La Serie A in Europa è tornata grande?

Tre italiane nelle migliori otto di Champions, più altre tre nelle coppe minori. Non è il segnale di un sistema calcio che è ripartito, ma vuol dire che i club, ognuno a modo suo, hanno trovato il modo per tornare competitivi.

Nei precedenti dieci anni, il numero di italiane ai quarti di Champions League è stato: 0, 0, 1, 1, 2, 1, 0, 1, 0, 1. Un totale di tre squadre è riuscito a spingersi così avanti nel torneo – si tratta della Juventus, che ci è riuscita per cinque volte, più gli episodici exploit di Atalanta e Roma. La didascalia di un campionato povero, le cui ambizioni europee erano legate a doppio filo con la Juventus, due volte finalista della competizione ma implosa, con il passare del tempo, sotto il peso di scelte azzardate, se non completamente sbagliate. I trionfi erano storia vecchia. In Champions una squadra italiana non vince dal 2010. In Europa League… beh, non si chiamava ancora Europa League: l’ultima volta di un’italiana campione la conoscevamo ancora come Coppa Uefa, e l’aveva conquistata il Parma nel 1999.

Tutt’a un tratto, la Serie A si è risvegliata come il campionato più rappresentato in assoluto ai quarti della Champions League 2023. È come se il passato fosse stato cancellato con un colpo di spugna, come se un rebranding fosse arrivato ad ammettere nuovi giocatori, nuovi capitali, nuovi modelli. Nuove squadre, addirittura. E in effetti, considerando le tre italiane ancora in corsa in Champions – Napoli, Milan, Inter – l’effetto novità è debordante: il Napoli, in questa fase della competizione, non ci era mai arrivato nella sua storia, il Milan mancava da undici anni, l’Inter da dodici. In generale, la Serie A non portava tre squadre ai quarti di Champions dal 2005/06: diciassette anni. Nel frattempo, visto che parlavamo di trionfi, ce n’è stato uno più recente oltre ai successi datati di Milan e Inter in Champions: quello della Roma, la scorsa stagione, nella neonata Conference League. La stessa competizione in cui è ancora in corsa la Fiorentina, mentre in Europa League, tra le otto superstiti, ci sono Juventus e Roma. In totale, nei quarti di finale delle tre competizioni europee, ci sono sei squadre italiane in corsa per vincere. A inizio stagione erano sette: tolta la Lazio, sono ancora tutte in vita.

La suggestione di intonare peana di vittoria è forte: ma allora la Serie A è tornato a essere il campionato migliore al mondo, o uno dei. In Champions, la ricchissima Premier è avanzata con una squadra in meno – c’è il fortissimo City, ok, ma anche il convalescente Chelsea. Nessun altro torneo ha più di una squadra: Spagna, Germania, Portogallo ne hanno una a testa. Però è sbagliato parlare di rivincita del sistema calcio italiano: il nostro rimane un campionato ancora molto indietro soprattutto se guardiamo agli aspetti economici, alla situazione stadi, alla commercializzazione del prodotto televisivo, alla capacità di ottimizzare le competenze in gioco. La Premier League potrebbe essere vista, legittimamente, come un torneo caotico e spendaccione, ma resta il motore del calcio europeo. È difficile distribuire, in questo exploit italiano in Champions, meriti alla Serie A. Che sono, invece, tutti dei club.

Tre squadre italiane tra le migliori otto d’Europa non sottintendono una superiorità del nostro campionato. Lo straordinario risultato di questa stagione potrebbe non essere ripetuto nelle prossime stagioni. Perché il calcio italiano, dagli anni d’oro, quelli scintillanti degli anni Novanta, come pure la coda niente male dei primi Duemila, non ha fatto significativi passi in avanti. Un’affermazione è duratura se arriva a livello di sistema, non in modo isolato. Non è un successo del calcio italiano: è un successo di Napoli, Milan e Inter. Negli anni passati, è stato un successo della Juventus, che è stata la prima squadra a cambiare il paradigma di fare calcio nel post-sbronza della Serie A deluxe – lo stadio di proprietà, un’idea coerente nell’assemblare la rosa, la spinta commerciale del brand-squadra, il salto nella dimensione economica. Per quasi un decennio, la Juventus ha giocato un campionato a parte. E ha rappresentato un modello, che ha costretto le competitor della Serie A ad aggiornarsi, a rinnovarsi, a mettersi al passo con una velocità del calcio che era completamente mutata.

