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La nuova rivalità tra Arsenal e Man City è quello di cui la Premier aveva bisogno

Alla fine i Gunners si sono fatti divorare dagli psicodrammi e hanno subito la rimonta di Guardiola, ma il progetto di Arteta può andare oltre i risultati di questa stagione.

Il 19 aprile, tre giorni dopo il pareggio contro il West Ham che rischia di costare all’Arsenal una buona fetta di Premier League, Michail Antonio ha raccontato a The Footballer’s Football Podcast di aver parlato con «qualcuno che lavora nell’Arsenal». Questa persona gli avrebbe spiegato che «per tutta la stagione i ragazzi sono rimasti concentrati solo e unicamente su loro stessi, su ciò che dovevano fare, sul loro gioco». La settimana scorsa, dopo aver pareggiato contro il Liverpool e aver permesso al City di avvicinarsi un po’ di più, è stata la prima volta in cui questa stessa persona ha sentito «i giocatori iniziare a parlare di quanto il City giochi bene e di quanto sia forte. Direi che stanno iniziando ad avvertire la pressione del City che li insegue». 

Le parole di Antonio sembrano l’ennesimo aneddoto uscito da un libro di Nick Hornby, la ciclica riproposizione di quell’idea dei romantici sfavoriti che si sono fatti onore prima che tutto quello che potesse andar male iniziasse ad andare peggio; quasi come se il più celebre corollario della legge di Murphy fosse qualcosa di talmente radicato nella narrazione dell’Arsenal – o, almeno, dell’Arsenal pre e post Wenger – da diventarne un tratto caratteristico, distintivo, per certi versi persino identitario. In realtà mai come questa volta la retorica dello psicodramma poggia su una base solida, concreta, tangibile, cioè sulla capacità del Manchester City di Pep Guardiola di entrare sottopelle e nella testa dei suoi avversari, minando quelle certezze che sembrano consolidate nel tempo, condizionando le scelte dentro e fuori dal campo. Lo scorso 12 febbraio, durante uno speciale della NBC dedicato allo scontro diretto che sarebbe andato in scena di lì a tre giorni, Robbie Earle disse che «Oggi Pep Guardiola ha già cominciato a mettere in atto i suoi classici mind games per confondere le idee di Arteta: si tratta di una strategia che ha attuato anche nelle scorse stagioni ma che al momento non sappiamo se porterà dei risultati perché non conosciamo la capacità di reazione dei Gunners». Il 3-1 dei Citizen fu già all’epoca una risposta significativa, il primo indizio di qualcosa che, oggi, sembra già essere diventata la prova, l’ennesima, di una superiorità schiacciante e ineluttabile. 

È già successo con il Liverpool di Klopp, sta succedendo adesso con l’Arsenal di Arteta, alle prese con il secondo momento di stasi collettiva del 2023 e con la situazione più Arsenal di tutte, vale a dire con la possibilità che anche un’eventuale vittoria a Etihad possa non bastare, o comunque non essere decisiva come dovrebbe esserlo uno scontro diretto tra prima e seconda in classifica che arriva a questo punto della stagione. Ma se quella della prima metà di febbraio – due sconfitte in tre partite di Premier, compreso l’1-3 incassato all’Emirates – poteva essere considerata come una “semplice” crisi di risultati, questa volta le difficoltà emerse nei tre pareggi consecutivi nelle ultime tre gare sembrano legate a qualcosa d’altro, a qualcosa di diverso. A qualcosa che riguarda la capacità della squadra di reagire al singolo episodio negativo che può condizionare non solo la partita, ma anche la stagione.  

Negli ultimi venti giorni le partite dell’Arsenal hanno avuto tutte la stessa trama. All’inizio tutto va bene, magari arriva un gol, poi un altro, tutto procede secondo il piano partita studiato e applicato alla perfezione; poi si verifica l’imprevisto, il dettaglio fuori posto, l’infortunio di un giocatore chiave (Saliba), gli errori in serie del suo rimpiazzo (Holding), il rigore sbagliato dalla stella (Saka), l’occasione all’ultimo minuto che sfuma per un passaggio sbagliato (Martinelli), e allora tutto comincia ad andare storto senza che nessuno possa farci nulla. Anzi la sensazione è che più grande sia lo sforzo per opporsi al destino più si finisca per cedere all’inevitabile, e così partite già vinte finiscono con l’essere pareggiate, magari dopo aver rischiato a lungo anche di perderle, alimentando un sadico cortocircuito per cui alla fine sembra quasi che sia andata bene, che un punto sia meglio di niente, che in fondo poteva andare addirittura peggio. 

Contro il Southampton è successo esattamente questo: la rimonta dall’1-3, quando i Gunners sembravano ormai sul punto di mollare fisicamente e mentalmente, ha lasciato intatta l’immagine di un Arsenal tenace e duro da uccidere, che ha ancora un po’ di energie da spendere – nonostante l’andatura senza intoppi del Manchester City. In realtà i granelli di sabbia finiti all’interno di un ingranaggio che sembrava perfetto cominciano a essere troppi per poter pensare davvero che questa volta l’epilogo possa essere diverso: «Abbiamo creato tanto ma non siamo riusciti a segnare e vincere, e per questo siamo molto delusi. In questo campionato non puoi permetterti di subire tre gol, per di più nel modo sciatto in cui li abbiamo concessi noi questa sera, perché poi diventa molto difficile vincere le partite. La nostra, però, è una squadra giovane: il modo in cui hanno reagito e lo spirito che hanno dimostrato sono andati oltre ogni mia previsione», ha detto Arteta nel post partita. 

