Bologna 3000

Il progetto del nuovo Bologna targato Usa al punto di svolta: vuole tornare grande, e vuole farlo in A. Prima, però, vanno vinti i playoff.

«Il calcio è come la musica: bisogna andare a tempo per capirlo». Le urla di Delio Rossi, acute e stridule, risuonano nella conca umida di Casteldebole. Martedì 5 maggio, le 15. Caldo che si soffoca. Delio ciondola nella sua immagine di allenatore profetico. Tra le mani stringe quattro pezzi di carta su cui deve aver appuntato le idee di un calcio d’avanguardia, gli schemi, i movimenti teorizzati e poi inchiostrati; ogni dieci passi li consulta con la stessa drammaticità di chi ha scordato un brano del Vangelo, prima di adagiare un altro birillo sul campo. Ne ha già piazzati qua e là una ventina, lungo tutto il perimetro, formando una ragnatela di plastica gialla e rossa comprensibile a lui soltanto. Andrebbe ricercato un senso gnoseologico, invano. Fermo da più di un anno, al primo allenamento Delio si è presentato con la tuta sgualcita e la t-shirt bianca. Il cappellino sulla testa sembra la mitra papale, il fischietto un rosario. “Forza, dài, muovete quel culo”, dice ai giocatori. Sarà una settimana lunghissima.

Appena un’ora prima lo avevano condotto in sala stampa. Delio aveva risposto con la pacatezza di un savio alle domande dei cronisti su che cosa lo avesse convinto a scegliere Bologna, perché adesso, a tre partite dalla fine del campionato, e se davvero sperava di riuscire a riportare la squadra in Serie A nonostante il momentaccio. Lui era rimasto in silenzio. Aveva fissato un punto oltre il plotone dei giornalisti, oltre le telecamere pronte a sparare, oltre l’irragionevolezza. Sembrava un Dustin Hoffman appena più spelacchiato e corroso dall’insonnia. «Faremo di tutto, ma io non sono un pranoterapeuta», aveva detto infine allungando le mani sulla platea. Era cominciato l’ultimo stadio della metamorfosi rossoblù, iniziata alcuni mesi prima con l’insediamento di una nuova proprietà, quella di Joey Saputo, poi con la nuova dirigenza, e ora con un nuovo allenatore, Delio Rossi, l’uomo con il compito di centrare la promozione affinché il futuro del Bologna possa uscire dalla polvere. Dovrà prima vincere i play-off di Serie B.

Una città che brontola

Il Bologna dello Scudetto del 1964
Il Bologna dello Scudetto del 1964

Ma bisogna partire da ciò che c’è, per comprendere meglio quel che sarà. L’uomo giusto è Gianfranco Civolani, che qui tutti quanti chiamano Civ e che sotto a una sciarpa di lana grezza indossa un montgomery con alamari di legno, qualche volta anche d’estate. Giornalista, scrittore, vecchio pensatore dal naso adunco su cui si arrampicano volentieri le storie di sport e di vita, Civolani acciuffa un’idea di Bologna. Ci troviamo al bar Mauro di piazza Azzarita, dietro al palazzetto del basket dove gioca la Fortitudo, alle dieci e un quarto. Non prima. «Per dire» racconta stravaccato su una delle sedie in alluminio, «qui abbiamo invaso il campo una volta sola. Era il ’47, Bologna-Brescia. Entrarono in cinquanta e si misero a scherzare coi giocatori. L’arbitrò filò via, ma fu un’invasione al tortellino: non accadde nulla». Bologna è una città pacifica. Fu la prima a liberare gli uomini dalla schiavitù, la prima a creare un’università organizzata, la prima a farla finita con gli orrori della guerra, tra le prime ad accettare le diversità di ogni tipo. E in questo senso di libertà rigogliosa c’è ovviamente lo sport. «Anni Cinquanta, Bologna-Milan. Lo stadio era pieno, c’ero anch’io. Sugli spalti non ci entrava più nessuno e così quelli che non ci stavano sulle tribune erano andati giù, in campo». Civolani era uno dei tremila appollaiati sulla linea del fallo laterale, non si poteva giocare. «Ma l’arbitro Orlandini disse: A Bologna gioco, mi fido dei bolognesi. Vinse il Milan 2 a 1 e non successe nulla».

