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Calcio, schiavitù e una flebile speranza

Un viaggio in Qatar a pochi giorni dai Mondiali.

Per pochi ryal, chiunque può farsi un giro a dorso di dromedario nei cortili del Souq Wahif, il bazar più antico di Doha. Ristrutturato nel 2006, tra i cunicoli e le botteghe del suo interno si possono trovare venditori di spezie e gioielli, di hijab e tartarughe. C’è anche una sezione dove i qatarini più abbienti possono ammirare, valutare e acquistare – i prezzi partono da 30.000 ryal, 8000 euro – i falchi da addestrare alla caccia, un hobby costoso che ha origine tra le tribù beduine del deserto. Da qualche mese, però, il prodotto più ambito del souq non sono i rapaci né i narghilé, ma una scultura verticale, che dalla base rotonda sale verso l’alto, prima stringendosi e poi allargandosi di nuovo, per terminare in una sfera. Spunta da ogni scaffale o vetrina, in diverse dimensioni e sembianze, dal portachiavi al fermaporta. È il trofeo della Coppa del Mondo.

Per la prima volta nella storia, una nazione araba ospiterà i Mondiali di calcio maschile. In passato ci avevano provato senza successo Iran, Marocco, Egitto e una cordata Libia-Tunisia. «Il calcio può cambiare la nostra mentalità più di qualsiasi altra cosa», dichiarò lo sceicco Mohammed bin Hamad bin Khalifa Al-Thani, fratello dell’attuale emiro del Qatar, al momento della candidatura nel 2010, «le speranze e i sogni dei popoli del Medio Oriente dipendono dal successo di questa candidatura». Già al primo turno di votazioni, il Qatar ricevette lo stesso numero di preferenze delle altre quattro nazioni candidate messe insieme: Stati Uniti, Australia, Giappone e Corea del Sud, segno che il Comitato Esecutivo della Fifa riteneva convincenti le motivazioni dello sceicco. E non solo, sospettano in molti. Dopo l’assegnazione, emersero accuse e testimonianze che, attraverso società e intermediari, il Qatar avesse offerto denaro in cambio di voti ad alcuni membri del Comitato. Sebbene un report rilasciato dalla stessa Fifa nel 2017 dichiari che non ci sono prove definitive a supporto di queste teorie, i dubbi hanno segnato i dodici anni che ci hanno condotto fino a pochi giorni dal fischio d’inizio.

In Qatar il calcio e i soldi nascono insieme. La prima partita ufficiale fu giocata nel 1948 da expat inglesi che lavoravano nei campi petroliferi scoperti pochi anni prima vicino a Dukhan, nell’ovest del Paese. Si racconta che le linee che delimitavano il rettangolo di gioco di sabbia fossero tracciate con il petrolio stesso. Oggi, le risorse naturali che in poco più di mezzo secolo hanno reso il Qatar una delle nazioni più ricche al mondo servono a finanziare gli investimenti dei membri della famiglia reale nel gioco più bello del mondo. Attraverso il fondo sovrano del Paese, oggi la famiglia reale controlla la Qatar Sports Investments, che ha acquisito il Paris Saint-Germain nel 2011 (lo sponsor della squadra è la Qatar Airways) e il 20% circa dello Sporting Braga nell’ottobre di quest’anno. Più o meno negli stessi giorni, i giornali hanno documentato l’interessamento di un membro della famiglia regnante all’acquisto della Sampdoria.

La mascotte di Qatar 2022 si chiama La’eeb, ed è difficile da descrivere. La Fifa dice che ognuno può interpretare la sua forma come vuole, ma sembra somigliare molto a una kefiah, il tipico copricapo arabo. Il significato della parola, invece, è qualcosa di simile a: giocatore fortissimo ed esperto.

Al vertice di questo sistema di investimenti stellari c’è il quarantaquattrenne sceicco Jassim bin Hamad Al-Thani, che nel 2003 abdicò al trono in favore del fratello minore, proprio per mettere la palla al centro di un grande progetto di modernizzazione del Paese. Nei caffè del souq si racconta che in camera Jassim abbia un muro di televisori che trasmettono partite di calcio, notte e giorno, e che nei giardini del palazzo reale – tra palme, fontane e architetture incantevoli – abbia fatto costruire sette campi da calcio a dimensioni regolamentari. Per realizzare la sua visione di un Qatar fondato sul calcio, però, Jassim ha dovuto constatare un fatto evidente: nell’abbondanza di risorse che la sua terra produce spontaneamente non figurano i calciatori. Certo, il football è considerato lo sport nazionale, ma la stragrande maggioranza dei locali non ha la passione né lo spirito di sacrificio per intraprendere una carriera da sportivo.