 

Così la competitività si è diffusa, ed è stato inevitabilmente un bene: dopo nove scudetti consecutivi conquistati da una sola squadra, nelle ultime tre stagioni la Serie A registra tre scudettate diverse (ok, ci mettiamo già il Napoli: non è il caso di essere scaramantici). Chiamiamolo pericolo scampato: la Serie A non ha fatto la fine di Bundesliga o Ligue 1, dove il primo posto in classifica è già prenotato. E qual è il campionato più combattuto al mondo? Già, guarda caso quello che corrisponde al migliore. La Serie A non ha la forza di diventare la Premier League, ma ne condivide la competitività diffusa, anche se con dimensioni economiche diverse.

Questo si ripercuote positivamente sulla tenuta – mentale, atletica, tattica – di chi poi dovrà confrontarsi con il meglio del calcio continentale. L’élite del calcio italiano non è certamente la migliore in circolazione, ma è abituata a scontrarsi con una classe media che nelle ultime stagioni ha alzato notevolmente il livello: battere squadre come Bologna, Torino, Sassuolo, non è più scontato. Le difficoltà aumentano, e di conseguenza le big sono costrette a reinventarsi, a trovare nuovi piani, ad adottare nuove soluzioni. Non possono fare come i club più ricchi d’Europa: ho un problema, vado sul mercato. La crescita delle squadre della Serie A passa da altro.

Passa dall’abilità degli allenatori – Spalletti che crea la macchina perfetta, Pioli che nel momento più complicato della stagione vara la faccia del Milan e manda ai matti il Tottenham – e dalla responsabilizzazione dei giocatori. Il Napoli ha Osimhen e Kvara, ma fa enorme affidamento su giocatori meno “strombazzati”, come Di Lorenzo, Mario Rui, Rrahmani. Il Milan ha scovato Thiaw, ha messo al centro del progetto Kalulu, ruota attorno a Bennacer, riesce a spuntarla anche quando le serate di Giroud o Leão non sono perfette. L’Inter può anche avere i Lukaku, i Brozovic, i Barella in difficoltà fisica, ma trova insperati protagonisti nei Darmian e nei Calhanoglu. Non sono sempre i singoli a fare la differenza: le italiane vincono con la forza del collettivo. Non è un caso che, su sei partite agli ottavi, Milan, Inter e Napoli non hanno subito nemmeno un gol. Considerando anche Juventus e Roma in Europa League, fanno zero reti concesse in dieci partite.

Il Napoli oggi può essere considerato tra le squadre più forti in circolazione. Non arriva certo al livello di Real Madrid o Bayern Monaco, soprattutto per una questione di esperienza internazionale – le altre sono squadre che giocano con una relativa tranquillità, una specie di nirvana applicato alle logiche calcistiche. Ma se la può giocare con tutti, e sperare pure di arrivare fino in fondo. «Adesso è la squadra più forte in Europa», ha detto Guardiola, che spesso pecca in piaggeria ma che non va molto lontano dalla realtà. Milan e Inter sono sicuramente un gradino indietro, ma la loro campagna europea è un segnale importante. Rispetto alle stagioni in cui hanno vinto il campionato, la loro potrebbe apparire una stagione deludente: arriveranno con quindici, diciotto punti di svantaggio dal primo posto, forse di più. Ma il Milan lo scorso anno era arrivato ultimo nel suo girone di Champions. L’Inter negli ultimi quattro anni era uscito per tre volte ai gironi.

Quest’anno il miglioramento è stato nitido. Hanno vinto le partite che dovevano vincere, senza complicarsi la vita – l’Inter ha battuto il Plzen due su due, ha sparigliato il girone battendo il Barcellona a San Siro, ha fatto valere il fattore campo con il Porto, il Milan non ha tremato come un anno fa ma ha vinto le partite che doveva vincere a tutti i costi, Dinamo Zagabria e Salisburgo in primis, e poi ha giocato 180 minuti solidi contro il Tottenham, meritando la qualificazione. Anche se potrebbero essere stagioni che si concludono con zero trofei, sono tutti segnali di una crescita, individuale e di squadra, nel contesto calcistico più competitivo che esista sul pianeta. Ci si arriva con la pazienza, le idee, la costruzione. Non è poco.