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Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova proprietà del Milan?

Il progetto di RedBird è semplice ma ambizioso: il modello sostenibile che ha portato lo scudetto dovrà consentire al Milan di essere competitivo anche in Europa.

Le voci sul calciomercato del Milan seguono la stessa storyline del passato, e allora Renato Sanches, Divock Origi, Sven Botman e Charles De Ketelaere sarebbero vicini ai rossoneri. Il modello non cambia, anzi sembra destinato a ripetersi, come se nelle ultime settimane non fosse successo niente di particolare: si seguono profili giovani, di valore e da valorizzare allo stesso tempo, come se lo scudetto appena vinto non fosse un risultato storico, come se il club non fosse nel pieno di un passaggio di proprietà. Insomma, se non fosse per i titoli dei giornali, sarebbe perfino difficile capire che in casa Milan è in atto un’operazione così grande. Sul piano sportivo e manageriale il club rossonero non ha bisogno né intenzione di cambiare, seguirà ancora la strada già tracciata e le indicazioni di Maldini e Massara, con la filosofia che ha fatto la fortuna del ciclo attuale. E ha portato il titolo nazionale. I nuovi vertici del club hanno già capito che la strada migliore è conservare il buono del presente mentre si costruisce il futuro, come si intuisce dalle parole di Gerry Cardinale, il nuovo proprietario: a Sky Sport Italia, ha parlato di responsabilità e motivazioni, del fatto che vede il suo ruolo come quello di un custode, come quello di colui che prende un progetto in corsa e in salute. Un progetto che però avrà bisogno di rinnovarsi e trovare nuove forze per andare ancora oltre, per poter essere all’altezza della storia del Milan.

L’obiettivo di RedBird Capital Partners, il fondo di investimento che sta acquistando il club, è stare nel solco della sostenibilità tracciata dal gruppo Elliott mentre trasforma il Milan in una media company moderna, digitale, globale. Una rivoluzione nel segno della continuità, se può esistere l’ossimoro. Lo si capisce anche dai termini dell’accordo: nel nuovo CdA dovrebbero rimanere tre nomi di Elliott, cioè Gordon Singer, Stefano Cocirio e Giorgio Furlani. Sembrerebbe una sinergia tra due compagnie, invece c’è una proprietà uscente e una entrante. Nell’accordo firmato da RedBird non si muovono ancora gli 1,3 miliardi di cui si parla: c’è un investimento da 300 milioni con un tasso d’interesse del 7% circa. La particolarità è nella formula del “vendor loan”: è il venditore (Elliott) a concedere al compratore (RedBird) un prestito per pagare parte dell’acquisto. Nella sostanza è una forma di dilazione di pagamento concesso da Elliott su una parte della cifra pattuita per l’acquisto del club. È previsto anche un premio per il fondo Elliott nel caso in cui RedBird dovesse rivendere il Milan a un prezzo più elevato di quello speso per acquistarlo. Per la nuova proprietà, invece, il vantaggio è nel tasso d’interesse al 7%, cioè una quota molto bassa rispetto a qualsiasi altra opzione sul mercato. Tutto questo è stato quindi possibile grazie all’incontro tra due condizioni fondamentali: la fiducia del venditore nelle capacità dell’acquirente e la convinzione di entrambe le parti che il valore della società possa crescere rapidamente.

Rendere grandi gli investimenti è il lavoro di Gerry Cardinale, ex banchiere di Goldman Sachs con origini italiane, cresciuto a Philadelphia, laureato a Harvard con borsa di studio post universitaria per un master a Oxford – lo stesso percorso formativo di Bill Clinton, ex presidente americano e volto iconico degli anni Novanta. Nel 2014, Cardinale ha lanciato RedBird, con cui oggi gestisce oltre sei miliardi di dollari di capitale principalmente nei settori di tecnologia, media, telecomunicazioni e sport, una società legata a due brand storici dello sportbusiness come i Boston Red Sox e il Liverpool, oltre ai Pittsburgh Penguins (NHL) e alla recente acquisizione del Tolosa.

La strategia di RedBird è meticolosa, studiata con grande attenzione. E prevede grossi ritorni. Ma non può essere priva di rischi. Per moltiplicare il valore del club si dovranno raggiungere obiettivi non scontati, sintetizzati molto bene da Francesco Paolo Firrao su Econopoly del Sole24Ore. Il Milan dovrà sistematizzare l’accesso alla Champions League (possibile e probabile, non certo); dovrà superare quasi altrettanto sistematicamente i gironi di Champions come fanno le squadre di fascia superiore, cioè del livello a cui ambisce il club (possibile, non facile); concretizzare il progetto stadio, ormai condizione necessaria per dare una dimensione europea o globale alla società e garantire la solidità patrimoniale di cui c’è bisogno (difficile, ma già nei piani).

