ì

Il calcio italiano, tatticamente, ha ancora paura di rischiare

Intervista a Emiliano Battazzi, autore di Calcio Liquido – l'evoluzione tattica della Serie A.

Il libro di tattica calcistica più celebre e influente di sempre è senza dubbio La Piramide Rovesciata di Jonathan Wilson – edito nel 2008 da Orion, e da Libreria dello Sport in Italia – e si apre con un passo tratto dalle Georgiche di Virgilio: «Felix qui potet rerum cognoscere causas», letteralmente Fortunato colui che ha potuto comprendere le cause delle cose. È un’evidente ammissione di debolezza da parte dell’autore, esattamente come lo è l’intera opera: il calcio è una materia così vasta, dal punto di vista tecnico ma anche storico e geografico, che è impossibile ricostruire davvero tutte le fasi della sua evoluzione tattica. Basta fare due esempi semplici: è difficilissimo descrivere il gioco di posizione di Guardiola senza citare e anche spiegare le idee visionarie di Sacchi e Cruijff, così come sarebbe ingiusto parlare del calcio ritenuto all’italiana di Allegri senza fare le dovute differenziazioni – tecniche, antropometriche, persino sociali – con il calcio all’italiana quello vero. E così via, in questo modo si potrebbe andare a ritroso fino agli Anni Sessanta, Trenta o Venti, praticamente agli albori di questo sport. Di conseguenza, è davvero fortunato colui riesce a capire e ricostruire ciò che succede in campo, anche solo in parte.

Questa è una situazione che, in qualche modo, riguarda tutti i libri e i saggi e gli articoli e che parlano di tattica calcistica. Pure Emiliano Battazzi, autore di Calcio Liquido: l’evoluzione tattica della Serie A (edito da 66thand2nd), ha dovuto fare i conti con questi groviglio infinito di possibili connessioni, anche se il suo libro punta a sintetizzare e sistemizzare “solo” gli ultimi trent’anni di tattica nel calcio italiano. Proprio per questo creare un’opera del genere era una sfida stimolante, e Battazzi l’ha vinta: leggendo i vari capitoli si trovano un po’ di storie tattiche provenienti dall’estero, quelle che servono per identificare le varie influenze che hanno portato il nostro calcio nell’era contemporanea (più o meno), e poi tutta una serie di recensioni di squadre e allenatori che hanno lasciato il segno nel nostro Paese. In questo caso, il furto di un termine da un altro ambito giornalistico – la recensione, di solito, riguarda un film, un libro, uno spettacolo teatrale – non è avventato: Battazzi spiega, approfondisce e contestualizza la Juventus di Conte e poi di Allegri, il Milan di Ancelotti, il Napoli di Sarri, ma anche il Foggia di Zeman, il Vicenza di Guidolin, il Chievo di Delneri, la Fiorentina di Montella – questi sono solo alcuni esempi, ovviamente.

Tutti i vari frammenti del testo, nonostante riguardino vicende lontane tra loro, riescono a essere uniti, si susseguono percorrendo una linea retta che non è solo è temporale: c’è una sequenzialità, anzi una consequenzialità tecnica del racconto, l’autore tiene insieme la narrazione senza annoiare, rimette insieme i pezzi con letture e spunti personali. Certo, c’è qualche inevitabile punta di nerdismo tattico-statistico, ma alla fine il linguaggio utilizzato è praticabile a tutti, non solo per chi appartiene a una certa bolla, in virtù della sua freschezza, della sua comprensibilità, di un registro ormai diventato piuttosto familiare a chi vuole leggere di calcio e sport, soprattutto su internet. E che potrebbe spingere gli altri a farlo, anche oltre il muro di gomma di internet. Abbiamo parlato di questo, della missione portata avanti dal libro e nel libro, e ovviamente anche di calcio, proprio con Emiliano Battazzi.

Ⓤ: Facciamo una cosa un po’ strana, partiamo dalla fine: Calcio Liquido si conclude analizzando l’Italia campione d’Europa 2021, e auspicando che «la vittoria della Nazionale di Mancini riesca a trascinare tutto il movimento calcistico nella contemporaneità del calcio liquido, abbandonando timori ingiustificati e posizioni pregiudiziali». Hai davvero riscontrato questa differenza così ampia tra l’approccio tattico della Nazionale e quello delle squadre di Serie A?

