riconosce come i colpi migliori): dice la mentalità.

Il girato della troupe di Netflix, volontariamente o incidentalmente, si imbatte in scene di ordinaria quotidianità che ben illustrano quanto alienante possa essere la vita di un tennista. Camere d’albergo disordinate e ingombre di fornitura tecnica, pronte a essere liberate da un giorno all’altro. Pasti veloci e lunghe e snervanti attese in palestra, prima di scendere – chissà quando – in campo. Trasferte transoceaniche che possono ridursi a un solo giorno, con ripartenza immediata e zero soldi accumulati sul conto corrente. Coppie di tennisti (ormai ex, a questo punto) come Berrettini e Ajla Tomljanović che si salutano per rivedersi due mesi più tardi. Giocatori sconfitti talmente disperati da guardare nel vuoto, appollaiati come profughi senza meta, e dire: da oggi ho chiuso con il tennis.

Salvo poi riprendere il giorno dopo. È questa la lezione di Break Point, ed è quello che tutti i protagonisti enunciano a gran voce. Puoi odiare così tanto tutto quello che sta attorno al tennis ma continuerai ad avere troppo rispetto del gioco. E un po’ di amore, e divertimento, in quello che fai. Il tennis, a livelli così alti, è uno sport che è facile da odiare ma che più di ogni altro cattura fisico, mente e spirito di chiunque ne sia coinvolto così tanto. Vale per pochissimi altri sport, forse nessun altro. È il motivo per cui Matteo Berrettini, a tavola con la sua famiglia, si ritrova a parlare di tennis. Un’ossessione. Brutale, ma irresistibile.