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Quanto è faticoso chiudere un ciclo a Napoli

La tifoseria sta vivendo male gli addii di Insigne, Koulibaly e Mertens, ed è una malinconica consuetudine storica.

Quando finisce un amore, ti senti vuoto nella testa. Quando finiscono tre amori, non c’è nessuna canzone per dirlo. Non ne hanno scritte sulla chiusura di un ciclo. Forse perché manca un carnefice. Hanno tutti ragione. Il calciatore che a un certo punto desidera altre esperienze e altri guadagni, il presidente che vuole mettere a bilancio gli addii, il tifoso che non vorrebbe mai veder andar via il suo campione. Quando finisce un ciclo, a volte era già finito prima. Mancava solo la voglia di accorgersene e di grattare sotto la ruggine. Oppure è il contrario. Quando finisce un ciclo, è tutta apparenza. Stai soltanto cambiando pelle, è un processo di muta. Come nei serpenti. Per qualche giorno perdi l’appetito, ma piano piano si riforma un manto, squama per squama e riconosci l’animale di prima.

Ora che ha visto andar via di schiena, tutti insieme, Lorenzo Insigne, Dries Mertens e Kalidou Koulibaly, Napoli riesce a cogliere solo quel che ha smarrito. Sentimentalmente: tanto. Tecnicamente: qualcosa in meno. Economicamente: non è affare del popolo. Così deve essere. Il tifoso-commercialista che calcola la plusvalenza è contronatura. Un campione che va via era un dolore nel calcio analogico, resta un dolore nel calcio digitale. Del pallone sono cambiate strutture e sovrastrutture. Le dinamiche affettive, che Iddio sia benedetto, restano intatte.

Quando finisce un ciclo, vince la sfiducia. Così va nel cuore di chi ha rinunciato alla ragione per la carriera da tifoso. Un giorno credi di essere giusto, in un altro devi cominciare da zero. È l’analista estraneo e freddo che può permettersi di dire: un attimo, aspettiamo. Sarebbe addirittura un dovere. Per capire cosa verrà, bisogna aspettare le squame. Quando accade il contrario – quando è l’analista ad appiccare il fuoco – allora c’è un problema. Succede anche questo.

Sono partiti un capitano nato e cresciuto nella propria terra, un fiammingo che si è riconosciuto in un certo modo leggero di stare al mondo – al punto da imprimere la città nel nome di suo figlio – e un africano che sentiva di essere stato adottato, il grado massimo nella scala dell’accoglienza. L’amore negli addii del calcio è un estraneo. Non è una categoria del discorso. L’amore è gratuito, negli addii del calcio balla soprattutto il danaro. Un addio è un benvenuto al rovescio. Quando apriamo la porta a un nuovo acquisto, non vediamo alle sue spalle chi altrove lo sta piangendo. In un addio, siamo noi quelli che guardiamo gli album con le foto. Una volta Omar Sívori ha detto che tutti i calciatori al mondo dovrebbero provare almeno per un giorno che cosa significa essere del Napoli. È una di quelle frasi che ai napoletani piace ricordare. È una carezza. È una frase che accudisce. Ma Sívori ha detto: un giorno. Non ha detto: per tutta la vita.

Due su tre (Insigne e Koulibaly) hanno firmato un contratto nei termini che De Laurentiis non ha voluto o non ha potuto offrire loro. Lo sanno anche i bambini come funziona. Saperlo non significa accettarlo. Ma non accettarlo non aiuta a vivere meglio. Due su tre (Insigne e Mertens) sono andati via senza che il Napoli li abbia ceduti, il terzo è stato venduto all’estero. Quando il dolore forse sarà assopito, parrà a molti un accettabile compromesso tra romanticismo e realismo. Due su tre (Koulibaly e Mertens) sono usciti di scena in compagnia di quella invincibile fatica che Napoli avverte addosso al momento delle separazioni. Certe volte è così estrema che lacera. Qualche volta lo strappo si ricuce (Cavani), qualche altra volta no (Higuaín). Eppure, una città che un giorno ha salutato perfino Maradona dovrebbe avere dentro di sé degli anticorpi, un codice, un protocollo. Invece con Diego si trattò di fuga, non di un congedo, e da allora ogni saluto diventa un trauma. Deve essere una specie di incantesimo maligno.