Emiliano Battazzi (EB): Il risultato della Nazionale è frutto dell’evoluzione del campionato: non esiste l’Italia di Mancini senza Insigne, Jorginho e il Napoli di Sarri, non esiste Spinazzola che gioca così alto senza la Roma di Fonseca. Quindi è vero che Mancini ha saputo valorizzare l’evoluzione della Serie A, ma è anche vero che è partito con una sua idea fin dall’inizio. Il problema della Serie A è che la grande sofisticatezza tattica non viene accompagnata da altrettanta voglia di rischiare. Mancini ha proposto non tanto un gioco, quanto un approccio di rottura. E proprio per questo spero che possa diventare un riferimento. Poi certo, tra il calcio di club e quello delle Nazionali ci passa un mondo, però sarebbe importante che questa voglia di accettare il rischio possa contagiare anche il settore didattico, il metodo con cui facciamo calcio giovanile.

Ⓤ: Cosa intendi quando parli di “voglia di rischiare” e di “approccio di rottura” da parte di Mancini? Che relazione c’è tra questi concetti e la formazione? 

EB: Mancini si è reso conto di avere un certo materiale a disposizione, e ha lavorato in modo da poterlo esaltare in campo. Aveva e ha molti giocatori di qualità in tutti i reparti ma soprattutto a centrocampo, e allora ha messo a punto un sistema di gioco che vuole dominare l’avversario esaltando proprio la tecnica di base. Ovvero un aspetto su cui non si è lavorato molto nel calcio giovanile. Ora le cose potrebbero cambiare, perché l’Italia ha dimostrato che questo stile di gioco, in cui la tecnica è fondamentale come e forse più della tattica, può portare grandi risultati. Può portare a vincere. E allora sarebbe giusto ricominciare a lavorare anche su quello, nelle Nazionali giovanili e nei vivai dei club. In questo senso, la strada intrapresa dalla Figc è molto incoraggiante.

Ⓤ: Per quanto riguarda questo aspetto, c’è da dire che il movimento calcistico italiano ha accusato un ritardo netto rispetto a quello di altri Paesi, almeno finora. Questa mancanza si è avvertita anche dal punto di vista tattico? La Serie A ha saputo recepire gli impulsi arrivati dall’estero negli ultimi vent’anni? E quindi, di conseguenza: quanto calcio straniero c’è nel tuo libro?

EB: Rispondo partendo dalla fine: in Calcio Liquido c’è tantissimo calcio estero, forse troppo. Solo che era impossibile fare diversamente, ciò che è successo fuori dall’Italia negli ultimi vent’anni è stato troppo importante per escluderlo da un’analisi sistemica. Quello che ho notato, però, è che la ritrosia al rischio di cui abbiamo già parlato riguarda anche le influenze straniere. Insomma, in Italia abbiamo avuto paura di contaminarci, e quindi siamo rimasti indietro e siamo ancora in ritardo, quantomeno a livello di club. Questo è perché il calcio italiano è storicamente arroccato sulle sue idee, sulla convinzione di essere migliore rispetto a tutti gli altri – una convinzione che però è rimasta ferma alla Serie A degli anni Novanta.Il paradosso, se ci pensi, è che le squadre e gli allenatori che hanno provato a importare qualcosa da fuori hanno lasciato il segno: mi riferisco al Napoli di Sarri, ovviamente, ma se vado più indietro penso alla Juventus di Conte, una squadra che ha ribaltato una situazione abbastanza disastrata facendo un calcio diverso, un misto di gioco di posizione e ricerca della verticalità che poi in realtà non è stato replicato da molti. In quegli stessi anni, i tentativi di Luis Enrique, Montella e Paulo Sousa sono rimasti esperienze limitate, l’onda non è stata assorbita.  Poi, col tempo, l’idea che il gioco di posizione, per esempio, si potesse fare e si possa fare solo in Spagna e in Portogallo, è stata smentita dai fatti. Resta il fatto che qui in Italia ci sono delle peculiarità calcistiche e anche culturali che rendono difficile il lavoro di certi allenatori, soprattutto quelli che vengono dall’estero: il nostro approccio è ancora speculativo, i nostri tecnici passano intere settimane a cercare di capire come distruggere il gioco dell’avversario piuttosto che esaltare le caratteristiche dei propri giocatori.

Ⓤ: E secondo te c’è spazio per un cambiamento già a partire da ora?