Vista da altre angolazioni quest’operazione è già un successo. Sicuramente lo è per Elliott, che a luglio 2018 prendeva il Milan dalle mani di Li Yonghong e oggi, quattro anni dopo, lo rivende con un bilancio risanato grazie a un modello di calcio sostenibile basato su giovani e contenimento dei costi, con il quarto monte ingaggi del campionato. Ne esce con una plusvalenza potenziale di mezzo miliardo, moltissimo per un club con un fatturato di 300 milioni. E poi c’è uno storico scudetto in bacheca, che è il successo della parte sportiva, del club e dei tifosi. Elliott lascia sul più bello, che però è anche l’inizio della parte più difficile. Per il nuovo salto di qualità occorrerà trasformare il Milan in un top club moderno, che vuol dire aumentare almeno del 15-20% il valore della società, creare una squadra in grado di rinnovarsi negli anni mentre continua a crescere. Perché una grande squadra non è quella che fa la festa più rumorosa in piazza a fine stagione, piuttosto quella che rende meno episodico o raro quell’appuntamento.

Il Milan ha vinto lo scudetto con una rosa dall’età media di 25.8 anni, la più bassa di sempre nella storia della Serie A da quando la vittoria vale tre punti, cioè dal 1994. Il primato precedente aparteneva alla Juventus 1994/95 e 1997/98, che conquistò il titolo con 26 anni di media (Tiziana Fabi/AFP via Getty Images)

Tra i significati di questo passaggio di proprietà ce n’è uno che va oltre il Milan e l’operazione Elliott-RedBird. A febbraio dell’anno scorso Undici raccontava di come la Seria A sia diventata una destinazione privilegiata per gli investitori americani, attratti da cifre di spesa più convenienti rispetto a quelle della Premier League e da prospettive di crescita più ambiziose rispetto alla Liga e alla Ligue 1. E con il Milan il discorso si allarga a squadre di fascia più alta. In più, almeno fino a ora, gli investitori stranieri hanno sempre acquistato una squadra con il semplice obiettivo di portarla in alto, più in alto rispetto al punto in cui era fino al momento del loro arrivo. Lo hanno fatto Robert Platek a La Spezia, Robert Lewis e John Aiello a Cesena, il fondo 777 Capital Partners con il Genoa, sempre secondo il vecchio principio buy low-sell high. Gerry Cardinale sicuramente segue lo stesso principio, ma ha una visione dello sport – quindi del progetto rossonero – più ampia, più simile a quella delle grandi franchigie americane: il calcio come business globale, nella sua accezione moderna, una società ramificata in molti settori, in funzione 365 giorni l’anno in ogni angolo del pianeta, come Elliott aveva iniziato a progettarla con gli Studios – di nuovo, rivoluzione nella continuità.

Il Milan nel portafoglio RedBird riapre anche il dossier delle multiproprietà nel calcio, in un’epoca in cui molti club sono controllati da pochi soggetti. Già ad aprile la società rossonera era finita in discorsi simili per vie traverse, perché l’Uefa stava – e sta – investigando sulla struttura del fondo proprietario del Lille, Merlyn Partners, di cui Elliott è uno dei principali creditori e avrebbe quindi un indiretto potere decisionale. Oggi si parla di nuovo di multiproprietà in relazione al Milan per due motivi. Uno sbagliato: RedBird ha acquisito una partecipazione nel Fenway Sports Group, che è proprietario del Liverpool, e allora viene facile fare il collegamento; solo che RedBird non ha diritti di governance sui Reds, quindi non ha voce in capitolo su come viene gestito il club. Il secondo motivo è più concreto: il Tolosa – che è appena tornato in Ligue 1 dopo due anni – è controllato da RedBird dal 2020, e questo è effettivamente un caso in cui un singolo soggetto controlla più di un club. La Uefa dice che in Europa ci sono oltre 60 società di prima divisione i cui soci di maggioranza o minoranza sono anche in altri club: Genoa, Spezia, Bologna, Fiorentina, Hellas Verona, Udinese e Napoli sono tra queste, il Milan pure, e anche la Juventus appartiene per l’11,3% al fondo Lindsell Train che a sua volta ha il 20,55% del Manchester United.

Le multiproprietà sono già una realtà del calcio, non sono un fenomeno nuovo o in arrivo, semmai un trend in crescita. Per un fondo investire in più club significa creare economie di scala, diversificare i ricavi e ridurre i rischi. Il calcio, come tutto lo sport di alto livello, non può e non deve essere un’industria in perdita, un buco nero per i portafogli di ricchi imprenditori che vogliono solo veder vincere la loro squadra. La speranza è che in quest’esigenza o volontà di trarre un profitto dall’industria calcistica la dimensione sportiva ne esca rafforzata da modelli trasparenti, sostenibili e replicabili nel tempo. Il Milan, finora, lo è stato. E vorrebbe continuare sulla stessa strada.