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La fine degli psicodrammi in Argentina

La vittoria in Copa América, 23 anni dopo l'ultimo trionfo, è il frutto del lavoro tecnico, ma soprattutto emotivo, del ct Lionel Scaloni.

«Noi e i giocatori eravamo obbligati a vincere. Il carico che aveva addosso questo gruppo era troppo pesante». Jorge Sampaoli, nella sua prima intervista dopo la Coppa del Mondo in Russia, rilasciata a Marca, ha ribadito il tema ricorrente, quando si parla della Selección dello scorso decennio: lo psicodramma. Per l’Argentina, il Mondiale 2018 è stato il punto di non ritorno di una generazione di calciatori speciale, usurata emotivamente da un loop di sconfitte sempre più brucianti, costretta anno dopo anno, competizione dopo competizione, a fare i conti con gli stessi fantasmi e con le stesse pressioni. Questo clima invivibile, insieme a un progetto tecnico rimasto incompiuto, ha generato un torneo disastroso, nettamente il punto più basso dell’Albiceleste negli ultimi anni.

Lionel Scaloni ha avuto il coraggio di accettare la panchina dell’Argentina dopo quel Mondiale, cioè in un momento in cui nessun altro era disposto a farlo. Era praticamente un esordiente, ma aveva fatto parte dello staff di Sampaoli, quindi si era trovato all’interno della nave mentre questa colava a picco. La convinzione che sembra aver guidato Scaloni fin dall’inizio della sua gestione è che l’unico modo per ricostruire una Selección competitiva fosse levare di mezzo le macerie dell’ultimo lustro, a livello emotivo prima ancora che tecnico. La sua prima mossa è stata intraprendere un ricambio generazionale deciso, senza ripensamenti, scandagliando a fondo tutto il bacino di talento a sua disposizione: la maggior parte dei giocatori della vecchia guardia è stata progressivamente lasciata fuori dalle liste, qualcuno definitivamente, qualcun altro – come Agüero e Di María – momentaneamente. La priorità era dare spazio a quella generazione di giocatori nati intorno alla metà degli anni Novanta che, fino a quel momento, aveva avuto ruoli appena marginali rispetto al gruppo storico. Prima di iniziare il Mondiale, ad esempio, Sampaoli aveva preferito Enzo Pérez a Leandro Paredes per rimpiazzare l’infortunato Lanzini; con Scaloni, il giocatore del PSG è stato fin dall’inizio titolare nel nuovo ciclo, così come Lo Celso – mai preso in considerazione in Russia – o l’imprescindibile Rodrigo De Paul. È stato un lavoro coraggioso, ma soprattutto continuo: uno dei titolari della Selección è il nuovo acquisto della Fiorentina Nico Gonzalez, che Scaloni ha convocato la prima volta quando ancora giocava nella seconda serie tedesca, nello Stoccarda. Da settembre 2018, il momento in cui ha ricevuto l’incarico, a oggi, il ct ha utilizzato 69 giocatori diversi, facendone esordire 34. La metà meno uno.

A quello sul piano tecnico, l’ex terzino di Lazio e Deportivo La Coruña ha affiancato un lavoro costante nel cercare di disinnescare la pressione intorno al suo gruppo. Il primo obiettivo, in questo senso, era ridimensionare le aspettative intorno alla Selección: «Io alleno questa squadra come se fosse una piccola», ha detto di recente a Marca. «Noi argentini ci stiamo accorgendo, col tempo. che a vincere è solo uno. E ultimamente non siamo noi. Per tornare a farlo abitualmente ci mancano molte cose». E ancora: «Credo che il nostro Paese sia in grado di capire che competeremo, ma che non saremo obbligati a vincere. Abbiamo ricevuto tante delusioni per aver creduto di essere i migliori senza esserlo davvero. Non possiamo vendere fumo e dire che vinceremo».

Dal punto di vista tattico, Lionel Scaloni non sembra essere stato influenzato radicalmente da Jorge Sampaoli. Certo, essersi formato nel gruppo di lavoro dell’Hombrecito gli ha messo a disposizione molti degli strumenti con cui, da esordiente, è riuscito a trasformare la nazionale-tritacarne per eccellenza in un contesto meno schizofrenico, ma tutto ciò non gli ha cucito addosso un’identità troppo definita a priori, come spesso accade a chi sta al fianco di un tecnico dalle idee così forti. In questi tre anni l’Argentina è sembrata una squadra in continua evoluzione, sia perché Scaloni la concepisce come un corpo fluido e la ritocca di continuo, le dà forma in base alle risposte che riceve mese dopo mese, sia perché lui stesso si sta costruendo come allenatore attraverso questo percorso. In una delle sue ultime interviste prima della Copa América 2019, ha affermato di voler costruire una squadra diretta e verticale, poi con il passare del tempo ha optato per una maggiore ricerca del dominio attraverso il possesso palla, assecondando le caratteristiche del suo centrocampo: «Abbiamo pensato fosse meglio adattarci ai nostri giocatori, che sono più adatti a fare una buona circolazione», ha detto a La Nación. «Quando abbiamo iniziato preferivamo giocare con gli esterni più aperti, cercando giocate rapide. Poi abbiamo deciso di cambiare direzione. Alla fine, ti arricchisci come allenatore, perché non ti chiudi e ne beneficia la squadra».

