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Serie A 2019/20: i migliori cinque allenatori

I tecnici del campionato che più hanno impressionato positivamente.

Dopo i top cinque calciatori, è arrivato il momento dei migliori allenatori della Serie A 2019/20. Una selezione più difficile: considerare solo i punti realizzati o il piazzamento finale è indubbiamente riduttivo, perciò nella valutazione rientrano tante variabili che condizionano il giudizio finale – miglioramento complessivo negli anni, valorizzazione del materiale a disposizione, gestione del gruppo e dell’ambiente. Sulla base di questi e altri fattori abbiamo scelto i cinque tecnici del campionato che più ci hanno impressionato: la prima sorpresa (o forse no) è che non troverete i primi due classificati.

Gian Piero Gasperini

Quando nel 2017 l’Atalanta di Gasperini conquistò per la prima volta la qualificazione all’Europa League, in tanti pensarono che si trattava di un grande risultato, che quello fosse l’apice di un bellissimo progetto tattico, tecnico, manageriale. È successa la stessa cosa un anno dopo, quando l’Atalanta ha centrato di nuovo la qualificazione all’Europa League, poi nel 2019, quando la Dea è arrivata al terzo posto, si è qualificata alla Champions League e ha disputato la finale di Coppa Italia. E poi è accaduto di nuovo quest’anno, tante altre volte: dopo l’incredibile passaggio agli ottavi di finale in Champions, dopo la doppia, brutale vittoria contro il Valencia, dopo le tre partite diverse di Serie A in cui ha segnato sette gol, dopo aver raggiunto il terzo posto finale, ancora, alle spalle di Juventus e Inter, quando ha tagliato il traguardo dei 100 gol segnati. La verità che l’Atalanta non ha mai smesso di crescere, di farlo in maniera esponenziale davanti ai nostri occhi, così oggi è una squadra che continua a essere molto intensa in difesa, ma nel frattempo attacca in maniera imprevedibile e pure raffinata. Merito dei nuovi arrivi (Muriel e Malinovskyi su tutti) che hanno allargato le possibilità di Gasperini, ma soprattutto del tecnico piemontese.

È questo che fa di lui uno dei migliori allenatori d’Italia, se non il migliore in assoluto: la capacità di creare nuove cose e nuove sinergie, di farlo senza rinunciare ad alcuni principi, semplicemente integrando nuovo talento e nuove alternative in un impianto ormai mandato a memoria, che non accusa scompensi se i giocatori cambiano, perché quelli che sono stati scelti – o che saranno scelti – per farne parte sono fisicamente, tecnicamente, eticamente adatti a questo tipo di calcio. Gasperini si è fatto coinvolgere dal progetto dell’Atalanta ma gli ha anche dato una direzione definita, probabilmente anche definitiva, al punto che oggi ci chiediamo se un giocatore che è esploso a Bergamo sia in grado di rendere allo stesso modo in un top club, oppure se la stessa Atalanta sia arrivata a essere un top club, pure unico nel suo genere. In ogni caso, tutto riporta sempre a lui, a Gian Piero Gasperini: il vero uomo simbolo della squadra più bella della Serie A, da un po’ di anni a questa parte, e ogni anno sempre di più.

Simone Inzaghi

La storia è nota: la promozione pro-tempore sulla panchina della Lazio, l’anno di “formazione” a Salerno mai cominciato e quindi l’improvviso ribaltone, con il richiamo della casa madre dopo il clamoroso dietrofront di Bielsa. Simone Inzaghi, allenatore della Lazio per caso o quasi, si era fatto piacere: quinto posto nelle prime due stagioni, la vittoria della Coppa Italia alla terza, un sistema di gioco definito e riconoscibile. Sembrava però che la Lazio, e con essa Inzaghi, avesse in qualche modo esaurito le novità, e non potesse andare oltre il limite delle scorse annate: invece ci siamo trovati di fronte una squadra che, fino all’interruzione, era in piena corsa per lo scudetto, oltre che capace di raccogliere 21 risultati utili consecutivi. Un’enormità: più di un girone. E senza il lockdown, gli infortuni e qualche difficoltà di troppo, forse si sarebbe vista una storia ancora diversa.