Prima dell’inizio di questa stagione, Insigne e Mertens erano i giocatori con la militanza più lunga nel Napoli: Insigne vestiva la maglia azzurra ininterrottamente dal 2012, Mertens dall’anno successivo; Koulibaly era arrivato in Italia nel 2014, quindi ora il giocatore più longevo del Napoli è Piotr Zielinski, acquistato nel 2016(Miguel Medina/AFP via Getty Images)

Quanti cicli ha chiuso il Napoli? Non molti, nella sua storia. Perché non sono tanti quelli che in fondo ha aperto. Il ciclo di Luís Vinício implose per troppa ambizione. Qualcuno ritenne automatico che in fila a un terzo posto e a un secondo posto, dovesse arrivare per forza il primo, lo scudetto, in un posto dove il calcio era stato al massimo un laboratorio di populismo con i 105 milioni spesi per Jeppson da Achille Lauro, presidente e sindaco. A quel meccanismo semi-perfetto di pressing e difesa a zona, venne aggiunto il primo acquisto da 2 miliardi di lire nella storia del calcio italiano. Ferlaino andò a comprare i gol di Beppe Savoldi dal Bologna all’ultimo giorno di mercato. Vinício si era detto felice e d’accordo a una condizione: che non gli fosse venduto Sergio Clerici, il suo centravanti. Infatti. Clerici andò al Bologna. Sipario. Savoldi fece i suoi gol, Vinício smontò il tendone e salutò, il duo comico I Sadici Piangenti divenne popolare con uno sketch radiofonico in cui San Gennaro rimproverava a Dio di aver fatto spendere 2 miliardi per una Coppa Italia.

Anziché al terzo anno di Vinício, lo scudetto sarebbe arrivato al diciottesimo anno di Ferlaino. Così ci sfiora il dilemma se i cicli si debbano calcolare sulle figure tecniche (allenatori, numeri 10, centravanti) o cucire addosso agli impresari che mettono in piedi lo spettacolo. Fu un ciclo Herrera o un ciclo Moratti? Il ciclo Sacchi e il ciclo Capello non saranno forse un solo ciclo Berlusconi? Il dubbio acquista consistenza al pensiero che quando si chiuse il ciclo Maradona, il Napoli aveva ancora Careca e Zola, cercava Bergkamp e aveva quasi preso Stoichkov: contratto depositato e poi stracciato per il suo rinnovo al Barça. La certezza è che il ciclo Ferlaino cadde insieme a un certo mondo politico di riferimento, nell’istante in cui i partiti della Prima Repubblica, che facevano da garanti con le banche, vennero travolti da Tangentopoli. Le squame nuove presero la forma del Titanic, con qualche nuova proprietà transitoria e fragile, due retrocessioni in Serie B, protagonisti di secondo piano in campo, debiti, il fallimento, la Serie C.

Non c’è nessuno che garantisca un’altra alba dopo un declino, soprattutto quando cambiano i meccanismi industriali o i grandi sistemi, come sanno alla Pro Vercelli e le Nazionali di Austria e Ungheria. Nel passaggio dal calcio analogico al calcio digitale, il Napoli si è invece regalato fin qui una rinascita assai rara, dalla terza serie fino alla Champions, interpretando bene il pallone coi paletti del Fair Play di Platini. L’auto-sostentamento finanziario. Così la generazione dei Senza Maradona ha potuto consegnare finalmente alla Gen Next-Diego un Napoli da vivere, non più da raccontare. Ecco perché al San Paolo si sono legati nel tempo ai Lavezzi e agli Hamsik, ai Mertens e ai Koulibaly, mentre sentivano dire che si era chiuso il ciclo Mazzarri, poi il ciclo Benítez, il ciclo Sarri, il ciclo Ancelotti. Ogni rimpianto popolare ha avuto come sottofondo la convinzione di De Laurentiis nel sentirsi il vero titolare del ciclo. Questo significa in fondo la famosa frase: «Sono io il vostro Cavani». Ora è iniziato un altro passaggio in cui deve dimostrarlo, mentre stanno cambiando ancora le strutture, con un nuovo Fair Play più favorevole ai grandi capitali, con l’invasione dei fondi americani. Intanto, gli anni alla presidenza sono diciotto più uno.