Le ultime partite prima della pandemia e quelle appena precedenti alla Copa América 2021 hanno dimostrato come e quanto, intorno a quel cambiamento di rotta, l’Argentina di Scaloni abbia trovato la sua nuova identità. Al netto di alcuni limiti, come la tendenza a perdere incisività nei secondi tempi ed esporsi a periodi di resistenza vicino alla propria porta che spesso mettono in difficoltà i difensori centrali, più adatti a difendere in avanti piuttosto che in area di rigore, questa nuova dimensione ha permesso alla Selección di giocare una gran Copa América. La vittoria finale – che mancava dal 1993 – è arrivata nel momento degli ultimi sette anni in cui forse era meno prevedibile e preventivabile, contro un Brasile molto più strutturato, per completezza, peso tecnico complessivo e identità; un momento in cui l’Argentina sembra ancora a metà del proprio percorso, essendosi lasciata alle spalle una lunga e travagliata ricerca, passata attraverso momenti preoccupanti – come la terribile fase a gironi della Copa América 2019 – ma che sembra avere ancora molti margini di miglioramento – e alcune lacune da colmare. È una vittoria che Scaloni dovrà gestire a livello innanzitutto emotivo, per non ricadere in un vortice di aspettative troppo facili da disattendere, soprattutto a poco più di un anno dal Mondiale in Qatar, e che dialoga in maniera diretta con la stagione degli psicodrammi e delle finali perse. Anche perché il centro di gravità di questa Nazionale, ovviamente, è ancora lo stesso: Leo Messi.

In questo senso, ci sono stati un paio di momenti che hanno spiegato bene cosa significasse, per Messi, vincere questa Copa América. Due frammenti delle partite contro Uruguay e Brasile, praticamente identici, in cui il dieci dell’Argentina si è ritrovato a condurre palla in una situazione vantaggiosa, con la difesa non ancora posizionata al meglio e i compagni ben aperti a dare buone opzioni di passaggio. In certi momenti Messi non può mentire, non può fingere di essere soggetto allo stesso margine di errore e agli stessi ostacoli di un giocatore normale: da lì Leo non sbaglia mai, perché è proprio il tipo di situazione in cui la sua sensibilità tecnica senza eguali e la sua intelligenza quasi artificiale traducono in giocate quello che tutti, un secondo prima, hanno nella mente come soluzione migliore possibile. In entrambi i casi, Messi ha deciso di non passarla all’uomo meglio posizionato per provare a guadagnarsi da solo il tiro decisivo, il gol della partita. Negli anni delle finali perse, il rosarino si è sempre tutelato da un ambiente mediaticamente insopportabile con un mutismo quasi assoluto. Di fronte alla sconfitta, non ha mai avuto reazioni da caudillo: il suo modo di essere non è compatibile con lo stereotipo di capitano che una parte di tifo avrebbe voluto veder rispettato, e che gli è costato a lungo l’etichetta di Pecho Frio da parte della tifoseria. Semmai si è allontanato, come dopo la seconda finale persa con il Cile.  Con Scaloni, invece,Leo ha ritrovato progressivamente una centralità tecnica che non deriva dalla mera dipendenza della squadra dal suo piede sinistro, oltre che una generazione di giovani giocatori in cui si trova più a proprio agio a esporsi anche mediaticamente come leader. E questo ha allentato un po’ la pressione intorno a lui, pur non cambiandolo in maniera profonda.

Una buona Coppa America

Dal punto di vista tecnico, Messi ha brutalizzato la Copa América 2021 – ha segnato quattro gol e servito cinque assist, e in più ha messo insieme 5,5 dribbling riusciti per match – con l’interpretazione migliore della sua carriera albiceleste, e ciò gli ha permesso di superare indenne anche gli attimi di sbandamento emotivo. A fare la differenza rispetto a tutte le altre volte, però, è stata la giocata decisiva in finale di un altro giocatore dalla storia controversa, almeno in Nazionale: Ángel Di María. Il pallonetto sul lancio perfetto di De Paul ha di fatto deciso il torneo, risarcendolo – forse in misura minima, ma comunque inestimabile – delle sofferenze che ha dovuto vivere in questi sette anni. «Ho deciso di cominciare ad andare in terapia per tutte le critiche che ho ricevuto; quando giocavo nella Selección sentivo di non essere lo stesso che nei club», ha confessato tempo fa a La Nación. «Quando ho giocato ho sempre reso, ho fatto grandi partite, ma gli infortuni mi hanno fatto perdere delle finali e questo ha influito sull’idea che si sono fatte la gente e la stampa, ha influito su di me, sui miei compagni».

Nel 2014 si è infortunato ai quarti di finale contro il Belgio, saltando la finale mondiale del Maracaná, e l’anno seguente è dovuto uscire nel primo tempo di quella di Copa contro il Cile: in entrambi i casi, ha dovuto interrompere un torneo in cui stava facendo la differenza. Negli ultimi due anni ha dovuto lottare per il posto, dopo una Copa América negativa nel 2019 e un ritorno nelle liste soltanto poche settimane prima del torneo di quest’anno. Quando al 22′ della finale Di María ha battuto Éderson, Javier Mascherano ha twittato immediatamente “ANGEL DE MI VIDAAAA”, come ad aggiungersi a un’esultanza che non chiama in causa solo la Selección di De Paul, Romero e Lautaro, ma anche quella di Higuaín, Banega e Lavezzi, quella a cui sia lui che il Fideo appartenevano, e di cui condividono troppi ricordi dolorosi per non viverla come una vittoria comune. «Molta gente diceva che non saremmo tornati, io ho continuato a sbattere la testa sul muro e finalmente si è rotto», ha detto Di María dopo la vittoria, ricordando il suo incubo, la finale del Maracaná di sette anni prima. «Dovevamo vincerla qua e l’abbiamo vinta».