Fin dai primi anni Duemila, la Federazione Calcio del Qatar ha incentivato i club della Qatar Stars League – il modesto campionato locale – ad acquistare giocatori e allenatori stranieri per alzare il livello del loro gioco. In un Paese in cui il 90% della forza lavoro è composto da expat, mettere sotto contratto Batistuta, Desailly, Guardiola o Sneijder era considerato semplice buon senso. Ma restava il problema della Nazionale: nel 2004, in vista dei Mondiali di Berlino, il Qatar provò a sopperire ai deficit della propria rosa naturalizzando tre giocatori brasiliani, che militavano nel campionato tedesco. La Fifa fu costretta a intervenire, stabilendo criteri più stringenti riguardo alla presenza di giocatori stranieri nelle Nazionali. Tre anni dopo, Jassim inaugurò in pompa magna – con la partecipazione straordinaria di Pelé e Maradona e una performance del Cirque du Soleil – l’Aspire Academy, una scuola calcio all’avanguardia, fondata per formare la prossima generazione di calciatori del Qatar.

Tuttavia, in una nazione di 2,8 milioni di abitanti – solo 300.000 sono cittadini qatarini, la metà dei quali sovrappeso – trovare un gruppo di adolescenti talentuosi può rivelarsi un compito complesso. Così, insieme ad Aspire, nacque anche Football Dreams, un programma destinato a integrare nell’accademia teenager provenienti da Paesi in via di sviluppo. A guidarlo fu chiamato Josep Colomer, lo scout che aveva scoperto Messi. Solo nei primi sette anni di attività Football Dreams ha testato 3,5 milioni di giovani calciatori provenienti da Africa, Asia e America Latina, e offerto borse di studio a 18-20 di loro ogni anno. Aspire la presenta come un’iniziativa a scopo umanitario, mentre alcune inchieste giornalistiche hanno accostato il suo funzionamento al traffico di minori: d’altronde, il programma preleva adolescenti nei Paesi d’origine, li cresce nel Golfo e poi li spedisce a militare in squadre satellite europee – l’Eupen in Belgio, il Cultural Leonesa in Spagna e il Lask Linz in Austria – prima che compiano diciott’anni.

Classe 1973, Nasser Al-Khelaifi è il presidente del Psg e di beIN Media e del fondo sovrano del Paese: è uno degli uomini più potenti del calcio attuale. Per due volte è stato nell’occhio del ciclone, accusato di corruzione per l’attribuzione dei diritti televisivi del Mondiale, ma per due volte è stato assolto.

Chi pensava che il Qatar sarebbe diventata una Nazionale composta esclusivamente da oriundi, però, ha dovuto in parte ricredersi. Il ct spagnolo Felix Sánchez Bas, alla guida della nazionale dal 2017, ha perseguito una strategia basata sui talenti locali, che ha dato presto i suoi frutti. Due anni dopo, la Nazionale ha vinto la Coppa d’Asia, sconfiggendo squadre ben più blasonate come il Giappone e la Corea del Sud, grazie a una rosa composta al 70% da talenti usciti dall’Aspire Academy, con solo tre stranieri arrivati in Qatar esclusivamente per giocare a calcio. Se nel 2010 la Nazionale figurava al 114° posto nella classifica Fifa, oggi è al 50°.

«Il momento più emozionante sarà quando canteranno l’inno del Qatar per la prima volta», dice l’australiano Tim Cahill, ex calciatore e attuale Chief Sports Officer di Aspire Academy, «ma la Coppa del Mondo è solo una piccola parte di ciò che stiamo costruendo». Cahill supervisiona il programma della scuola calcio, ma ad Aspire si insegnano anche scherma, ping pong, squash e atletica: Mutaz Essa Barshim, attuale campione olimpico di salto in alto insieme a Marco Tamberi, è un altro talento cresciuto qui. «L’Aspire è un progetto unico in un contesto unico», continua Cahill, «mi piace la connessione che i ragazzi hanno con le loro famiglie e il fatto che l’allenamento si fermi per la preghiera. Sono cose che creano coesione».

Le tradizioni famigliari e religiose che Cahill vede come punti di forza del contesto qatarino, però, sono ostacoli alla partecipazione di un altro genere di atleti. «Spesso abbiamo giocatrici molto forti, ma i genitori non sono felici che partecipino», spiega Zara Boustead, una coach presso la Qatar Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro dedicata alla formazione e alla ricerca, che promuove anche eventi dedicati anche allo sport femminile: «Una delle sfide più grandi che dobbiamo affrontare è cambiare la loro mentalità, convincendoli che l’attività sportiva è una buona cosa per le loro figlie». Alcune famiglie musulmane ritengono sconveniente che le ragazze si dedichino all’attività fisica e, nel farlo, scoprano alcune parti del loro corpo. Per rendere più digeribile la pratica sportiva femminile, la Qatar Foundation riserva le sue strutture alle donne in giorni dedicati e scherma dall’esterno i campi di calcio in cui giocano. Le cose stanno lentamente cambiando, ma ci vorranno anni prima che i risultati siano visibili: attualmente, la Nazionale femminile del Qatar non compare nemmeno nel ranking Fifa. Al contrario di quel che accade in altri Paesi arabi, le donne qatarine possono invece assistere alle partite dal vivo, un diritto di cui però sono in poche ad avvalersi. Lo stesso vale per i maschi, d’altronde. Molti preferiscono guardare il campionato locale e le leghe europee in tv, comodamente seduti sul divano di casa. Come risultato, l’atmosfera di un match ufficiale della Qatar Super League somiglia a quella di un’amichevole tra due squadre italiane, con pochi tifosi, generalmente pacifici. D’altronde, chi avrebbe la forza di sbraitare e agitare bandiere con 40 gradi di temperatura?

