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Paolo Maldini

La sua carriera da dirigente ha sorpreso tutti per competenza e fermezza decisionale. Forse perché nessuno tiene alla squadra rossonera come lui.

Quando Paolo Maldini spiegò le ragioni del suo ritorno al Milan, usò le parole che si usano per spiegare il dovere: «La mia storia mi impone di essere qua e se c’è una scelta nel calcio per me è Milan o Nazionale». Maldini – suo malgrado, sua fortuna – è parte di una dinastia e le dinastie valgono esclusivamente nei loro seggi ancestrali. È la ragione, questa, che fa sì che il primo gol in Serie A di suo figlio Daniel sia un rigo nel libro di storia del nostro calcio: tre generazioni nate e cresciute nello stesso posto sono una cosa rara. Nel calcio, poi, rarissima.

«Farò il dirigente solo al Milan, non lo farò da nessun’altra parte», confessò Maldini all’ex-compagno e sempre amico Filippo Inzaghi, nell’intimità di una diretta Instagram. Nel 2009 Ancelotti lo voleva nello staff tecnico del Chelsea, la risposta di Maldini fu no, ma grazie. L’allenatore non sarà mai il mio mestiere, questo l’ex-capitano rossonero lo ha chiarito subito e ripetuto sempre: «Sapevo bene che non volevo farlo. Ho visto la vita che faceva mio padre, i capelli di tanti compagni che sono cambiati». E in effetti tutti dicono che Maldini è invecchiato proprio bene, al contrario di tanti colleghi e coetanei: il tennis e la boxe hanno preservato il fisico, aiutandolo a convivere con un dolore alle ginocchia che ormai sa non lo lascerà più («non posso correre dieci minuti di fila, invidio gli ex-compagni che giocano ancora a calcio»). Allenare, poi, è sempre partire e partire è un po’ morire, figuriamoci per uno che ha conquistato il mondo ma che non ha mai lasciato casa. Maldini ama Milano come si amano gli angoli prediletti della casa, quelli sistemati proprio come piace a noi e che quindi diventano proprio come noi: «Milano è schiva, schietta, mi riconosco».

Schivo è schivo, Maldini. Nei dieci anni passati dal giorno del ritiro a quello del ritorno è andato a letto presto: il caffè con gli amici, le vacanze romane con la famiglia, il tempo con i figli, the new normal per uno che ordinario non è stato mai. «L’anonimato è sempre stata la mia ambizione […] Per me questa tranquillità ha sempre rappresentato uno status a cui ambire», disse a maggio del 2019 a Rolling Stone. Sembrava non stesse facendo niente e non volesse fare niente, perché l’epoca è quella in cui «se non comunichi una cosa, sembra che non l’hai mai fatta». Aveva bisogno di una pausa e di vivere la vita vera, quella in cui tocca imparare a gestirsi invece che accettare di essere gestiti. Però Maldini è pure schietto, ha sempre detto la verità sulla sua condizione: non è uno di quelli che vivono per il calcio e non è nemmeno uno di quelli che devono lavorare per vivere, ma il Milan non è calcio e non è lavoro, non proprio e non soltanto. «Tutte le lettere della parola “Milan” sono comprese nella parola “Maldini”. Magari non è un caso, io ci vedo un grande significato», disse in occasione della festa per 120 anni del club. Chiamami col tuo nome, una di quelle cose buffe e sceme che si dicono gli amanti soprattutto quando c’è bisogno di ritrovarsi e riappacificarsi.

Il Milan e Maldini ci hanno messo anni prima di ritrovarsi e riappacificarsi. C’entra quella schiettezza di cui sopra, l’onestà radicale che ha fatto di Maldini un altro tipo di antipatico: composto ma brutale, sereno eppure spietato, educato però altezzoso. Avrebbe potuto lavorare sia per Barbara Berlusconi che per Yonghong Li, non se ne fece nulla sia in un caso che nell’altro. Le ragioni Maldini non le ha mai nascoste, con le spiegazioni non ha mai lesinato: quando c’erano ancora i Berlusconi c’era anche Galliani, che si sentiva «onnipotente» e che gli spiegò che il ruolo di direttore sportivo era roba vecchia, obsoleta, superata; quando arrivò Yonghong Li, Maldini non riuscì nemmeno a parlarci e comunque capì tutto quello che c’era da capire: «La mia storia mi obbliga a non prendere impegni a breve termine», dirà poi (mi obbliga, ancora una volta le parole sono quelle che si usano per spiegare il dovere). Alla fine è successo con il fondo Elliott e con Ivan Gazidis, ma non era mica scontato. In parte c’entra il medio-lungo periodo, l’unico orizzonte temporale che Maldini vede quando si tratta di sé e del Milan: «La mia storia con il Milan è talmente lunga che ormai è difficile finisca». In parte c’entrano altre garanzie, ulteriori certezze: Maldini sa, ora che è un dirigente, di dover stare seduto dietro una scrivania ma ci tiene a far sapere che, anche ora che è un dirigente, vuole stare il più vicino possibile al campo. Checché se ne dica, non vuol fare l’uomo immagine, non gli interessa essere lo strumento di un’operazione di pubbliche relazioni.

