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Ibra showtime

Zlatan è più grande dei Galaxy, più grande della Mls, sta sfruttando l'avventura in America per estendere il suo mito. E per costruirsi una nuova carriera.

«Il più grande showman che lo sport abbia mai conosciuto». Di tutte le frasi costruite, inventate dai media statunitensi per provare a descrivere in poche battute Zlatan Ibrahimovic, quella di Dean Jones su Bleacher Report è probabilmente la migliore. Di sicuro è quella che spiega più e meglio di tutte cosa cerca Ibra dall’altro lato dell’Atlantico. A Los Angeles, lo svedese sta alimentando e allargando la sua influenza e il suo mito esattamente come avrebbe voluto. A differenza degli altri grandi campioni europei che hanno scelto di chiudere la carriera negli Stati Uniti – come Henry, Gerrard o Villa – Zlatan è volato a L.A. non per sfumare la sua transizione in uscita, ma per aggiungere nuovi capitoli alla sua storia, come forse non avrebbe potuto fare in Premier, in Liga o in Serie A. A 37 anni, e dopo un infortunio ai legamenti del ginocchio, Ibrahimovic sapeva di non poter essere il giocatore dominante che è sempre stato. Perciò una lega di seconda fascia. Ma non una qualsiasi: la Mls. Perché nessun’altra ha per cornice gli Stati Uniti, la California, Los Angeles: l’habitat naturale per il calciatore con il più grande senso del dramma che sia mai esistito.

Il trasferimento in una realtà in crescita, ma pur sempre di secondo piano nella piramide calcistica, non va intesto come un ridimensionamento dell’immagine di Ibrahimovic. Perché se i Los Angeles Galaxy e la Major League Soccer sono già doppiati in grandezza dallo svedese – «dovrebbero chiamarla MLZ», ha detto –, questi invece si ciba voracemente dei riflettori che lo circondano nell’ambientazione più glamour possibile, il palcoscenico più grande del mondo, il più patinato. Ibra è l’unico che può alzarsi al di sopra della Mls e reclamare un posto al fianco dei migliori sportivi delle altre leghe professionistiche Usa, delle rockstar e degli attori di L.A.. Del variopinto star system della West Coast.

«Sicuramente Ibrahimovic sta meglio in America che in Svezia», rifletteva poco dopo il suo trasferimento in Mls il giornalista svedese Sebastian Mattsson. «È incredibile: come sportivo è più americano che svedese». Los Angeles non è stata una scelta casuale, solo che i Galaxy c’entrano poco o nulla con la scelta di Ibra di trasferirsi negli Stati Uniti. A due passi da Hollywood, in realtà, Ibra sta gettando le basi per il suo futuro dopo la carriera da calciatore. Sta costruendo la sua seconda vita, sfruttando l’effetto amplificatore dell’America – con tante comparsate nei più importanti Late Show, da Jimmy Kimmel a Stephen Colbert – per ampliare il suo brand, la sua immagine, i suoi interessi. Praticamente il paradiso per uno che ama stare al centro dell’attenzione, nello sport e nella vita pubblica.

In una recente intervista a un quotidiano svedese ha parlato anche dell’ipotesi, sempre più concreta a questo punto, di cominciare la carriera da attore. «Ci sono molte offerte dal mondo del cinema, ma voglio quella giusta. Non voglio essere una comparsa sullo sfondo. Possibilmente in un film d’azione, un James Bond, un Jason Bourne. Ma non nei panni del protagonista. Io sono l’antagonista». Che poi quello del villain è un ruolo che ha interpretato più volte nelle sue varie tappe in Europa. Per il presente, invece, Ibra si è costruito una sfida diversa: tornare ad essere dominante nel calcio come lo è sempre stato, e almeno per il momento sembra la cosa che gli riesce meglio. Perché nonostante tutto rimane un atleta e uno sportivo con pochi eguali. Nel frattempo, è diventato il calciatore più pagato nella storia della Mls. Un altro aspetto abbastanza consueto nel corso della sua traiettoria da calciatore professionista.

Durante la Mls 2019, Ibrahimovic ha raggiunto e superato il record di gol di Gunnar Nordahl (515 gol): oggi è il calciatore svedese più prolifico di sempre (Frederic J. Brown/AFP/Getty Images)

Dominante è un aggettivo che descrive ancora perfettamente il gioco di Ibra, il suo modo di stare in campo, di vivere il rapporto con avversari e compagni. È l’aggettivo che racchiude il senso della sua carriera sin qui. Zlatan è al di sopra della sua stessa squadra, alla quale vorrebbe imporre anche chi va in campo e chi no. Un po’ come fa LeBron James sui parquet della Nba, uno che da tutta la vita si sente – perché lo è – un’entità altra rispetto a praticamente chiunque altro. E poco importa che la Los Angeles del calcio non ha lo stesso fascino e lo stesso status della Los Angeles del basket dov’è andato il Re – accolto in città dallo stesso Ibra con un post su Instagram che è un trattato di autostima: «adesso LA ha un Dio e un Re». Per dire: poche ore fa, Zlatan ha compilato la sua Top 11 della storia del calcio, personale e personalizzata. Ha scelto di schierarsi 11 volte. Anche come portiere.

