Ricomincia il campionato di Serie A, per il quarto anno di fila tutti all’inseguimento della Juventus. Che però ha operato una piccola rivoluzione, a fronte di una Roma decisa a interrompere il dominio bianconero e delle milanesi che hanno ritrovato una verve competitiva smarrita nelle ultime stagioni. E poi il nuovo Napoli di Sarri, la Lazio e l’intrigante Fiorentina di Paulo Sousa, le premesse per un campionato avvincente non mancano. Abbiamo scelto sei storie, sei trame del torneo più bello del mondo.
Dieci
Quando Carlos Tévez ha salutato la Juventus, al miscuglio di malinconia e gratitudine, si aggiungeva una curiosità enorme: chi avrebbe ereditato la maglia numero dieci? Altrove questa premura non assume identica importanza: il Milan l’ha relegata frettolosamente a Honda, che pure non accende la fantasia dei tifosi (a meno che non siano giapponesi), l’Inter l’aveva messa sulle spalle di un ventenne sbarbato come Kovacic, e poi dirottata con disinvoltura su quelle di Jovetic quando il croato si è imbarcato sul primo volo per Madrid. Perché alla Juve se n’è fatto un caso di proporzioni diverse? Immagino che, a differenza delle milanesi, quella maglia abbia un significato speciale per il fatto che sia stata, per anni, vestita da una leggenda come Alex Del Piero: un lascito troppo importante perché potesse essere una semplice maglia con un semplice numero stampato sulla schiena, tanto da non avere un proprietario prima dell’arrivo dell’Apache a Torino.
La Juventus ha poi deciso di destinare la pesante eredità a Paul Pogba, per quanto il francese non incarni esattamente le caratteristiche di un numero dieci. Che, a onor del vero, la Juve possiede già in squadra: Paulo Dybala, che però, contrariamente a Tévez, arriva a Torino a soli 21 anni, e dunque ancora in cerca di un’affermazione definitiva. Ma quanto sarebbe stato suggestivo il passaggio della “diez” dall’Apache alla Joya? Entrambi argentini, movenze e stile di gioco simili, caratteristiche fisiche molto vicine (1,77 m x 69 kg Dybala, 1,73 m x 75 kg Tévez). E però sorprende la fisicità di entrambi, difficili da spostare: il gol che Dybala ha segnato lo scorso anno al Milan, a San Siro, ne è un esempio chiave, con Zapata (quasi 1,90 m con una decina di chili in più rispetto all’ex palermitano) che prova a spostarlo di spalla, non ci riesce e finisce muso a terra, mentre l’argentino corre verso la porta e segna. Perché il talento è una cosa, saperlo sfruttare un’altra: in mezzo, la suggestione di aver trovato un nuovo Tévez, più giovane di nove anni.
Dybala fa pollice verso a Zapata.
Per un pugno di scarpe
Scarpe, scarpe, ancora scarpe. Fabrizio Castori ne vedeva a centinaia, ne vendeva a centinaia: le commerciava nella provincia maceratese, aveva scelto di mettersi in proprio, dopo aver lavorato in un calzaturificio. Figlio di un elettricista e una sarta, a 22 anni aveva già una moglie e due neonati. Oggi nella testa di Castori ci sono ancora scarpe, ma con i tacchetti sotto, il tonfo sordo del cuoio che vi sbatte contro, l’odore dell’erba umida. A 61 anni, con il Carpi che ha portato a un’incredibile promozione, vedrà per la prima volta la Serie A in vita sua. Lui che ha cominciato ad allenare per caso: a 26 anni gli diedero in mano la Belfortese, una squadra di Seconda Categoria allo sbando che non trovava un allenatore sulla faccia della terra marchigiana. Nemmeno il presidente di quella piccola formazione sapeva cosa avrebbe scatenato, lui che si era rivolto a Castori per un semplice paio di scarpe.
Il richiamo della foresta
Nel 2008 Antonio Cassano e la Sampdoria si erano appena conosciuti: l’attaccante era riemerso dall’oblio in cui era sprofondato a Madrid, segnando dieci reti nel primo anno genovese, i blucerchiati avevano concluso la stagione con un insperato sesto posto. Quando, a dicembre di quell’anno, la Samp batte 1-0 il Siviglia in Coppa Uefa e accede ai sedicesimi, Cassano mette da parte la sua personale idiosincrasia verso i media e si lascia andare, felice, sollevato, euforico. Dà voce ai suoi pensieri e esprime profonda gratitudine per il popolo sampdoriano. Poi dice: «Non ho mai corso così tanto in vita mia come stasera. Avevo crampi da tutte le parti, ma l’istinto mi diceva di andare a correre dietro ogni palla».
A Genova, sponda blucerchiata, ricordano: «Quella volta che Cassano fece tutto da solo».