Ovviamente di lui si è detto soprattutto questo, finora: è il cosmetico che il Milan ha deciso di usare per mascherare i segni della chirurgia eseguita da altri, il buon viso da mostrare davanti al cattivo gioco. D’altronde, quale altro ruolo si poteva nascondere dietro l’astruso titolo (Direttore Strategico dell’Area Sport) con cui è stato riammesso nel regno rossonero? La ristrutturazione di una società calcistica è sangue e merda, una prova del fuoco difficile da superare per i veterani e figuriamoci per gli apprendisti. Nel libro-intervista di Diego Guido Paolo Maldini 1041, Maldini dà ancora una volta prova di schiettezza: ammette che Boban è «molto più bravo di me […] ad analizzare una partita e un giocatore», che nei primi sei mesi della sua vita da dirigente si sentiva «inadeguato» a lavorare accanto a Leonardo. Poi Boban è andato via, Leonardo pure, e Maldini è rimasto solo con una domanda dentro la testa: «E adesso che cazzo succede?». A un certo punto sembrava dovesse succedere Rangnick, che però usò una formula che la scienza ha ormai dimostrato che porta sfiga: chiese “pieni poteri gestionali” e ricevette da Maldini un cazziatone che scaraventò l’übermanager tedesco fino in Russia (ora è il Capo dello Sport e dello Sviluppo del Lokomotiv Mosca). «Avrei dunque un consiglio per lui, prima di imparare l’italiano dovrebbe dare una ripassata ai concetti generali del rispetto», fu la frase con cui Maldini marcò il territorio. A quel punto la sua seconda esperienza al Milan era di fatto finita, in quel momento di fatto è cominciata: Maldini è diventato il Direttore Tecnico del Milan, ecco che cazzo è successo.

Paolo Maldini ha esordito nel Milan nel 1985, e ha concluso la sua carriera nel 2009, senza mai lasciare la squadra rossonera. In totale, ha disputato 902 gare con il Milan, vincendo 26 trofei (Filippo Monteforte/AFP via Getty Images)

«Se penso alle mie idee di quando sono arrivato, idee sportive intendo, e a quelle che ho adesso, è cambiato il mondo. Ho visioni completamente diverse. Le ho cambiate anche grazie ai conflitti interni con la proprietà, ai confronti con idee diverse dalle mie, con persone diverse da me. […] Adesso la mia visione è diversa, ma probabilmente se me lo chiederai tra due anni sarà ancora diversa». In un’intervista concessa a So Foot nel marzo scorso, Maldini si è preoccupato di chiarire un equivoco che si ripresenta ogni volta: non ha mai pensato che un posto nel Milan gli spettasse di diritto, come eredità, per riconoscenza. Quando la Gazzetta dello Sport riassunse quella a suo modo storica intervista in un sommario che diceva: «Hanno distrutto il mio Milan», tutti videro il possesso e nessuno la preoccupazione. Quando ha accettato di fare il dirigente non era nemmeno sicuro che sarebbe stato un bravo dirigente, era lui a dire quello che tutti pensavano: calciatore e manager sono mestieri diversi. «Sto imparando il mio nuovo ruolo», dice di sé, con il sorriso smorfioso di un destro naturale così bravo a imparare da diventare il terzino sinistro più forte della sua generazione. Tanto, alla fine, quello che gli interessa adesso è la stessa cosa che gli interessava quando giocava: toccare tutti i palloni che il ruolo gli consente, cioè prendere tutte le decisioni che gli spettano.

Maldini però lo sa che c’è chi pensa che il suo sia un ruolo di mera rappresentanza e privo di potere esecutivo. Dalla versione di sé che faceva il calciatore ha ereditato una certa indifferenza alla chiacchiera, al pettegolezzo. In quella famosa intervista alla Gazzetta, Fabiana Della Valle gli chiese se, nel mezzo di una contestazione, sarebbe andato dagli ultras a spiegare le sue ragioni: «Ho sempre odiato queste cose, non ho mai accettato che dei ragazzi più giovani di me mi dicessero di impegnarmi di più quando io ero quello con più presenze. Se non sei soddisfatto mi fischi, ma finisce lì». Oggi che non è più quello con più presenze, la posizione è cambiata ma l’opinione è rimasta la stessa: «Sarò giudicato per quello che produrrò».

Ovviamente, uno schietto non ha motivo di negare il suo stesso talento: «Ho capito cosa dire e cosa non dire. Come cambiare registro sulla base dell’interlocutore, quelli con cui serve parlare chiaro e quelli con cui devi usare più diplomazia. Se sei sempre stato in questo mondo e usi buonsenso sono cose che poi vengono molto facili. Ed è bello farle». È bello quando è ovvio che sia così: quando si tratta di andare a Ibiza a convincere Theo Hernández a venire a giocare nel Milan, quando è il momento di chiamare Moussa Sissoko per dirgli che Bennacer in rossonero si fa subito o non si fa più, quando Ibrahimovic decide di riportare i suoi talenti a Milanello. È bello anche quando è spiacevole: quando c’è da “affrontare” la squadra dopo una sconfitta 5-0 contro l’Atalanta, quando l’unica cosa che resta da dire a Gianluigi Donnarumma (che dopo quella sconfitta a Bergamo scoppiò a piangere) è «gli auguro il meglio», quando c’è da parlare del passaggio di Calhanoglu all’Inter e alla fine il meglio che viene fuori è un no che sta per no comment. È bello nei momenti di politica economica espansiva ed è bello nel momento in cui l’austerity impone i tagli: «Come sempre le cose importanti sono il rispetto e l’onestà. Quando tu sei onesto che cosa ti possono rimproverare? Che non hai acquistato Messi?».

È bello soprattutto perché questa carriera che è appena cominciata alla fine è identica a quella che è già finita. In fondo, si tratta di dare una risposta alla stessa domanda, quella che, poco più che adolescente, Paolo Maldini continuava a porsi mentre il pullman rossonero lo portava verso l’esordio in Serie A: «Ma io qui ci posso stare?»