ì

Özil al Fenerbahce ha trovato una casa

La scelta di Mesut non c’entra solo col campo: racconta anche di un rapporto deteriorato con la Germania.

Al decollo del suo jet privato da Londra con destinazione Istanbul, l’attesa era febbrile. Non come quando si dice di un campione in arrivo, con l’immancabile distribuzione di sciarpe appena fuori dal gate; non come per uno qualsiasi. Se l’emergenza Covid ha impedito la ressa in aeroporto, la passione non si è spenta con la distanza. Il sito di tracciamento dei voli Flightradar ha stimato che nella notte tra domenica 17 e lunedì 18 gennaio la rotta del Dassault Falcon 8X che trasportava il fantasista dal Regno Unito alla Turchia è stata seguita in diretta da oltre un milione di persone, con un picco di 312.676 connessioni contemporanee: un virtuale rito collettivo di attesa messianica. Una sfilza di compulsivi aggiornamenti web, per essere sicuri di non perdersi nulla dell’avvicinamento alla meta, della realizzazione di un “sogno” – parole dei tifosi, ma anche della star – nel momento in cui, calcisticamente e socialmente, emerge una certa urgenza di uscire dalla depressione; fino al sollievo dell’atterraggio, ormai in un nuovo giorno: Mesut Özil è tornato a casa. Anche se in effetti quella, in senso fisico e pure giuridico, non era mai stata casa sua.

Il suo passaggio al Fenerbahçe dall’Arsenal, dove non giocava da quasi un anno dopo sette stagioni comunque memorabili, tra picchi di classe assoluta e momenti di esasperante evanescenza, è probabilmente il colpo di questo mercato invernale; per la Turchia, da molti anni in qua. L’affare porta con sé aspettative poderose. Intanto per lo spessore tecnico, che col supporto di voglia e condizione fisica può spezzare ogni equilibrio in una lega che resta votata alla sostanza più che alla qualità, all’accetta anziché al fioretto; poi, c’è il prestigio perduto delle grandi di Istanbul, che un nome e un piede come il suo possono contribuire a ricostruire; e infine – ma in verità all’origine di tutto – ci sono il valore simbolico, la fascinazione estatica, il senso politico persino: anche se non c’è nato, pure se non ci ha mai giocato né vissuto, è come se Özil abbia ritrovato una casa che forse non si aspettava.

L’aspetto economico è ovviamente rilevante: al Fenerbahçe dovrebbe guadagnare circa tre milioni di euro all’anno fino al 2024, diventando manco a dirlo il più pagato. Dopo il confinamento ai margini del grande calcio e il malinconico addio a Londra – dove in tanti non dimenticano comunque la sua adesione profonda alla causa spettacolare ed eternamente incompiuta dei Gunners –, non è male. Ma non è tutto. Intendiamoci: senza soldi, non ci avrebbe messo piede. Eppure, era solo una delle scelte possibili, non necessariamente la più lucrativa. L’alternativa rivelata dallo stesso Özil era il salto Oltreoceano, negli Stati Uniti. Ma c’è da scommetterci che, se avesse voluto, una casacca dorata avrebbe potuto attenderlo magari in Qatar (ma niente Emirati o Arabia Saudita probabilmente, visti gli attuali rapporti con Ankara, né Cina, dove è bandito per la sua campagna a sostegno della minoranza uigura). In ogni caso, la Turchia l’ha scelta. E questo vuol dire che a 32 anni, dopo una carriere brillante e un titolo mondiale ma pure diverse amarezze, ancora ci tiene a fare davvero il calciatore.

Cosa c’è però dietro questa decisione fuori dal campo, o almeno intorno? Ripescare le polemiche di e su Mesut Özil, negli ultimi anni in cui sul terreno di gioco diventava sempre meno protagonista, significa lanciarsi in un piccolo compendio di geopolitica e diatribe culturali, etniche, religiose. Potrebbe anche sembrare naturale, per un uomo dalle identità plurali come lui. Solo che più spesso, per prudenza o ignoranza che sia, su queste cose i calciatori tacciono.

Özil nasce e cresce a Gelsenkirchen, dagli anni Sessanta cuore industriale della Germania e nuova patria per migliaia di emigrati turchi giunti in cerca di guadagni e finiti a scavare nelle miniere di carbone della Ruhr o a spezzarsi la schiena nelle industrie pesanti. I suoi genitori sono tra questi. Il padre Mustafa – con cui poi avrà una velenosa disputa legale per averlo privato del ruolo di manager – c’era arrivato a sei anni con la famiglia. Gli Özil fanno i braccianti e gli operai nelle industrie metallurgiche. Alla madre Gulizar, velata, il giovane Mesut è molto legato, come ai tre fratelli maggiori. La vita non è comoda. E come in tante storie di questo tipo, è il calcio a cambiarla in meglio a tutti; in particolare, il suo piede sinistro. Si forma e debutta nello Schalke 04, da cui passano molti immigrati di seconda generazione. I cronisti sportivi ad Ankara rilevano persino che sono più i finalisti ‘turchi’ di Champions League allevati a Gelsenkirchen che nell’intera Turchia. Da lì vengono Ilkay Gündoğan, che ha preferito la nazionale tedesca, e Hamit Altıntop, che optò invece per la maglia rossa con la mezzaluna e la stella.