L’amore furibondo per il Bologna non è mai un amore violento. Prima della partita contro lo Spezia, quest’anno, con la squadra di López in difficoltà e obbligata a vincere per non cedere il secondo posto, la Curva organizza un’adunata strabiliante. I tifosi si erano dati appuntamento per aspettare il pullman sul piazzale e alla spicciolata erano arrivati in più di duemila con le sciarpe, gli striscioni e i petardi. A cinquanta metri dal cancello dell’antistadio l’autobus era stato costretto a fermarsi. «Cosa facciamo?», si erano chiesti da dentro. «Scendiamo». Uno alla volta i giocatori erano stati obbligati a passare in mezzo a un tunnel di gente prima di finire inghiottiti dal nevrotico silenzio degli spogliatoi. Sembrava di vedere uno di quei tapponi di montagna al Giro d’Italia, con i ciclisti irrigiditi nello sforzo e nella concentrazione mentre la folla batte le mani, corre e salta per dargli la forza di non crollare. «C’è voglia di sport» dice Civolani, «e qui ce n’è quanto volete».

Sette scudetti (l’ultimo nella stagione ’63/64), due Coppe Italia, tre Mitropa Cup, un Intertoto e altri (prestigiosi) trofei andati in pensione: Torino, Milano, Genova. Poi Bologna davanti alle altre. Eppure. È una città che brontola, che non si accontenta mai, che borbotta come una pentola di fagioli sul fuoco. Fino a un po’ di anni fa, tra piazza Re Enzo e via Rizzoli, esisteva l’angolo degli imbecilli, dove i perdigiorno trascorrevano le loro ore senza tempo a lamentarsi della tristezza e del meteo. E più in là, in via degli Orefici, il bar Otello era il posto dove la gente, «giorno e notte, notte e giorno» racconta Civolani, non la finiva mai di ciarlare del Bologna. «Finché era in piedi ci andavo anche io» sorride con un sospiro di nostalgia, «era lì che assorbivo le storie più belle».

Un bene comune

Metà ottobre. Joey Saputo si presenta in doppiopetto nel grande salone della Terrazza Bernardini che affaccia sul prato lucido del Dall’Ara. È l’inizio di una nuova, avvincente storia. Il padre di Joey, Lino, ha messo insieme una fortuna con la produzione nel caseario ed è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo. Forbes lo ha messo al numero 289 di questa speciale classifica. Tale padre tale figlio, ovviamente. Tant’è che nel 1992 Saputo fonda una squadra, i Montreal Impact, «il mio gioiellino» l’ha definita l’imprenditore canadese, la stessa che qualche settimana fa ha perso la Champions League CONCAF in finale. Come tutti i sognatori, Joey è un uomo ambizioso, tenace e avaro nelle parole. Ma la prima dichiarazione basta a svegliare dal torpore la comunità di Bologna: «Torneremo in A e faremo grandi cose», dice Saputo. In quei giorni la squadra viaggia a tutta verso la promozione. A giugno, con la proprietà di Albano Guaraldi, l’obiettivo dichiarato erano i play-off. Il direttore sportivo Filippo Fusco, tanto rigoroso quanto creativo, tra mille incertezze aveva messo insieme un buon gruppo di giocatori, un gruppo valido, e per giunta senza spendere un soldo. D’altronde non ce n’erano. Seguendo gli insegnamenti di Jorge Valdano, «la squadra è uno stato d’animo», Fusco era riuscito a dare allo spogliatoio una certa moralità. Niente litigi, coesione, gerarchie precise. A parti i contratti pregressi, fra i nuovi acquisti di Fusco – esclusi i quattro più anziani – nessuno prendeva più di 160mila euro all’anno. E per la panchina era stato scelto Diego López, l’uruguaiano che aveva giocato e allenato il Cagliari, un altro con la voglia di emergere. Così, vuoi l’entusiasmo vuoi le circostanze favorevoli, il Bologna si era messo a volare.