Parla di istinto, Cassano, e non potrebbe essere altrimenti, e allora supporre che indossare la maglia blucerchiata gli consenta di reperire energie nascoste che nemmeno immagina, e che lo invogli addirittura a fare sforzi fisici in campo, lui che si è ripromesso di non giocare mai e poi mai in posizioni di campo che non fossero all’ombra, è un’indicazione bastevole su quanto fosse smisurata la sua voglia di Sampdoria, di tornare lì dove il suo genio ha ripreso a brillare, quando ormai più nessuno ci sperava. Tre anni e mezzo esaltanti prima degli insulti irripetibili rivolti a Riccardo Garrone, il peregrinare tra Milano e l’Emilia, l’attesa snervante di una chiamata da Bogliasco, che arriva, non arriva, che spacca pure il tifo blucerchiato. Sarà fasciato ancora dalla sua maglia numero 99, e qualcuno, lì in Gradinata Sud, avrà un fremito incontrollato lungo la schiena, e poi lo negherà.
Muri che crollano
Nel 2010 Sinisa Mihajlovic era alla guida del Catania, e alla vigilia di un match contro il Milan sottolineò: «Per come sono fatto io, non potrei mai allenare il Milan. Sono stato all’Inter, non potrei mai per rispetto dei tifosi». Parole che sono tornate d’attualità ora che Mihajlovic al Milan c’è finito per davvero, scatenando sentimenti contradditori nel tifo nerazzurro e non solo. Dovremmo, allora, considerare di fare i conti con un Mihajlovic diverso, meno ortodosso e oltranzista. Quando gli si chiede di quella frase, il tecnico serbo risponde: «Quando ero giovane andavo a sottrazione, a dividere, avevo bisogno dei nemici. A questa età ho imparato tanto e capito tante cose. Vado più a cumulo di esperienza. È una sfida che mi piace perché non è facile farsi amare o convincere gli scettici. Oggi come oggi non ho bisogno di nemici, ho cambiato modo di pensare e ragionare. Quando arrivi a 50 anni la testa cambia».
«Mai al Milan»
Crescere
Delle squadre di seconda fascia il mercato più interessante lo ha condotto il Torino, le cui fortune estive sono dipese in gran parte dalla ricca cessione di Matteo Darmian al Manchester United. Comprato nel 2012 a poco meno di due milioni e rivenduto a 18: gran colpo, non c’è che dire. E prima ancora erano venuti gli Ogbonna, i Cerci, gli Immobile: il Toro sta coniugando nella maniera più felice risultati sportivi e conti in ordine, puntando in misura massiccia sui giovani, a dimostrazione che certi modelli di gestione sani e virtuosi sono pienamente attuabili. L’ultimo bilancio granata segna un utile di 10,6 milioni di euro, una cifra dieci volte maggiore rispetto all’esercizio immediatamente precedente.
Sono lontani i tempi in cui i tifosi granata chiamavano Urbano Cairo “braccino”. In estate il Toro ha messo sul tavolo 26 milioni per assicurarsi sette nuovi giocatori, più 3,5 milioni per strappare alle comproprietà la metà di Benassi all’Inter: Belotti, Zappacosta, Baselli, Acquah, Obi, Avelar, Ichazo. Escluso l’ex cagliaritano, tutti calciatori under 25, con i primi tre, insieme a Benassi, che a ragione possono essere considerati alcuni tra i maggiori prospetti del calcio italiano (hanno tutti disputato l’ultimo Europeo Under 21 in Repubblica Ceca). Dopo un settimo e un nono posto, il quinto anno di Ventura sulla panchina granata dovrà confermare una volta di più l’appartenenza del Toro alla schiera delle privilegiate del calcio italiano.
Il Toro batte 4-1 il Pescara in Coppa Italia, Baselli (autore di un gol) è già tra i migliori in campo.
Amicizia
Giampaolo Pazzini, in passato, ha spiegato così il perché della sua esultanza: indice e medio della mano destra divaricati e puntati verso gli occhi. «È nata a Firenze, per scherzo. Toni faceva sempre il gesto dell’orecchio, anche a pranzo e colazione: lo faceva per dire “ci senti?”. Così io presi a fare il mio, che significa “ci vedi?”». È legittimo pensare che, ai tempi, quella del Pazzo fosse quasi una forma di sussiego verso Toni, che a Firenze arrivò all’apice della sua carriera: era il 2005, e in due anni l’attaccante modenese segnò la bellezza di 47 gol, e in mezzo si laureò pure campione del mondo. L’avventura di Pazzini in viola fu in chiaroscuro, anche perché la punta di Pescia aveva poco più di vent’anni: eppure, nonostante dovesse competere con una fuoriserie come Toni e questo gli rendesse più che arduo il compito, i due divennero molto amici e rimasero in contatto anche quando le loro strade si divisero.