ì

Morning Glory

Il Manchester City è passato dall'epica degli sconfitti e subalterni alla semifinale di Champions League. Evoluzione di una nuova grande.

Fino a dieci anni fa il Manchester City era un club da letteratura, perché a scrittori, giornalisti, sceneggiatori e pubblico le storie di sfiga sportiva sono sempre piaciute tanto, se non più, di quelle narranti imprese e trionfi. Il City era un coacervo di sfortune, rimpianti e frustrazioni tenute assieme dall’incollabile fedeltà del popolo Sky blues. Un club, come l’Atletico Madrid pre-Simeone o l’Espanyol di sempre, che appariva costituzionalmente e irrimediabilmente volubile e sfortunato, quasi avesse un imprinting genetico di subalternità nei confronti dell’altra squadra cittadina, quella vincente, ricca e famosa, la cui ombra era talmente lunga da oscurare anche i pochi momenti esaltanti che avrebbero dovuto rendere più sostenibile una scelta di campo nel contempo eroica e masochista. Quando nel 1988 l’Espanyol travolse 3-0 il Bayer Leverkusen al Sarrià nella finale di Coppa Uefa, il quotidiano catalano Sport pubblicò in prima pagina una foto di Johan Cruijff, allora tecnico del Barcellona, relegando la notizia del match in un minuscolo box a fondo pagina.

A Manchester, il dramma sportivo di tifare “la squadra sbagliata” ha toccato vari ambiti: letterario, cinematografico, musicale. Colin Shindler ha sbancato le classifiche con “La mia vita rovinata dal Manchester United”, agrodolce romanzo autobiografico che raccontava, con ironia e profondità, un’esistenza condannata a una perenne condizione di minoranza. Ebreo per nascita, laburista per convinzione, tifoso del City per ragioni ereditarie. Non proprio una scelta consapevole, ma quella è stata è quella rimane, perché passare dall’altra parte non è un’opzione. Così i bravi sono sempre gli altri, quelli che due settimane dopo i festeggiamenti in casa Manchester City per il loro secondo campionato nazionale travolgono il Benfica di Eusebio nella finale di Coppa dei Campioni.

La disperazione di Sergio Agüero dopo un errore di David Silva (Oli Scarff/Afp/Getty Images)

Poi la frattura diventa una voragine, la cui ampiezza è ben rappresentata dal finale di stagione 98-99, quando lo United festeggia la Champions League vinta grazie all’uno-due Sheringham-Solskjær in rimonta contro il Bayern Monaco, e quattro giorni dopo il City supera ai rigori il Gillingham (dopo che Dickov aveva acciuffato il pareggio al 94’) nella finale del play-off per la promozione in First Division, la seconda serie inglese. All’epoca, e fino all’arrivo degli sceicchi di Abu Dhabi, l’unico elemento in grado di garantire un briciolo di internazionalità al City erano gli Oasis, che mettevano Rodney Marsh in maglia celeste appoggiato al caminetto sulla copertina di Definitely Maybe, che nel video di The Masterplan passavano davanti a Maine Road mentre si stava giocando Manchester City-Newcastle, che cambiavano le parole di Wonderwall per omaggiare il local hero Georgi Kinkladze. Così poteva capitare che un ragazzino dall’altra parte del mondo diventasse tifoso del City di Paul Dickov, Shaun Goater o Kiki Musampa semplicemente per aver guardato MTV, senza magari aver mai visto una sola azione dei citati giocatori.

La finale dei play-off per la promozione in First Division tra Manchester City e Gillingham

Pur in una dimensione edulcorata e leggera da film per famiglie, anche la pellicola Jimmy Grimble ha offerto un piccolo spaccato sulle difficoltà nel crescere con il fardello del continuo confronto con un modello vincente appartenente agli altri, alla maggioranza vincente e quindi prepotente, nonché sovraesposta a livello di attenzioni e notorietà. Rientrando, appunto, nel genere della commedia soft dai toni edificanti, risulta fin troppo di grana grossa la divisione tra i buoni del City e i cattivi dello United, con il culmine raggiunto dalla battuta finale pronunciata da Jimmy dopo aver condotto al propria squadra alla vittoria della finale di un torneo cittadino disputata proprio a Maine Road: «What could be better than Man United? Man City!». Il film rimane comunque un buon esempio – non tanto per la storia che racconta quanto per la natura del prodotto in sé – dell’atmosfera e degli umori nella Manchester pre-Mansour.