Agli inizi della carriera, prima al Werder Brema e poi col grande salto al Real Madrid, diventa il poster boy della nuova Germania cool e multietnica, che segna e si diverte, viaggiando a vele spiegate verso il successo al Mondiale del 2014. Con quelli come lui, giovani e rapidi e tecnici, cambia lo stile di gioco della nazionale tedesca e della stessa Bundesliga: un calcio verticale, spettacolare, finalmente meno ruvido. Non è però già allora una questione solo di campo. Mesut rappresenta un simbolo per l’integrazione degli immigrati di seconda e terza generazione, specie per i tre milioni e passa di turchi o tedeschi con discendenza turca, alcuni dei quali nel Paese d’origine delle loro famiglie non hanno a volte mai messo piede, senza per questo necessariamente perdere i legami con la cultura e la fede dei padri. L’integrazione procede anche per simboli. Nell’ottobre 2010, al termine di un Germania-Turchia valido per le qualificazioni all’Europeo, la cancelliera Angela Merkel scende negli spogliatoi a si congratula con l’agile e talentuoso ragazzo di 22 anni, che le stringe la mano sorridente a torso nudo. Una photo opportunity gravida di messaggi, nei giorni in cui l’estrema destra a Berlino lo definiva un “tedesco di plastica”. Finito sotto i riflettori, lui replicò con la perfetta frase da copertina: «Ho la tecnica di un giocatore turco e la disciplina di uno tedesco». Lo slogan ideale per un programma d’integrazione che non scivoli nell’assimilazione. Certo non mancava qualche veleno, tipo quello sparso dal concittadino Altıntop, che disse sì, «rispetto la sua scelta» di giocare per la Germania, ma «il fatto è che se sei un giocatore tedesco hai più valore sul mercato». La narrazione, anche sui media internazionali, era però chiara: la sua era «una rara storia di immigrazione di successo», mentre la crisi post-industriale metteva a dura prova gli equilibri sociali. Del resto, era il periodo in cui si imponevano i film sulla complicata ricerca delle identità di Fatih Akın, mentre Cem Özdemir, già primo deputato di origine turca al Bundestag, veniva eletto alla guida dei Verdi, forza sempre più influente nello scenario politico nazionale.

Dopo l’esperienza al Real Madrid, Özil sbarca all’Arsenal, dove presto sembra trovare la sua dimensione e lascia un’impronta ben più profonda delle statistiche, che parlano di 33 gol in 184 presenze, ma soprattutto 54 assist decisivi. Del tanto che si può dire di lui, fa una sintesi l’allenatore che lo volle ai Gunners e più di tutti ha contato nella sua carriera, Arsène Wenger. «Mesut è come un’orchestra che suona. Gioca la palla al momento giusto: i tempi dei passaggi sono eccezionali, come la loro creatività. In ogni situazione dà la risposta giusta, e questo è il genio», dice oggi il tecnico francese, disapprovando apertamente il trattamento riservatogli dal suo successore, Mikel Arteta. Poi, sottolinea quella che forse è la sua caratteristica più affascinante, più unica, l’occhio di Özil: «La sua qualità è quella di vedere in profondità. Vede rapidamente, decide rapidamente e capisce rapidamente ciò che ha visto. Non è una cosa che si trova spesso».

Özil si è trasferito all’Arsenal nell’estate 2013: nei suoi sette anni e mezzo a Londra, ha giocato 254 partite e ha segnato 44 gol, contribuendo alla conquista di sette trofei, ovvero quattro FA Cup e tre Community Shield (Mike Hewitt/Getty Images)

Dopo mesi fuori rosa, arriva il corteggiamento del Fenerbahçe, che l’ha sedotto col fascino di un’avventura che segna un ritorno alle radici familiari, da cui giura di non essersi mai staccato. Lo stesso Özil non rifugge i simboli. Nel video del suo atterraggio in Turchia, pubblicato su Twitter – un minuto scarso che ha ottenuto quasi 2 milioni e mezzo di visualizzazioni –, compare mentre sibila estatico “Istanbul, Istanbul”, circondato da bandiere della Turchia e del suo nuovo club; e appena il jet tocca terra, si stampa deciso una mano sul cuore.