Nasce il nuovo Bologna

E con l’arrivo di Saputo? Il termometro degli umori cittadini è nelle mani di Luca Rizzo Nervo, assessore allo sport del Comune. Ha l’aria gioviale e sincera, e quando parla del Bologna, anche se il ruolo glielo impedirebbe, si scioglie in un sorriso. Da anni non perde una gara, anche da quando è diventato papà. «Saputo non ha portato solo importanti risorse e investimenti, progetti di riqualificazione e rigenerazione urbana, ha portato entusiasmo e la concreta dimostrazione che Bologna è un posto non solo con una bella storia alle spalle, ma con un futuro innovativo che si può costruire», spiega mulinando le braccia. Mentre parla gli occhi brillano come fiamme. Ci tiene a dire che questa è «una comunità in cui identificarsi, è l’orgoglio di andare oltre le stagioni no, i soprusi. Il Bologna è, come i bolognesi, umile per stile, ambizioso per storia e voglia di vincere». Oltre a Saputo nel Bologna, in città arriveranno altri imprenditori (tutti italiani questa volta) e realizzeranno Fico, un grande parco tematico sul cibo e sulla produzione agricola post-Expo. Dietro c’è Farinetti, quello di Eataly, ed è un’occasione di crescita anche per le eccellenze tricolore. Ma è Bologna che sta crescendo, dice Rizzo Nervo, “e la squadra è una risorsa della città. Anzi: è un bene comune».

Cortocircuito

Saputo non perde tempo. I debiti trascinati dalla gestione Guaraldi vengono ripiantai, il bilancio torna in attivo. Pronti via, Joey mette nel club 20 milioni di euro tintinnanti. In più di cento anni di storia del club un aumento di capitale del genere a Bologna non lo aveva visto ancora nessuno. Il giorno che il consiglio di amministrazione lo approva, i rappresentanti delle associazioni dei tifosi – che detengono una piccola (ma significativa) parte delle quote – escono dagli uffici con le guance paonazze e la testa tra le nuvole. «È un miracolo», sorridono. E a quel punto non è strana la scelta di affidare a uomini di fiducia le chiavi della dirigenza. Uno è Claudio Fenucci. Indossa spesso completi grigi o a righe e difficilmente alza il tono di voce. L’amministratore delegato ha avuto un’esaltante esperienza a Lecce, ai tempi di Zeman, poi una alla Roma altrettanto significativa. Fenucci è, all’unanimità, un uomo “preparato e leale”.

Per la parte di responsabile tecnico, invece, viene scelto Pantaleo Corvino. Saputo lo aveva conosciuto a Firenze, una sera al Franchi, a una partita della Fiorentina. I due erano diventati amici e si erano fatti la promessa che un giorno avrebbero lavorato assieme. Quel giorno è arrivato. Ne fa le spese Fusco, che si dimette senza sbattere la porta, e in città naturalmente questo ribaltone non fa che alimentare il brontolio della gente: quelli che stanno con lui e quelli che non ci stanno. Siamo a gennaio, in pieno calciomercato, il momento è cruciale. Il giorno della sua presentazione, Corvino ha la voce rotta dall’emozione: «Per me è un onore essere qui», dice tenendosi una mano sul cuore. Alla conferenza stampa sono venuti giornalisti da tutta Italia, molti da Firenze dove aveva conquistato un posto in Champions League, e sono venuti tutti per lui, nonostante il Bologna giochi la B. Quel giorno di gennaio Pantaleo indossa una giacca scura e la camicia bianca, una sciarpa naïf puntellata di toni pastello gli dà il giusto tocco d’artista. È felice. Aveva lasciato il calcio due anni prima perché la mamma stava male. Ma ora è qui e vuole lasciare il segno. Il primo ostacolo sono le uscite: deve tagliare vecchi e onerosi contratti, prima di comprare. Vende addirittura dodici giocatori. Preceduto dalla sua fama di grande uomo-mercato, di incredibile scopritore di talenti, Corvino scandaglia ogni possibilità di acquisto. Non è facile, la categoria non aiuta. Alla fine, tra mille difficoltà e molti rifiuti, prende cinque calciatori dal curriculum inappuntabile, pedine che in B possono fare la differenza. I parametri non sono gli stessi di giugno: chi arriva vuole ingaggi considerevoli, più alti di qualche mese prima, e adesso sì che si può fare.

