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Quando Andrea Pirlo è diventato un’icona, qualcosa di più che un fuoriclasse

Un estratto del libro Andrea Pirlo, dalla testa ai piedi, di Alfonso Fasano, edito da 66thand2nd.

È l’11 agosto 2012, e allo stadio Nazionale di Pechino si gioca la Supercoppa Italiana. Si affrontano Juventus e Napoli. I calciatori della Juve scendono in campo indossando una nuova versione della tradizionale maglia palata: i contorni delle strisce bianconere sono più definiti e più puliti, il colletto ha una forma classica ed è di colore nero, sul petto campeggiano il logo di un nuovo sponsor – Jeep, uno dei marchi che Fca ha inglobato nella propria galassia industriale in seguito all’acquisizione di Chrysler Group – e lo scudetto tricolore sei anni dopo l’ultima volta, al netto delle sentenze di Calciopoli. La sensazione, che poi si rivelerà esatta, è che la Juventus sia nel mezzo di una transizione, di un passaggio di stato piuttosto significativo: sta mettendo le basi per diventare un top club adulto, vuole dominare il calcio italiano sul piano economico-sportivo ma anche dal punto di vista comunicativo, estetico e quindi politico.

Per indole, probabilmente anche per scelta, Andrea Pirlo non ha mai vissuto un cambiamento d’immagine assimilabile a quello che sta vivendo la Juventus. Nel senso che, almeno fino alla gara di Pechino, non aveva ancora subìto o mostrato una metamorfosi fisica che l’avesse reso adulto, che l’avesse trasformato in un uomo più maturo rispetto alla sua immagine storica. Certo, negli anni il suo modo di stare in campo si è evoluto molto mentre restava a livelli di eccellenza assoluta, non a caso è diventato il leader di una Juventus che ha un’anima modernissima, che gioca un calcio iperdinamico e che si sta costruendo un enorme appeal commerciale. Eppure il «look and feel» di Pirlo è sempre stato fermo, sospeso nel tempo, come se il suo volto e il suo corpo fossero fatti di un marmo inscalfibile: capelli un po’ più lunghi della media e acconciati sempre allo stesso modo, faccia glabra, nessun vezzo e nessun orpello distintivo, niente chiome ossigenate e/o ciocche mechate, niente orecchini, niente tatuaggi visibili alle telecamere, niente fascette e codini ed elastici sgargianti, niente esplosioni muscolari che lo facessero assomigliare a un supereroe. Insomma, fino alla finale della Supercoppa Italiana edizione 2012 Andrea Pirlo ha proiettato un’immagine minimalista ed essenziale, la sua iconografia si riduceva alla funzionalità e all’estetica del suo gioco. Non sembrava una scelta sbagliata, anche se da tempo il calcio stava andando in un’altra direzione, anche se i giocatori si stavano trasformando in vere e proprie media company individuali: Andrea Pirlo non aveva bisogno di mostrare e quindi di essere altro, il campo parlava da sé. E poi erano bastate le dichiarazioni rese ai media perché il pubblico potesse percepire e pesare la leadership di Pirlo, la sua intelligenza, l’acutezza e la profondità dei suoi pensieri, non solo quelli sul gioco del calcio.

A Pechino, però, Andrea Pirlo scende in campo con una barba che, seppur non ancora perfettamente sagomata, racconta una mutazione in atto. E allora la sua immagine risulta subito diversa, decisamente più glamour e più moderna, anche se in qualche modo lo invecchia un po’, lo avvicina ai trentatré anni compiuti a maggio – un’età che per i calciatori, di solito, rappresenta l’inizio del crepuscolo. Alcuni anni dopo, Giuseppe Pastore scriverà sul Foglio che «la scelta di riporre il rasoio nell’armadietto è stata il vero spartiacque stilistico di Andrea Pirlo: in fondo l’ultima sua foto a mento glabro risale all’estate 2012, al termine della prima magnifica stagione con la Juventus di Conte: da lì in avanti è diventato la controfigura molto apprezzata di Ben Affleck in Argo. Dunque Pirlo barbuto uguale Pirlo juventino, così lui e i bianconeri sono riusciti a cancellare il passato al Milan».