Simone Inzaghi è riuscito a portare la Lazio in Champions League per la prima volta dal 2007: all’epoca era ancora un calciatore (Marco Rosi/Getty Images)

In ogni caso, la Lazio ha centrato un grande obiettivo: la qualificazione in Champions League, a distanza di 13 anni dall’ultima volta. Ma il lavoro di Inzaghi, quest’anno, va oltre il piazzamento. Cosa è cambiato rispetto agli anni scorsi, rispetto all’ottima squadra che pure faticava ad arrivare tra le prime quattro? Sul piano tattico molto poco, perché si è continuato sulla strada già tracciata in precedenza. Certo, ci sono i 36 gol di Immobile, i 15 assist di Luis Alberto, un Milinkovic-Savic pienamente ritrovato e un Acerbi gigante in difesa. Ma sembra che Inzaghi abbia fatto fare alla sua squadra uno scatto a livello mentale: non si fanno per caso 21 partite di fila senza sconfitta. Non solo: a vedere le numerose volte in cui la Lazio ha acciuffato la vittoria o il pareggio nei minuti finali, a risultato praticamente compromesso, vengono in mente esempi illustri come il Manchester United del 1999, capace di ribaltare, spesso a tempo scaduto, tutte le partite cruciali, dalla semifinale di Fa Cup contro il Liverpool fino alla decisiva partita di Premier contro il Tottenham, passando ovviamente per la finale di Champions. Dove non basta il talento, serve una mentalità fuori dal comune: è questo che Inzaghi sembra aver trasmesso ai suoi, liberarsi dei limiti, comportarsi da grande squadra. Fino a diventarlo.

Stefano Pioli

Aiutato anche dall’arrivo di Ibrahimovic a gennaio, Pioli in questi mesi si è rivelato un allenatore intelligente che ha avuto la pazienza, e allo stesso tempo l’abilità, di creare una squadra che partita dopo partita ha limitato gli errori ed è sembrata sempre di più il giusto mix tra la sua idea di calcio e le qualità dei giocatori in rosa. Tra fine ottobre e inizio novembre il Milan perdeva con Roma, Lazio e Juventus dimostrandosi nettamente inferiore; a dicembre espugnava Parma e Bologna ma incappava nell’orribile pomeriggio di Bergamo; a gennaio iniziava a trovare continuità con i successi su Cagliari, Udinese e Brescia; a febbraio cedeva (meritatamente) nel derby nonostante un gran primo tempo, ma pochi giorni dopo riusciva a fermare sull’1-1 la Juve in Coppa Italia subendo il gol del pareggio su rigore in pieno recupero. Dopo il lockdown, il Milan è stata la miglior squadra della Serie A, ha ottenuto 12 risultati utili consecutivi (9 vittorie e 3 pareggi) e, contro Roma, Lazio e Juventus, ha vinto sempre. Il sesto posto in classifica, non sufficiente per evitare i preliminari di Europa League, forse non ripaga a dovere il lavoro di Pioli.

Nella speciale classifica del post-lockdown, il Milan è stata la miglior squadra del campionato con 30 punti in 12 partite, 5 in più dell’Inter e 10 più della Juventus (Alessandro Sabattini/Getty Images)

Ed è ora che viene il bello (ma anche il difficile): l’anno prossimo il Milan dovrà competere per il ritorno in Champions League. L’allenatore emiliano, che si è meritato il rinnovo, è stato confermato per questo. La rosa non dovrebbe subire troppi stravolgimenti, ma servirà qualche nuovo acquisto almeno per allungare la panchina. Oggi i rossoneri sono una squadra efficace e pure divertente da vedere: il 2020/21 ci darà la giusta percentuale tra i meriti di Pioli e la straordinarietà della situazione vissuta in queste ultime settimane. Nel recente passato, però, non c’è mai stato tanto ottimismo come adesso.