L’obiettivo è quello di riportare i Galaxy alla vittoria dopo tre stagioni di assenza dai playoff. Operazione impegnativa, il cui peso Ibra ha voluto caricarsi sulle spalle come un novello Atlante. E inevitabilmente in poco più di un anno ha già prodotto un’aneddotica sconfinata, destinata ad alimentare ulteriormente la sua dimensione di personaggio del tutto fuori dall’ordinario. Il primo passo è la presentazione alla città, al suo arrivo, quando ha acquistato una pagina del Los Angeles Times. Non per una banale dichiarazione d’intenti o per ingraziarsi la tifoseria. Ma per un’ammissione di superiorità rispetto a tutto e tutti. «Dear Los Angeles, you’re welcome». Pausa scenica.

I am Zlatan, nice to meet you

L’esordio con la maglia dei Galaxy sembra una sceneggiatura scritta a tavolino. È il primo derby cittadino della storia – El Trafico, come l’hanno soprannominato tifosi e giornalisti, come per omaggiare il caos stradale di Los Angeles –, contro la franchigia new entry della lega, i LAFC di Carlos Vela che fino a quel momento erano la squadra sensazione del campionato. Quando Ibrahimovic entra in campo i Galaxy hanno appena diminuito lo svantaggio dopo lo 0-3 ospite dei primi sessanta minuti. Il primo a prendersi la scena però è Pontius, un mestierante della Mls nato nell’Orange County, pochi a chilometri a sud dello stadio Dignity Health Sports Park, la casa dei Galaxy. Passano quattro minuti, da una respinta della difesa dei Galaxy nasce una palla vagante, una decina di passi oltre la metà campo. Il pallone rimbalza una volta, si alza. Ibra la aspetta, aspetta che scenda, nemmeno uno sguardo alla porta. Sa già come andrà a finire. La colpisce a cinquanta centimetri da terra, disegna la traiettoria perfetta per la giocata perfetta. L’unico commento possibile è quello del telecronista incredulo che riassume quello che pensano tutti sulle gradinate, davanti alla tv. «Oh c’mon, c’mon».

Ma il pareggio non basta. A Ibra, poi. Il momento giusto per colpire ancora – la partita e il cuore dei losangelini – è circa quattro secondi dopo i novantesimo. Il cross è di Ashley Cole, proprio sulla sua testa. Prende posizione e tempo a difensore e portiere avversario. La gira con una frustata e si prende tutto: gol, vittoria e un posto nella storia del calcio Usa. Tempo impiegato: una ventina di minuti, non di più.

Zlatan Ibrahimovic ha lasciato l’Europa nel 2017, e ha firmato il suo contratto con i Los Angeles Galaxy a marzo 2018. Nella stagione 2019 è stato nominato capitano (Frederic J. Brown/AFP/Getty Images)

Il concetto di giocatore dominante si legge nei numeri – 42 partite di Mls, 35 gol e 13 assist, in poco più di un anno –, ma in realtà va molto oltre. I Los Angeles Galaxy dipendono totalmente da Ibrahimovic come praticamente qualsiasi altra squadra in cui ha giocato, e senza di lui difficilmente vedono la porta, figurarsi le vittorie. Per lo stesso motivo, gli avversari finiscono per ridisegnare il proprio piano partita pur di limitarlo, e lo fanno più spesso di quanto non facciano con Rooney o Lodeiro – o in passato con David Villa. Perché il racconto che Ibra fa di se stesso sia completo e soddisfacente c’è bisogno di una vittoria finale, del trofeo che racconti una storia di successo. L’unica che Ibrahimovic possa accettare, da sempre.

«Sono qui per vincere, l’ho detto dal primo giorno. Non sono qui vacanza. Sono venuto qui per lasciare la mia impronta. Non sono riuscito a vincere nel mio primo anno e non andrò via senza averlo fatto», aveva detto a marzo prima di iniziare la nuova stagione. E forse proprio per questa sua dichiarazione d’intenti Chris Fuhrmeister sulle colonne del Guardian aveva immaginato un finale distopico per la stagione di Mls. Uno in cui Ibrahimovic «prima batte tutti i record del campionato, poi tira gira giù la statua di Beckham che sta fuori lo stadio, e infine ne costruisce una tutta sua». Con le sue mani. Potrebbe esserne capace, dopotutto.