Roberto Mancini e Manuel Pellegrini hanno cambiato tutto. Certo, ci sono stati i petrodollari ad innaffiare le radici del Manchester City fino ad elevarlo a club di prima fascia, eppure, nonostante i soldi rimangano una componente imprescindibile per chiunque aspiri ad entrare nel gotha pallonaro, da soli non sufficienti a garantire il grande salto. Tanto più in un torneo iper-competitivo come la Premier League, dove ci sono potenzialmente almeno 5-6 club in grado di competere – a livello tecnico e finanziario – per il titolo. Altra storia rispetto alla Ligue 1 in cui milita il PSG, tanto per rimanere in ambito di proprietà foraggiate con l’oro nero. La disabitudine alla vittoria, ma anche alla mera permanenza ai piani alti, è stata interrotta da Mancini nel 2011 con la vittoria nella FA Cup, riempiendo un vuoto che durava dal 28 febbraio 1976, giorno della vittoria in Coppa di Lega.

Agüero festeggia una rete del City contro l’Aston Villa in un match di Premier (Paul Ellis/Afp/Getty Images)

Nello stesso periodo di tempo i vicini avevano festeggiato circa una quarantina di trofei, e pertanto si può solo intuire – ma non capire fino in fondo – cosa possa aver provato il popolo Sky blues l’anno successivo quando, all’ultima azione dell’ultima giornata, Sergio Agüero ha infilato la rete della vittoria contro il Queens Park Rangers che ha permesso al City di vincere il campionato proprio ai danni del Manchester United. Un 3-2 da romanzo, in classico stile Man City, sotto di un gol con la partita già entrata nell’extra time mentre allo Stadium of Light di Sunderland lo United aveva già sbrigato la propria pratica e attendeva solo l’ufficialità dell’ennesimo titolo, salvo rimanere di sasso di fronte ai 180 secondi più pazzi della Premier: pari di Edin Dzeko al 92’, gol del sorpasso di Agüero al 93’ e 20” (numeri immortalati da un bar all’interno dell’Ethiad Stadium, denominato appunto 93:20). Le parole di Shindler, benché scritte anni prima di questo successo, rimangono la miglior descrizione possibile dello state of mind del tifoso Sky blue. «Non esiste sostanza da sniffare o da iniettarsi in vena che possa nemmeno lontanamente avvicinarsi allo sballo provocati dal vedere il City battere lo United all’Old Trafford». Figurarsi soffiargli un campionato all’ultimo secondo.

La gara che vale la Premier per Mancini e il suo City

Il tallone d’Achille di Mancini è sempre stato l’ambito internazionale, e non solo nella sua esperienza inglese. A livello di Champions, il Manchester City che debuttava il 14 settembre 2011 pareggiando in casa contro il Napoli di Mazzarri era una società pressoché vergine nella massima competizione europea, avendo in curriculum fino a quel momento solo due partite contro il Fenerbahce nel primo turno di Coppa Campioni 1968-69.  Se quindi Mancini aveva posato i primi mattoni del nuovo Manchester City, è toccato a Pellegrini proseguire e ampliare le fondamenta sulle quali si è completata la trasformazione da club da letteratura in società di vertice. Lo ha fatto con il suo stile da tecnico caratterialmente pacato, sobrio nelle dichiarazioni, per nulla glamour e quindi poco adatto ad esaltare tifosi, media e proprietari. Non è un guru alla Guardiola, né un guerriero alla Simeone, né uno stratega alla Mourinho. La mano di velluto con cui ha guidato la squadra, e che in passato è stata fonte di critiche – anche giustificate – per una certa discontinuità di prestazioni e risultati, si è rivelata un punto di forza nell’attuale campagna di Champions, tanto che oggi tra le semifinaliste è quella che può approcciare il doppio impegno con la maggior tranquillità.