Come Mesut, anche la moglie Amine Gülse coltiva identità miste. Modella, attrice, nata e cresciuta in Svezia, trova il successo non a Stoccolma ma Istanbul, dove nel 2014 viene incoronata miss Turchia, diventando una star nel Paese da cui proveniva la madre, originaria della provincia Smirne, feudo laico sulla costa egea. Il padre, tanto per mischiar ancor più le carte, è un turcomanno di Kirkuk, nel Kurdistan iracheno. La coppia si sposa nel giugno 2019. Con un testimone di nozze d’eccezione: il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. È il culmine di una relazione particolare che il calciatore sceglie di coltivare a dispetto della scomodità mediatica.

La vicenda balza agli onori della cronaca nel maggio 2018, alla vigilia del Mondiale di Russia. Özil incontra Erdoğan durante una visita a Londra, insieme al compagno di nazionale Gündoğan e a Cenk Tosun dell’Everton, anche lui nato e cresciuto in Germania, ma poi diventato nazionale turco. Si fa ritrarre sorridente al fianco del leader di Ankara, mentre gli omaggia la sua 11 dell’Arsenal. Appena si diffonde la notizia, intorno ai giocatori si scatena la bufera: perché quella foto con un capo di stato straniero così discusso, specie dopo la repressione post-golpe, e tanto più in Germania, dove la sua influenza sulla comunità di immigrati è testimoniata dalla messe di voti raccolta in ogni consultazione elettorale nella circoscrizione estera? La materia, si capisce, è sensibile. Era solo una foto, non un “endorsement politico”, si giustificano i calciatori. Ma quando poco più di un mese dopo la nazionale tedesca va incontro al disastro, con un’umiliante eliminazione ai gironi del Mondiale per i campioni in carica, quell’episodio controverso ma senza connessioni con le cose di campo diventa una bandiera per tutti quelli che Özil non lo sopportavano ben al di là dei 90 minuti. Gli hater si scatenano. Viene attaccato anche per la fede islamica, che osserva accuratamente, pregando prima di ogni partita, e professa costantemente sui profili social. Per tutta risposta, lui sceglie un addio più che polemico, accusando di “razzismo” il presidente della Federcalcio di Berlino, Reinhard Grindel. «Il trattamento che ho ricevuto dalla Dfb e da tanti altri», scrive in una lettera aperta, «mi spinge a non indossare più la maglia della Nazionale tedesca. Sono un tedesco quando vinciamo e un immigrato quando perdiamo. Non mi sento desiderato e credo che ciò che ho fatto dal mio debutto in nazionale nel 2009 – in cifre: 92 partite e 23 gol e 40 assist – sia stato dimenticato». Poi aggiunge, sapendo certo di poter scatenare nuove accuse: «Ho due cuori: uno tedesco e uno turco». Ecco la chiave: la sua patria non sembra volerlo più, o almeno questo dice di sentire. E in qualche modo, a un livello sotterraneo eppure già evidente, si mette a cercarne un’altra in cui venga accettato.

Nel frattempo, alla fine del 2019, è di nuovo al centro delle polemiche dopo aver denunciato la repressione della Cina contro la minoranza musulmana e turcofona degli uiguri sul suo profilo Twitter da 25 milioni di follower. La tv di stato di Pechino reagisce oscurando la partita dell’Arsenal contro il Manchester City. I Gunners prendono presto le distanze, spiegando di volersi tenere lontani dalla “politica” e certo preoccupati dal danno d’immagine in un mercato essenziale. Uno strappo che segna l’inizio della fine di un’esperienza brillante e a tratti incostante, ma comunque indimenticabile.

Il Fenerbahçe, la squadra per cui Erdoğan tifa sin da bambino – altra cosa è l’operazione di potere dell’Istanbul Başakşehir, dove c’entrano affari e voti e non certo il cuore – diventa una scelta naturale. Ogni figlio di un immigrato turco in Germania, spiega lo stesso Özil, ha una squadra del cuore in Turchia. E la sua è proprio quella in cui sta per cominciare una nuova avventura, indossando quella stessa maglia con cui già da bambino correva dietro a un pallone con la 10 del suo idolo sulle spalle, il nigeriano Jay-Jay Okocha. A convincerlo poi a preferire la Turchia all’alternativa americana sarebbe stato proprio il presidente-testimone in una telefonata riservata. Dopo l’ha richiamato per felicitarsi, in attesa del prossimo incontro. Il primo, ironia della storia, fu proprio in occasione di quel Germania-Turchia del 2010, che Erdoğan guardò dalle tribune insieme alla cancelliera Merkel. Un cerchio che si chiude. «Siamo molto felici, molto orgogliosi. Siamo tornati in patria», ha detto la moglie Amine, dopo aver sceso le scalette dell’aereo con la figlioletta Eda in braccio. Visibilmente felice al suo fianco, ormai planato sulla terra di Istanbul, e forse indugiando ancora nel chiedersi cos’è che si può chiamare casa, Mesut Özil dava l’aria d’aver trovato una prima risposta: sentirsi amati.