Questa lettura è certamente estrema, forse anche un po’ maliziosa, ma è evidente come la rinascita vissuta prima con la Juve e poi con la Nazionale abbia rinfocolato la consapevolezza e la sicurezza di sé che da sempre ardono in Andrea Pirlo. Non è esagerato parlare in termini di rivincita personale: senza di lui, in fondo, la Juventus di Conte non sarebbe esistita e non potrebbe esistere, e lo stesso discorso vale per l’Italia di Prandelli, una Nazionale che ha disputato un grande Europeo e che sembra destinata ad avere un futuro luminoso. Il fatto che tutto questo stia avvenendo quando è passato un solo anno dall’addio al Milan, un addio arrivato sulla base di una precisa scelta tecnico-tattica, è ancora più significativo. Andrea Pirlo si è ripreso la scena in modo autoritario quando il suo prime sembrava trascorso, quando gli avevano detto chiaramente che il suo tempo stava svanendo, forse era già svanito: un’impresa che riesce solo a pochissimi eletti del gioco. E allora, deve aver pensato Pirlo, perché non celebrare un ritorno così dirompente – e forse anche inatteso – costruendo una nuova mitologia intorno al mio personaggio? Perché non farlo partendo da un rinnovo della mia immagine? In fondo tutte le rivoluzioni, anche e soprattutto quelle restauratrici, partono da un’idea semplice e d’impatto. Da un simbolo riconoscibile in cui tutti possano identificarsi.

Nel caso di Andrea Pirlo si tratta della barba, e infatti tantissimi calciatori – e non solo i calciatori – inizieranno a portarla proprio come lui: lunga, scura eppure morbida, sinuosa, definita in modo apparentemente naturale eppure curatissima, per di più accoppiata a un taglio di capelli che non scenderà mai più oltre una certa soglia di lunghezza. Nel 2014, una influencer del beauty, Elena De Francisci, definirà il look di Pirlo con slancio letterario: «I suoi capelli sono ipnotizzanti, fluenti eppure eleganti, con quella sfumatura di castano che sotto certe luci sembra quasi dorato. La cosa che ci conferma la perfezione della sua chioma è che la combo barba+capelli lunghi, che in certi uomini può fare l’effetto naufrago/fricchettone/messiah, o tutte e tre le cose insieme, su di lui è estremamente fascinosa».

Ci sono dei casi e dei momenti in cui gli sportivi d’élite trascendono. È come se si elevassero rispetto a tutti gli altri, come se traslocassero per andare a vivere su una nuvola. Sono in pochi a riuscirci, anche perché non basta il valore assoluto nella propria disciplina: per trascendere serve combattere e possibilmente vincere le battaglie politiche, come hanno fatto Cassius Clay/Muhammad Ali e Diego Armando Maradona; serve una carica agonistica inesauribile, come quella di Michael Jordan, Serena Williams, Rafa Nadal; serve manifestare un profondissimo sentimento di appartenenza e/o una longevità inossidabile, come Francesco Totti, Paolo Maldini, Tom Brady. Oppure si può trascendere attraverso l’immagine, l’eleganza, la classe, trasmettendo una sensazione di perfezione formale e sostanziale, come Roger Federer, David Beckham, Federica Pellegrini. Ecco, a partire dalla seconda metà del 2012 Andrea Pirlo entra in quest’ultimo circolo esclusivo. La barba certifica la sua iscrizione a questo club: in fondo si tratta di un figlio degli anni Novanta e dei Duemila che ha saputo adattare il proprio fenotipo accettando solo alcuni compromessi, solo quelli giusti, e questo processo lo ha reso un’icona vivente, l’epitome del calciatore affascinante ma anche un po’ nostalgico, un brand che cammina e che brilla di luce propria, un leader che può dire e può permettersi tutto, visto che in campo, laddove conta di più, è ancora unico, è ancora insostituibile. Inoltre, come se tutto questo non bastasse, è sempre stato un uomo profondo e mai banale.

Questo diritto acquisito alla trascendenza Andrea Pirlo lo esercita con il suo caratteristico charme, dolce e aspro insieme, con le solite parole soffici eppure taglienti: la Juventus batte il Napoli in Supercoppa, inizia bene campionato e Champions ma poi perde contro l’Inter e contro il Milan, c’è chi parla di crisi bianconera e invece Pirlo dice a «Tuttosport» che «noi siamo la Juventus, e se facciamo quello che sappiamo fare sarà complicato per tutti tenerci testa». Nella stessa intervista aggiunge che la sua importanza nell’universo bianconero non è niente di speciale, visto che «ho sempre voluto stare al centro di tutto per assumermi le mie responsabilità. Poi qui a Torino la gente mi ha apprezzato fin da subito. Certo, giocare bene mi ha aiutato parecchio: se offri delle grandi prestazioni in campo i tifosi ti applaudono, altrimenti ti fischiano. Mi sembra di scoprire l’acqua calda».

Infine, pungolato sulla sua esclusione dal podio del Pallone d’Oro 2012, Pirlo dice una frase-manifesto del suo modo di essere, del suo modo realistico, non finto-umile, di parlare di sé: «Non posso essere io a dire se sono un fuoriclasse. Personalmente credo di aver combinato qualcosa nel calcio, di aver vinto abbastanza. Mi considero un buon giocatore». Nulla di nuovo, nulla di diverso: è Andrea Pirlo in purezza. Solo più maturo. Più consapevole. Come tutti gli atleti che riescono a trascendere.

Un estratto del libro Andrea Pirlo, dalla testa ai piedi, di Alfonso Fasano, edito da 66thand2nd