Questa è stata anche la preoccupazione principale della Fifa, che nel 2015 ha preso una decisione senza precedenti: spostare i Mondiali in inverno, per evitare il caldo torrido dell’estate qatarina. Per abbassare ulteriormente la temperatura, la Federazione Calcio del Qatar si è rivolta al professore universitario e ingegnere meccanico Saud Abdul-Aziz Abdul-Ghani, meglio conosciuto come Dr. Cool. «Il mio obiettivo è assicurarmi che ogni stadio sia una bolla isolata, con un microclima interno completamente separato dal macroclima che c’è all’esterno», spiega lui, che ha inventato un sistema di bocchette situate lungo il rettangolo di gioco e griglie poste sotto i seggiolini dei tifosi che rilasciano aria fredda a partire da due ore prima delle partite, per poi riciclarla, filtrarla e raffreddarla a ciclo continuo. Sebbene l’idea di sparare aria condizionata in un gigantesco luogo aperto possa sembrare criminale, Dr. Cool sostiene che il sistema – alimentato da una centrale a pannelli solari nel deserto – sia sostenibile e basato su un semplice assunto scientifico: l’aria calda, più pesante, tende a salire; l’aria fredda, più leggera, resta in basso. La tecnologia è ottimizzata in base alla temperatura, l’umidità, le radiazioni solari, il movimento dell’aria e persino il colore dei seggiolini di ciascuno stadio.

Sepp Blatter è stato presidente della Fifa per 17 anni, e ha quindi presieduto sull’assegnazione del Mondiale al Qatar. Ha sempre negato che il Mondiale sia stato “comprato”, ma ha detto che la scelta del Qatar fu un errore, e che i voti furono influenzati dalla volontà del governo francese guidato allora da Sarkozy.

Un altro progetto di Dr. Cool è un caschetto refrigerante, capace di abbassare di dieci gradi la temperatura corporea. Commissionato da Aspire e dal comitato organizzatore dei Mondiali, è un tentativo di mitigare i disagi di chi lavora sotto il sole, dopo che il Qatar è stato bombardato di accuse riguardo al mancato rispetto dei diritti umani nei cantieri del Mondiale. Su otto stadi in cui si giocheranno le partite, infatti, sette sono stati progettati ed eretti in tempo record negli ultimi dodici anni. L’ottavo è stato completamente ristrutturato. Per svolgere una tale mole di lavoro, il Qatar ha assunto centinaia di migliaia di lavoratori migranti provenienti da India, Bangladesh, Nepal e Filippine. Secondo un’inchiesta di Amnesty International, la maggior parte di loro hanno dovuto pagare una commissione – che va dai 300 ai 4300 euro – alle agenzie che gli hanno procurato il lavoro nei Paesi d’origine. Una volta arrivati in Qatar, gli è stato di fatto sequestrato il passaporto, dato che secondo la kafala, un sistema diffuso nei Paesi del Golfo, per cambiare impiego o lasciare il Paese è necessaria l’approvazione del proprio datore di lavoro.

I salari, quando vengono corrisposti, sono miseri e diversi da quelli che gli erano stati prospettati. I turni di lavoro vanno dalle 8 alle 12 ore al giorno e spesso si svolgono in condizioni climatiche estreme. A fine turno, i lavoratori vengono spediti in campi nel deserto, dove dormono ammassati in container, in condizioni igieniche precarie. In molti cantieri, chi protesta viene minacciato o spedito alla polizia per essere deportato, una fine comunque migliore rispetto a quella dei 6500 immigrati che, secondo il Guardian, da quei cantieri non sono mai usciti, morti per quel che nella maggior parte dei casi sono state valutate come “cause naturali” dai report del Consiglio Supremo della Sanità del Qatar. Nel 2020, il Qatar ha abolito la kafala e introdotto il salario minimo: le riforme hanno migliorato le condizioni di molti lavoratori, ma non sono riuscite a estirpare alcune pratiche consolidate di abuso e sfruttamento, oltre a essere arrivate con dieci anni di ritardo, quando la maggior parte degli stadi era già stata costruita.