Non è detto, non esiste una controprova, ma tutta questa opulenza potrebbe aver creato un cortocircuito all’interno dello spogliatoio. Un paradosso. Fatto sta che sul campo le cose iniziano a non girare. Qualche pareggio di troppo, e il 2 maggio, a Frosinone, il Bologna gioca lo scontro diretto per il secondo posto. Deve vincere, e invece perde male. López, che era stato difeso fino all’ultimo, il giorno dopo la sconfitta, al termine di una notte nerissima, di riunioni e caffè doppi, viene esonerato. Volerà in Uruguay, lasciando dietro di sé solo il silenzio. Al suo posto arriva Delio Rossi. Ma contro il Bologna ci si mette anche il destino. Scivolati al terzo posto – sfruttando i risultati favorevoli che arrivano miracolosamente dagli altri campi – i rossoblù hanno però ancora la possibilità di agganciare l’unico posto libero (il secondo) per la promozione diretta. Bologna-Avellino sarà, di fatto, l’ultima occasione. Due giorni prima avevo incontrato Corvino al campo di allenamento. Ci eravamo salutati separati dalla rete. Alle nostre spalle Delio Rossi intimava ai giocatori di muovere il culo. Io e il direttore tecnico ci eravamo messi a chiacchierare e Corvino mi aveva confessato un certo sincero dispiacere per come si erano messe le cose.

Bologna-Avellino, al minuto 2:30 il rigore sbagliato da Acquafresca

L’Avellino va in vantaggio, il Bologna pareggia. Minuto 20 del secondo tempo, Robert Acquafresca viene steso in aerea: calcio di rigore. Sugli spalti nessuno ci può credere. Per un eterno, irreale secondo, il Dall’Ara ammutolisce. Il Bologna non aveva un rigore a favore da un anno, da trentanove giornate, perché proprio oggi? Acquafresca non segna da settimane, in tre stagioni al Bologna ha messo dentro otto gol in tutto, è lui l’uomo giusto per battere questa sentenza? È di certo l’unico che afferra il pallone e come Sisifo trascina la pietra fino alla vetta della montagna, a undici metri dal sogno: sul dischetto del rigore. L’attimo è solenne. Molti accendono i telefonini, bisogna pur registrare e certificare questo pezzo di storia. Beh? E il lieto fine? Ovviamente l’attaccante sbaglia, e la sorte del Bologna ruzzola di nuovo a valle, giù, fino ai play-off. Viene da chiedersi: se i soldi non fanno la felicità e non bastano a ottenere i successi, a che diavolo servono allora?

Bologna 3000

Forse a progettare un futuro migliore. Il Bologna del Tremila sarà bello e lucente. Tra un mese, dopo i play-off, partiranno i primi lavori di restyling del Dall’Ara. Oggi lo stadio è un posto energivoro e sottosfruttato, i costi superano di gran lunga i ricavi. Così è stato consultato il numero uno del settore, l’architetto Gino Zavanella, che ha già tirato su lo Juventus Stadium e rifarà il trucco al San Paolo di Napoli. Con la promozione in A, il progetto prevede una riqualificazione più strutturata e ampia, con la creazione di un ristorante aperto la sera, negozi e aree per le famiglie. Pure un museo. Come all’estero. «Insomma, un posto per i cittadini, da vivere ogni giorno, portando lì servizi e opportunità oltre il calcio. Un luogo bello, piacevole, attrattivo», dice Rizzo Nervo. Verrà costruito un nuovo centro sportivo con almeno tre campi da gioco, una foresteria scintillante e moderna per la gestione dell’attività giovanile, finora affrontata con sapienza e senza fondi da uno della vecchia guardia, Daniele Corazza.

E comunque, spiega Fenucci strappandosi gli occhiali dal naso, «la strategia si basa su due pilastri fondamentali». Dice: «Il primo è lo sviluppo della parte sportiva da realizzare per gradi, con obiettivi intermedi. Ovviamente bisogna prima tornare in A». Il secondo è legato all’investimento sulle strutture: centro di allenamento e stadio. «La realizzazione di un nuovo impianto o, come possibile, la ristrutturazione del Dall’Ara rappresenta un fattore centrale per la crescita del club», puntualizza l’ad. Per fare tutte queste cose sono già pronti 10 milioni di euro. Si calcola che a fine 2016, tra investimenti portati a termine, quelli da fare e i giocatori, la cifra messa da Saputo potrebbe sfiorare i 100 milioni. Inoltre, come aveva fatto a Lecce con “Salento 12” – che in 11 mesi vendette 33mila t-shirt a 20 euro (minimo), 8.500 felpe (39 euro), per un totale di 100mila articoli in tre campionati – Fenucci seguirà la creazione di un marchio centrato sulla territorialità e l’orgoglio rossoblù. «Vorremmo che il brand venisse percepito come portatore di livelli di eccellenza. Gli stessi dell’Emilia-Romagna», dice.