Roberto De Zerbi

Sarebbe un errore valutare il Sassuolo solamente per il livello di intrattenimento delle sue partite: ci sono sempre tanti gol, sia dei neroverdi – il sesto miglior attacco – sia dei loro avversari – l’ottava peggior difesa. Il Sassuolo invece ha trovato delle certezze, ha piantato fondamenta molto solide per il futuro e non era scontato. All’inizio di ogni stagione il Sassuolo deve trovare la sua dimensione, deve trovare un senso al suo campionato: è una squadra troppo forte e con risorse troppo grandi per considerarsi in lotta per evitare la retrocessione; ma ha troppe squadre davanti a sé per pensare di poter puntare seriamente a un posto nelle coppe europee. Come le altre squadre della middle class italiana, il Sassuolo deve giustificare il suo campionato anno dopo anno. E con De Zerbi ha trovato quell’identità che cerca da tempo.

Seconda stagione per Roberto De Zerbi alla guida del Sassuolo: l’ottavo posto ottenuto è il secondo miglior piazzamento in Serie A nella storia dei neroverdi (Francesco Pecoraro/Getty Images)

L’ex allenatore di Foggia, Palermo, Benevento ha costruito una squadra prevalentemente offensiva, ambiziosa, spavalda, con un sistema caratterizzato dall’elevata propensione al rischio: i giocatori di De Zerbi cercano costantemente la giocata più remunerativa dal punto di vista tattico. Che non è necessariamente quella più semplice. In questo modo De Zerbi ha costruito una squadra che si mette in mostra, crea identità di gruppo e valorizza i singoli generando un valore (anche in ottica mercato) che rende sostenibile il modello societario. Non a caso quest’anno il Sassuolo – che ha portato 18 giocatori oltre i mille minuti di gioco, diventando una vetrina per molti – ha valorizzato giocatori che sembravano eternamente incompiuti, come Berardi o Caputo (in modi e su livelli diversi), e altri più o meno giovani che sembravano aver difficoltà a imporsi in un grande campionato: da Marlon a Boga, da Locatelli a Muldur. Il calcio spensierato e ambizioso portato da De Zerbi a Sassuolo sta aiutando la società a crescere passo dopo passo in un ambiente che altrimenti ogni anno, per mancanza di veri stimoli di classifica, rischierebbe di arenarsi in una palude di incompiutezza.

Ivan Juric

Di lui si è scritto recentemente che «è stato un giocatore utile e quasi ignorato. Era leggero, non alto, molto ordinato, uno di quei registi di cui avverti l’importanza quando non ci sono». Lo Juric allenatore è altrettanto centrale ma molto più “vistoso”, se si considera la continuità dei risultati, la qualità delle prestazioni e il modo in cui il Verona si è salvato in assoluta tranquillità. Una squadra solida, riconoscibile nei pregi e nei difetti, che è andata in direzione ostinata e contraria rispetto a quella intrapresa da gran parte delle neopromosse degli ultimi anni, e che ha ribaltato con la forza delle idee la narrazione e gli stereotipi da (e della) zona salvezza.

Il Verona è l’unica delle tre neopromosse ad essersi salvata: per Juric la formazione scaligera è la seconda allenata in Serie A dopo il Genoa (Tullio M. Puglia/Getty Images)

Il calcio di Juric è un calcio ambizioso, moderno, in cui il concetto di ruolo è stato ampiamente superato dall’importanza di compiti e funzioni e in cui le responsabilità sui due lati del campo sono equamente distribuite tra i giocatori. L’ex allievo di Gasperini è riuscito a costruire un sistema fluido ed elastico sia difensivamente – con fasi di difesa posizionale più o meno lunghe a seconda dell’efficacia del pressing alto – che offensivamente: la mancanza di un centravanti di ruolo affidabile o di un finalizzatore di riferimento (strana, in questo senso, la rinuncia a Pazzini) ha quasi imposto la ricerca di una fase d’attacco portata con tanti uomini, con Veloso, Pessina Zaccagni e Amrabat deputati a far risalire il campo secondo i propri istinti e caratteristiche di base. Proprio il centrocampista marocchino è uno dei giocatori chiave – gli altri sono Rrahmani e Kumbulla – che non ci saranno nella prossima stagione: «Partiremo da zero, ma abbiamo un’idea di calcio che vogliamo mandare avanti, e per questo abbiamo potenziato lo scouting. Non sarà facile ripetersi, ma l’idea è riproporre lo stesso concetto di gioco» ha detto Juric. Questo è l’unico modo perché ciò che già ha funzionato possa funzionare ancora.