Che l’Arsenal riesca o meno a invertire il corso degli eventi appare, però, un dettaglio quasi marginale all’interno di un contesto più ampio e che va oltre la semplice dicotomia tra vittoria e sconfitta. La nuova rivalità con il Manchester City, infatti, era esattamente ciò di cui la Premier League aveva bisogno, soprattutto in un momento storico in cui il campionato più bello e visto del mondo si ritrova a interrogarsi sul suo livello di competitività reale, sia a livello di sistema – il City può vincere per la quinta volta negli ultimi sei anni, stabilendo un’egemonia che ricorda da vicino quella imposta dallo United di Ferguson, campione in otto stagioni su dodici a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila – che di squadre, complice la crisi delle big storiche e il fatto che tra le 12 semifinaliste delle tre competizioni europee ci siano appena due club inglesi: «Per la Premier League sarebbe molto meglio che vincesse l’Arsenal: il City ha già vinto quattro volte negli ultimi cinque anni e un nuovo successo sarebbe la negazione di ciò che noi tutti pensiamo di questo campionato, e cioè che possano vincerlo anche quelle squadre che non sono date per favorite all’inizio della stagione. La vittoria dell’Arsenal farebbe capire a tutti cosa davvero ci piace della Premier League, cioè l’idea che tutti possano vincere contro tutti anche se negli ultimi anni non è stato esattamente così», ha detto recentemente Gary Neville su Sky Sports. 

Mikel Arteta è stato nominato allenatore dell’Arsenal il 20 dicembre 2019. Da allora, ha messo insieme 100 vittorie, 30 pareggi e 44 sconfitte in 174 gare ufficiali di tutte le competizioni (Clive Rose/Getty Images)

La questione riguarda soprattutto gli aspetti commerciali e di vendibilità del prodotto Premier League, della necessità di dare a un pubblico sempre più globale e globalizzato quello che vuole, vale a dire un confronto all season long che ricalchi la visione dei due pesi massimi al centro del ring, anche a costo di far risultare tutto artificiale e costruito, o comunque privo di quei canoni emotivi e passionali che caratterizzano una rivalità in senso stretto. Non a caso, in questo articolo pubblicato sulla versione inglese del sito di Al Jazeera nel giorno della sfida di andata, si legge che «le rivalità che hanno fatto la storia dello sport sono state costruite sull’animosità. La mancanza di incontri ad alto livello e con una grande posta in palio tra queste due squadre, invece, ha fatto in modo che i rapporti fossero molto cordiali: ad eccezione dell’esultanza polemica e provocatoria di Emmanuel Adebayor sotto la curva dei tifosi dell’Arsenal nel 2009, si fa fatica a ricordare dei momenti davvero importanti di questo confronto». Si tratta di una percezione condivisibile, alimentata dalle frequenti operazioni di mercato che hanno coinvolto i due club e che hanno riguardato giocatori importanti Adebayor, appunto, ma anche Nasri, Clichy, Kolo Toure, Gabriel Jesus, Zinchenko. E poi c’è anche quella vulgata che vede nell’Arsenal di Arteta un’emanazione nemmeno tanto indiretta di Guardiola stesso, l’ennesimo tentativo di Pep di dare e di darsi un’emozione, una nemesi. Oppure, meglio ancora, una sfida all’altezza della sua fama, una rivalità che legittimasse il suo lavoro di costruzione di una delle squadre più forti del mondo, se non la più forte in assoluto.  

In realtà il grande merito dell’Arsenal e di Arteta sta proprio nell’essere riusciti ad andare oltre tutto questo, oltre l’espediente narrativo di facile impatto dell’allievo che prova a superare il maestro, accreditandosi come rivale credibile e guadagnandosi questo status attraverso la forza delle idee e del lavoro. E non è un caso che la squadra che oggi punta a spodestare il Manchester City sia quella più Manchester City di tutti e, contemporaneamente, quella che si è dovuta sforzare di meno per diventarlo: da Guardiola, infatti, Arteta ha ereditato tutti i legati tecnici e tattici del gioco di posizione rimodulati sulla verticalità e vorticosità del calcio inglese del XXI secolo, reinterpretandoli in funzione di una rosa giovane, elettrica, che ha un bisogno quasi primordiale di prendersi dei rischi, di spingersi costantemente oltre i propri limiti. Che poi è esattamente ciò che li ha portati a un punto del proprio percorso di crescita individuale e collettiva in cui il ruolo dell’underdog che non ha nulla da perdere ha lasciato il posto a quello della big che può recriminare per qualche occasione persa di troppo nella sfida a un avversario che dà un senso a tutto per il solo fatto di esistere: «A essere sinceri avrei preferito che tutto questo fosse contro qualcun altro, ma alla fine dobbiamo accettare entrambi che questa è la nostra sfida. Ho sempre sognato che un giorno avrei avuto una sfida così per il titolo, e sta accadendo proprio in questa stagione contro Pep e il Manchester City. Questo non cambierà la nostra amicizia, né i momenti che abbiamo condiviso e nemmeno l’importanza che lui ha avuto nel mio essere diventato il professionista che sono oggi», ha dichiarato Arteta a Forbes.      

Stasera a Etihad ci sarà il terzo e ultimo confronto della stagione, quello che doveva indirizzare la Premier e definire i temi di una rivalità in divenire, di cui non riusciamo ancora a identificare bene confini, presupposti, conseguenze. In entrambi i casi ci sarà da aspettare ma due sono i punti di partenza. Il primo: quello che vedremo non è tutto artefatto e costruito. Il secondo, ancora più importante: non siamo più in un libro di Nick Hornby.