Good ol’ days: un tributo a Marco Di Vaio con musica tamarrissima

Il Bologna è un’azienda di sessanta dipendenti. Che tuttavia conserva una sua identità precisa. Con Daniele Montagnani, che negli anni Novanta fece grandi cose a Modena nella pallavolo, il gruppo di lavoro al marketing è gestito da Christoph Winterling, tedesco, puntuale, trentanovenne, secondo molti un guru del settore dopo le avventure in Adidas e alla Roma. Di iniziative si occupa invece Mirco Sandoni, l’ex producer della Ballandi Entertainment, quelli dei grandi eventi. A solleticare i primi contatti tra le vecchia e la nuova proprietà era stato Luca Bergamini, portiere della nazionale di calcio a 5 quando era giovane, che in altri tempi ha studiato e vissuto per un anno la cantera del Barcellona, portando poi un progetto digitale per la gestione dell’attività giovanile alla Roma. Probabilmente farà lo stesso a Bologna. Un altro della nuova dirigenza è Piergiorgio Bottai, che ha un lungo passato nel basket che conta. Lentamente si stanno puntellando tutte le aree. C’è persino un call center con due centraliniste, allestito per risolvere i problemi di abbonati e tifosi. Una cosa del genere non l’avevano fatta da nessun’altra parte. Dentro alla fotografia del nuovo che avanza, in questi mesi ci è finito spesso l’avvocato di New York, Joe Tacopina, il presidente, forse la scintilla che ha infiammato tutto questo, un uomo coi capelli pieni di brillantina, appassionato di opera lirica, di calzini multicolor e cravatte di tendenza. In un italiano annacquato al whisky del Connecticut, da dove viene lui, disse alla tv locale: «Voglio morire a Bologna». A questi e altri caratteristi si aggiunge Marco Di Vaio, l’ex bomber che ha giocato nella Juve e anche nei Montreal Impact, il gioiellino di Saputo. A Marco è stato dato il ruolo di club manager, una figura ibrida tra campo e scrivanie.

Il Bologna è anche l’unica società in Italia ad avere un centro per la riabilitazione sportiva certificato dalla Fifa, l’Isokinetic, nello stesso posto dove si allena. Sta lì, girato l’angolo. Alla presidenza onoraria è stato voluto Giuseppe Gazzoni, l’ultimo inventore di sogni, l’uomo che alla fine degli anni Novanta portò a Bologna Roberto Baggio e Beppe Signori. Di recente è tornato allo stadio anche lui, non lo faceva da dieci anni. Fu Calciopoli a distruggere tutto, e i bolognesi furono costretti a immaginare le cose un po’ meno colorate di adesso. È passato. Ora è diverso. Per certi versi questa è una città davvero felice, dai tratti fantastici. Un’isola. Gli studenti che vengono da ogni parte d’Italia e del mondo la popolano e la vivono come un vero e proprio campus universitario, abbandonandola in estate, lasciandola ostaggio dell’umidità soffocante. I bolognesi, invece, la custodiscono con lo stesso amore che serve a proteggere gli ecosistemi fragili. E lo stesso accade con la squadra di calcio, o con il basket, o il baseball portato dagli americani finita la guerra. Dentro a questo grande teatro a cielo aperto, Saputo era l’elemento irrazionale che mancava da anni, una figura mitica al di là dell’oceano, un ricco dall’aria buona, che permette alla gente di alimentare il brusio in sottofondo, quel borbottio quotidiano dentro ai bar, agli allenamenti, allo stadio, ovunque proliferi il germe del calcio. Questo fa bene, fa sognare notti europee e campioni da tramandare. Allungando il passo per continuare il suo viaggio in Italia, lo scrittore portoghese José Saramago rese omaggio alla città: «Bologna è il posto dove dovrei vivere», disse. Fra non molto sarà anche quello giusto per vincere. Serie B permettendo.

 

Nell’immagine in evidenza, i giocatori del Bologna dopo la sconfitta con lo Spezia. Mario Carlini/Iguana Press/Getty Images