EB: Non è facile dirlo, perché non è facile fare previsioni. Quest’anno le sette sorelle della Serie A hanno puntato molto sul rafforzamento delle proprie squadre dal punto di vista tattico, più che puramente tecnico. C’è un ampliamento della proposta, questo è evidente, anche perché lo stesso ritorno di Mourinho – considerato perfetto per il calcio italiano a causa del suo approccio reattivo/speculativo – andrà valutato in base ad aspetti diversi rispetto al passato. Se nelle prime partite stagionali la sua Roma ha messo in mostra il solito gioco attendista, contro la Salernitana abbiamo visto buone cose anche in fase offensiva. Resta il fatto che gli allenatori che hanno provato o stanno provando a invertire il trend fanno fatica ad approdare o a confermarsi sulle panchine più prestigiose: De Zerbi è volato in Ucraina, e faccio fatica a vederlo tornare in Italia ad allenare una big, dovrebbe scendere a compromessi come ha fatto Sarri alla Juventus. Poi secondo me c’è Vincenzo Italiano, che potrebbe dare qualche impulso nuovo, diverso: finora la sua avventura alla Fiorentina è stata promettente, ma andrà giudicata col tempo.

Ⓤ: Ecco, questo è un aspetto del libro che mi ha colpito molto: non si parla solo dei grandi tecnici delle grandi squadre, ma anche di allenatori che, partendo da una dimensione di seconda o terza fascia, hanno mostrato un calcio innovativo. Su quali criteri hai scelto le squadre e/o i tecnici da analizzare?

EB: Il requisito fondamentale è stato quello dell’eredità: mi sono concentrato su quelle esperienze che hanno lasciato qualcosa di tangibile, di significativo. Zeman e il suo Foggia sono un esempio importante: parte delle sue argomentazioni, dei suoi strumenti, dei suoi schemi, sono stati ripresi da molti allenatori. Anche tante altre squadre rientrano in questo scenario: il Vicenza di Guidolin ci stava bene, perché praticava un calcio che era una prosecuzione del sacchismo, però in quel caso l’allenatore aveva percepito la necessità di dare un’interpretazione personale della corrente. Il Chievo di Delneri era invece un’eccezione da raccontare, il suo stile sembrava già accantonato all’inizio degli anni Duemila e invece era ancora efficace: i sistemi si evolvono, certo, ma alla fine si rincorrono circolarmente nel corso del tempo.

Ⓤ: Passato, presente, contesto italiano ed estero. Non è stato facile incrociare tutto questo, anche dal punto di vista della scrittura. E poi in Calcio Liquido si parla di tattica, un argomento che tutti pensiamo di conoscere e che invece appartiene davvero a pochi. Quali strumenti hai utilizzato per poter rendere interessante, e anche piacevole, un’opera così complessa, dal punto di vista contenutistico ma anche linguistico?

EB: Con il mio editor, Alessandro Gazoia, siamo partiti dall’idea che il libro dovesse essere super-accessibile per tutti, e non solo per un certo pubblico di riferimento (Battazzi è uno dei contributor più assidui del sito L’Ultimo Uomo, ndr). Quindi ho inevitabilmente cercato di restituire una certa complessità, ma ho anche dovuto alleggerire molto. Levigare il linguaggio è stato effettivamente un grande problema nella stesura di questo libro, ma anche una sfida molto stimolante: in Italia, il racconto tattico non è mai stato fatto davvero, o al massimo si utilizzava il covercianese, una lingua che appartiene solo a chi ha studiato sui libri di testo per allenatori veri. In altri Paesi, invece, le cose vanno diversamente: l’evoluzione del gioco viene raccontata, e viene pure raccontata bene. Evidentemente c’è poco coraggio anche da parte dei media, che non riescono o non vogliono cogliere la necessità di cambiare, di riconoscere che l’articolo classico sulla partita non ha più molto senso, perché oggi i lettori del giorno dopo vogliono che tu gli spieghi quello che è successo, dopotutto l’evento l’hanno già seguito in tv. Poi certo, la lettura tattica di una partita è e resta una cosa soggettiva, però intanto proporre queste analisi vuol dire invitare a leggere di cose – idee, proposte, principi di gioco – che normalmente non arrivano sui giornali o in televisione. Io nel mio piccolo vorrei che arrivassero, e ho scritto Calcio Liquido con questo obiettivo in testa.