Se infatti Real Madrid e Bayern Monaco devono – per storia e blasone – vincere il trofeo, e l’Atletico Madrid vive per la battaglia, rischiando grosso quando la tensione non gira a mille (vedi l’ottavo contro il Psv), per il Manchester City la Champions rappresenta un’opzione, non un’ossessione. Ma non è nemmeno una chimera, visto che la squadra possiede tutto il necessario per puntare alla vittoria finale: un attaccante tra i primi dieci al mondo (Agüero), un creatore di gioco (De Bruyne) di qualità assoluta, un portiere affidabile (il sottovalutato Hart), una rosa dall’elevato livello tecnico e tattico (il duo in mediana Fernando-Fernandinho è cresciuto esponenzialmente, con l’apice raggiunto nel doppio confronto con il PSG), con l’unica pecca dell’inesperienza ad altissimi livelli di Champions (solo Clichy e Yaya Tourè hanno già disputato una semifinale in carriera, rispettivamente con le maglie di Arsenal e Barcellona). Buon ultimo, un tecnico specialista in prime volte.

Manuel Pellegrini con la English League Cup final vinta battendo il Liverpool a Wembley (Ben Stansall/Afp/Getty Images)

Manuel Pellegrini ha sempre avuto un rapporto particolare con la Champions League: nel 2005-06 ha portato il Villarreal fino alle semifinali, nel 2012-13 si è fermato un gradino sotto, ai quarti, con il Malaga, e infine quest’anno è tornato a giocarsi l’accesso alla finale con il Manchester City. Tre club, tre primati: mai nella loro storia erano arrivati così lontano nella massima competizione continentale. Sa già che a fine stagione saluterà tutti per lasciare il posto a Guardiola, un destino che condividerà con diversi giocatori. Ma l’eredità che lascia al catalano è più pesante di quanto possa sembrare a prima vista: una Premier League (vinta questa volta senza aspettare l’ultima azione), una coppa di Lega (successo ai rigori sul Liverpool a febbraio), la semifinale di Champions, più una statistica particolare: Pellegrini è secondo solo a Mourinho per percentuale di vittorie in Premier League nelle prime 99 partite da allenatore, con 73 per lo Special One e 64 per il cileno. Un dato emerso curiosamente proprio quando, alla vigilia della sua partita numero 100, l’Ingegnere (nick derivato dalla laurea in ingegneria civile presa nel 1979 all’Universidad Catolica di Santiago) annunciò il suo addio alla panchina del City a fine stagione. Nel comunicato successivamente diffuso dal club inglese veniva specificato come i contatti con Guardiola risalivano al 2012, quando l’allenatore degli Sky blue era ancora Mancini, confermando implicitamente il carattere transitorio della scelta di Pellegrini in attesa della grande investitura.

Il match di andata contro il Real Madrid

L’urna ha evitato l’incontro del club con il proprio futuro, non quello del tecnico con il proprio passato. Affrontato con il solito stile cool and collected, come amano dire gli inglesi. Pellegrini ha vissuto un’esperienza traumatica con le Merengues, durata appena dodici mesi a cavallo tra il 2009 e il 2010. Una stagione iniziata con un mercato galattico (arrivarono Cristiano Ronaldo, Kakà, Benzema), proseguita con l’eliminazione agli ottavi di Champions contro il Lione e con l’umiliazione (0-4) in Copa del Rey contro i dilettanti dell’Alcorcon, prima di chiudersi con la beffa del secondo posto nella Liga a dispetto dei 96 punti realizzati (cifra mai raggiunta da nessuno prima in Spagna). C’erano quindi tutte le premesse per un incrocio pieno di scintille con il suo ex club, ma così non è stato. «Non ho conti aperti», ha dichiarato Pellegrini dopo il sorteggio, «mi sarebbe piaciuto essere ascoltato, mi sarebbe piaciuto avere un rapporto normale con il presidente, ma allenare il Real è stato comunque un lusso, ora il libro è chiuso e non sono in cerca di rivincite».

Gli Oasis, Jimmy Grimble, Shaun Goater (che oggi i più giovani tifosi del City conosceranno più per la rubrica Read the Goat che tiene sul magazine del club piuttosto che per i 101 gol messi a segno in maglia celeste) e Colin Shindler sono ormai suggestioni vintage, appartenenti a un’altra epoca. Nel 2012 lo scrittore ha realizzato “La mia vita rovinata dal Manchester City” (inedito in Italia), opera nella quale all’ironia sia è affiancata una certa disillusione all’insegna del “non è più come prima”. Ma nemmeno il suo libro lo è.

 

Nell’immagine in evidenza, i giocatori del Manchester City festeggiano la vittoria in Capital One Cup contro il Liverpool lo scorso 28 febbraio (Photo by Michael Steele/Getty Images)