Tamim bin Hamad Al Thani è l’attuale emiro del Qatar, ed è lui l’uomo che ha portato il Mondiale al Qatar. Ha deciso di usare lo sport come soft power politico per il Paese, investendo nel Psg e non soltanto. È membro del Comitato Olimpico Internazionale e candidò Doha a ospitare le Olimpiadi del 2020, senza successo.

Un’altra grande infrastruttura realizzata in occasione della Coppa del Mondo è la metropolitana. Costata 27 miliardi di euro, si snoda attraverso 37 stazioni e avrà il compito di trasportare da uno stadio all’altro i tifosi – più di un milione, secondo le previsioni – che nel corso del torneo raggiungeranno Doha, una città che normalmente conta poco più del doppio degli abitanti. Se i Mondiali del passato si svolgevano in grandi nazioni e quelli del futuro avranno luogo in interi continenti – nel 2026 il torneo abbraccerà un’area di oltre dieci milioni di chilometri quadrati tra Canada, Messico e Stati Uniti – Qatar 2022 si presenta invece come la Coppa più densa della storia (persino più di Svizzera 1954), con tutte le partite concentrate in un raggio di cinquanta chilometri intorno a Doha.

Mentre la città si prepara all’impatto, i tifosi che hanno deciso di seguire la propria Nazionale possono scegliere tra alloggi insoliti, come una tenda nel deserto o una cuccetta in una lussuosa nave da crociera ormeggiata nel porto. Altri invece faranno i pendolari, grazie a un servizio organizzato da Qatar Airways che gli consentirà di andare e venire in giornata dai Paesi vicini. In città come Dubai, a poco più di un’ora di volo da Doha, saranno più liberi anche di litigare, bere alcool, scambiarsi effusioni e vestirsi come gli pare in pubblico, tutte attività in cui i tifosi di calcio amano indugiare, ma che la legge del Qatar – uno stato autocratico che segue i dettami puritani dell’Islam sunnita – formalmente proibisce e punisce. Chiunque sia trovato ubriaco in pubblico, per esempio, rischia fino a sei mesi di prigione, un dettaglio che potrebbe ritardare il ritorno in patria di molti.

Tra corruzione dilagante e costumi corrotti, risorse naturali e campioni naturalizzati, campi da gioco e campi da lavoro, la Coppa del Mondo 2022 ha già mantenuto la promessa con cui si era presentata alla FIFA e al mondo intero: «Expect Amazing»: preparatevi a qualcosa di straordinario. Saranno i primi Mondiali ad avere luogo d’inverno, in un Paese del Golfo, in una nazione musulmana, in un territorio così piccolo, abitato da una popolazione così esigua. Nel deserto del paesaggio circostante, il Qatar ha eretto un circo così grandioso e controverso che nessuno potrà ignorarlo. La domanda è cosa resterà nella sabbia, una volta che il tendone si sarà sgonfiato.

Da Undici n° 47
Foto di Matteo de Mayda
Nel nostro avvicinamento ai Mondiali, abbiamo dato ampia attenzione al Paese ospitante perché, mai come questa volta, la protagonista del Mondiale è proprio il Qatar. E non le squadre candidate alla vittoria, non i giocatori che scenderanno in campo. L’attenzione del mondo sarà sul piccolo emirato, ancora più che su Argentina, Francia e compagnia. A causa della novità – la prima volta di una nazione araba – ma anche di tutte le polemiche, le accuse, le tragiche certezze. E però questo Mondiale alla fine lo guarderemo, perché il calcio è ancora un gioco, e l’aspetto ludico, pieno di entusiasmo infantile, non riesce a perdersi del tutto. Ecco perché abbiamo voluto rappresentare i protagonisti della Coppa come se fossero degli eroi per un pubblico di giovanissimi o di bambini. L’abbiamo fatto utilizzando un programma TTI (Text To Image), ovvero una delle intelligenze artificiali che, soltanto negli ultimi mesi, hanno fatto la loro comparsa su internet.
Nell’immagine in apertura c’è Michel Platini, fermato e interrogato dalla polizia, a giugno 2019, nell’ambito di un’indagine sull’assegnazione dei Mondiali al Qatar: secondo le ricostruzioni dei media, l’ex fuoriclasse della Juventus – allora presidente Uefa – aveva ammesso un incontro all’Eliseo con Sarkozy e l’emiro qatariota Tamim bin Hamad Al Thani. Nel frattempo, la procura francese aveva avviato un’indagine per corruzione, associazione a delinquere e traffico di influenze in merito alla procedura di hosting del torneo. Dopo il rilascio, l’avvocato di Platini annunciò che il suo assistito non risultava accusato, e che «è stato fatto molto rumore per nulla».