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Forse Insigne non voleva essere un mito

Non un simbolo ma un professionista come tanti. Uno che non può rifiutare un'offerta come quella che ha infatti accettato, pochi giorni fa, dal Canada.

Chissà se Lorenzo Insigne ha avuto il tempo e la voglia di guardare È stata la mano di Dio, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, su Netflix. Immagino di no: il film è arrivato sulla piattaforma streaming lo scorso 15 dicembre e Insigne in quei giorni era probabilmente impegnato a «non disunirsi», preso in mezzo tra le feste in famiglia e le scelte di vita. Adesso le scelte sono fatte, la famiglia resta e la vita prosegue: l’1 luglio Insigne se ne andrà a Toronto, al Toronto. O meglio: l’1 luglio Insigne lascerà Napoli, il Napoli. Le ragioni della scelta sono di quelle ovvie e giuste, e ovviamente sono giorni che se ne parla nella maniera più astrusa e ingiusta: cinque anni di contratto, dieci milioni e mezzo di euro netti a stagione, la possibilità di guadagnarne quindici grazie ai bonus. Cifre che hanno riaperto il solito dibattito attorno alla doppiezza del calcio: mestiere per loro e passione per noi, quindi sempre stronzi loro e poveri noi.

D’altronde, rifiutare i soldi offerti agli altri è la via più breve e sicura per la nobiltà d’animo: nessuno di noi dovrà mai sottoporre le sue certezze alla prova di settantacinque milioni di euro garantiti entro i prossimi cinque anni. Però c’è anche da dire che di questa discussione sul professionismo che ha insozzato l’ethos che i Padri Fondatori avevano deciso per la Nazione del Calcio ci siamo stancati ormai tutti quanti, nessuno ha davvero la sfacciataggine, l’ingenuità, la stupidità, il coraggio, la voglia di fare questo discorso con queste parole in questo momento. Ma la tentazione, l’abitudine, la necessità, la cattiveria del giudizio, di tutto questo non riusciamo a farne a meno: la via più breve e sicura per la nobiltà d’animo, appunto. Quindi il discorso lo vogliamo e lo possiamo fare, ma stiamo cercando strumenti e argomenti nuovi con il quale svolgerlo. Siamo ancora in un momento di elaborazione e costruzione, e probabilmente a questo fatto si deve l’atmosfera surreale che permea la discussione attorno alla scelta di Insigne di andarsene da Napoli e partire per Toronto. «A Toronto? Ma che ci vai a fare a Toronto? Guarda che fa freddo a Toronto», per il momento è questa la qualità degli argomenti mostrati da chi, se l’offerta fosse stata fatta a loro, avrebbero detto certamente, convintamente, immediatamente no.

C’è una fatica che in questi momenti, in queste circostanze, toccherebbe a chi sta dalla parte di Insigne. Una parte che poi non è nemmeno quella di Insigne, in realtà: è la parte che è da sempre e per sempre di tutti quelli che nella vita sono bravi e fortunati abbastanza da avere un’opportunità. «Io credo che in un mondo ideale l’unica vera motivazione di un calciatore dovrebbe essere la passione. Ma se il tuo obiettivo è quello di ottenere un riscatto sociale e denaro da dare alla tua famiglia, che ha stretto la cinghia per te negli anni della tua infanzia, beh, anche quelle sono motivazioni. Da capire e rispettare. Per raggiungere certi risultati e una certa statura come giocatore, le motivazioni sportive sono fondamentali. Può succedere che le necessità di un giocatore non si combinino con quelle di una società. C’è chi riesce ad aspettare e chi invece ha fretta. Non sta a me giudicare certe scelte», ha detto recentemente Paolo Maldini in un’intervista a Sette. Parlava di Donnarumma ma parlava anche di Insigne e parlava anche del prossimo che prenderà la decisione ovvia. Il riscatto sociale: quanti scudetti ci vogliono per pagare il riscatto sociale di una generazione della propria famiglia? Quante Champions servono per riscattarne due? Quanti Palloni d’Oro bastano a garantire che la generazione successiva del riscatto sociale non abbia mai di che preoccuparsi? Dei giocatori come Insigne ci piace ricordare le origini locali e proletarie, almeno finché quelle origini non intralciano la sospensione dell’incredulità necessaria a goderci ogni fine settimana di pallone: i calciatori esistono solo dentro il rettangolo di gioco, solo per novanta minuti, solo finché rotola il pallone, non fuori, non oltre, non senza. Ma l’intrattenimento domenicale del tifoso è il riscatto sociale del calciatore, per uno il pallone è un fine e per l’altro è un mezzo. Quindi viva Insigne, che ha riscattato se stesso e chi è venuto prima di lui, che ha protetto chi c’è adesso e chi verrà dopo di lui.

Chissà se Lorenzo Insigne avrà la voglia e il tempo di guardare È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino nelle prossime settimane, nei prossimi mesi. Immagino non avrà né l’una né l’altro (ha pur sempre uno scudetto da provare a vincere e un trasloco da organizzare e, chissà, magari un Mondiale da preparare), però penso gli farebbe bene e gli piacerebbe molto: il film parla di un ragazzo che lascia Napoli perché è la cosa giusta, ovvia da fare. Gli farebbe bene anche perché lo distrarrebbe dal Truman Show in cui una città è capace di trasformare la vita di un giocatore: non tifosi ma pubblico, non vita ma reality, non commento ma ossessione. C’è una leggenda metropolitana secondo la quale Francesco Totti, in qualsiasi punto di Roma si trovasse, in qualsiasi momento, in qualsiasi circostanza, poteva buttare le chiavi della macchina in mezzo alla strada, chiedere a nessuno in particolare di spostargli il mezzo e ci sarebbe stato sempre qualcuno pronto a fargli il favore.

In tanti vedono in storie come questa i segni del potere temporale dei re, un potere che si sprigiona sempre tra quel che succede e quello che ci si immagina succeda, tra realtà e fantasia. Io ci trovo inquietudine: c’era sempre uno – o più di uno – che inseguiva o aspettava Totti nella speranza di potergli spostare la macchina. Certo, Napoli non è Roma e Totti non è Insigne e oggi non è ieri e i paragoni tra diversità sono sempre sbagliati, ma resta il fatto che il legame tra certi calciatori e certi tifosi è tenuto assieme con una pasta collosa che mescola affetto e invadenza. Un rapporto che sì, sa essere ricco delle gioie delle feste in famiglia ma della famiglia esercita anche l’oppressione.

Insigne è uno di quelli che sbagliano in ogni caso: se decide di rimanere, è la dimostrazione che hanno ragione i detrattori quando dicono che non può sopravvivere senza succhiare dalla tetta napoletana; se decide di andar via, è la dimostrazione che hanno ragione i detrattori quando dicono che ha avuto più di quello che ha dato, ha sempre preso i baci, gli abbracci e i sorrisi e ha restituito quei suoi occhi sempre un poco tristi, quell’espressione sempre un tantino accigliata, quelle pose sempre troppo irrequiete di uno che ha fretta di andare. Si può capire, a un certo punto della vita e della carriera, il desiderio di essere (finalmente e di nuovo) come tutti, solo con settantacinque milioni di euro in più degli altri dentro il conto in banca: sai che passeggiate tranquille, per le strade di Toronto.