Il senso del rugby

Nella popolarità di questo sport c’è qualcosa che non c’entra con la sua essenza. Il sapore vero è fatto di crudezza antica e resistente, autentica, ispiratrice.

Nella popolarità del rugby c’è qualcosa che con l’essenza del rugby non c’entra nulla. C’è un che di vetrina colorata, di retorica trita, di emulazione. C’è un intero repertorio di accessori ovali facilmente accessibili e quindi superflui, persino forzati, un po’ finti. Maglie a righe griffate, birrette ostentate, mode. Luoghi comuni lontanissimi dal baricentro. Un baricentro culturale e individuale, ciò che distingue un buon giocatore, anche se poi in campo non segna una meta mai e poi mai. Perché, contrariamente alle apparenze, alle masse muscolari abnormi e sospette della Coppa del Mondo, al fascino facile del terzo tempo, non è questione di fisico. Macché.

Vince tutto il Tolone. Campioni ingaggiati ovunque. Ma il sapore più forte del rugby francese sta lungo i Pirenei, sta in una crudezza antica e resistente, autentica, ispiratrice. Arrivi in Galles, e i parchi pubblici hanno alberi e pali a forma di “H” seminati in contemporanea: giocano tutti, il sabato, la domenica, circondati da vento, pioggia, buchi da miniera. In Sudafrica: lande sterminate e vuote, spaesamenti da migrazione, da contrasto, arbusti e fortini. In Argentina: beh, certo, ma sì. Pampa e griglie all’aperto per la carne nei giorni di festa. Povertà e rabbia, immigrazione, anche lì. Australia? Ma via, mica Sydney, l’Opera House. Bisogna attraversare quell’immensità, approdare dentro villaggi come avamposti, misurare una consuetudine comunque estrema. Nuova Zelanda. Maori e immigrati, di nuovo, per una miscela che esalta ogni minoranza. Non a caso Georgia e Romania adesso, forze emergenti di questa Europa. Forze emerse da povertà e fame.

La vittoria degli All Blacks nella semifinale del Mondiale, contro il Sudafrica.

Come vanno a scuola i ragazzini inglesi? Come i ragazzini della Nuova Zelanda. Giacca dell’istituto. Cravatta. Kilt per le ragazzine. Il resto sono arpe d’erba, aria potente, allevamenti, terra bassa, ancora oggi. Campi sui quali corrono il peso e il senso di una tradizione che ha radici profondissime. Gli ingredienti comprendono sobrietà ed educazione, senso del dovere e rispetto dell’autorità. Un sistema dettato da scale di rapporti di forza simili a linguaggi. Ciò che è servito per segnare un confine tra indigeni ed emigrati, ciò che ha comportato una difficile integrazione, ciò che ha permesso agli inglesi di sentirsi padroni, di comportarsi da padroni. Ciò che è servito e serve ai Gallesi, agli Irlandesi per combatterli, per segnalare una diversità e una ribellione.

Il giro del mondo ovale permette di procedere per associazioni non solo mentali. Segnala condizioni propizie alla diffusione di uno sport che pretende moltissimo e rivela alla stessa stregua. Rugbisti naturali, prima che giocatori di rugby. Gente tosta perché cresciuta con poco, sul duro. E poi gente che riconosce il valore delle regole, non le infrange facilmente. Non le infrange mai. Persone che stanno al gioco, piuttosto. Che imparano a giocare, a praticare tre verbi fondamentali. A scuola, sul lavoro, ovunque. Indispensabili per vivere insieme agli altri e poi, eventualmente, naturalmente, per il rugby. Appartenere. Sostenere. Condividere. Non tutti gli uomini che considerano tutto ciò come fondamentale giocano a rugby. Di sicuro ogni buon rugbista sa di cosa si tratta. Che vinca o meno.

Rugbisti naturali, prima che giocatori di rugby. Gente tosta perché cresciuta con poco, sul duro

Da qui, le difficoltà italiane. Rugbistiche, ovviamente, ma non solo. Perché lo scarto non lo misura semplicemente un punteggio al termine della partita, ma una cultura, la nostra, assai tollerante in termini di rispetto delle regole, molto lassa in termini di resistenza al dolore, molto blanda in termini di astensione dai vizi. Così, pensando al rugby in Italia, considerando il valore non solo sportivo del rugby, viene da pensare a una dimensione molto lontana da quella del 6 Nazioni o della Coppa del Mondo. Bene, certo, serve tutto, aumenta la popolarità, il numero dei tesserati eccetera eccetera. Ma il buon uso del rugby da tutto ciò si discosta, addirittura ha bisogno di allontanarsi, per maneggiare significati più utili, più complessi e profondi, abbinati all’educazione.

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L’oro ovale sta dove una quantità enorme di educatori, di allenatori autenticamente appassionati lavora ogni giorno. Sta nelle scuole, nelle periferie, nelle carceri, nei club. Sta nel minirugby, soprattutto (6-12 anni), vale a dire nei pressi di una età che permette di apprendere e assorbire. Non tanto la tecnica dei placcaggi, la qualità individuale, ma il silenzio in campo, il sostegno a chi resta indietro, la condivisione di una fatica, il significato di un sacrificio a fondo apparentemente perduto, l’orgoglio di appartenere a una famiglia formata da bambini e poi da ragazzi e poi da uomini simili a te. In campo e fuori.

Il rugby rivela. Permette di distinguere all’istante coraggio e paura. Cuore e pancia. Testa e nervi. Segnala predisposizioni e resistenze. Ed è per questo uno straordinario strumento formativo, a patto che vengano messi a tacere genitori con la mania delle partite da vincere, tecnici che valutano i bambini in base alla prestazione, club che pensano ai campioni e non alle persone. In questo modo è possibile che accadano moltissimi miracoli. È possibile trasferire, giocando, una gamma di valori preziosi che scandiscono un destino individuale e manifestano una differenza. A scuola, al lavoro e quindi in campo, di nuovo.

Il rugby rivela. Permette di distinguere all’istante coraggio e paura. Ed è per questo uno straordinario strumento formativo

I ragazzi che giocano a rugby dentro l’Istituto Penale Minorile Beccaria (il progetto è portato avanti dall’AS Rugby Milano da 9 anni) hanno a che fare per la prima volta nella loro vita con uno sport di combattimento basato sulla gestione dell’aggressività. Si tratta spesso di una esperienza inedita, per molti versi. Ragazzi che non gestiscono affatto i propri nodi emotivi, per nulla abituati a contare sugli altri, a fare per gli altri. Soli e inascoltati. Spaventati e per questo aggressivi. Cominciano a giocare e accade qualcosa di meraviglioso. Si accorgono, semplicemente, di quanto sia impossibile avanzare senza aiuti. Di quanto sia impensabile contribuire senza farsi il mazzo. Di quanto possano ricevere donando. Giocano e si rivelano, appunto. Sbocciano come fiori coloratissimi.

Accade lo stesso con i bambini, con i giovani, dentro un club votato alla formazione. Interessato a responsabilizzare i più dotati affinché sostengano i compagni meno brillanti. Un club interessato a formare una mentalità autenticamente disposta e quindi un gruppo, una squadra. Che, guarda caso, diventerà forte. Più forte di ogni altra. Basata su amicizia e sul rispetto. Basata su una autenticità che non prevede sconti. A quel punto il rugby può anche diventare un passatempo, un hobby, può persino scomparire. Ha già compiuto un itinerario che porta all’eliminazione della fuffa, delle scorciatoie, delle furbate. Uomini, se possibile, migliori.

Australia v Scotland - Quarter Final: Rugby World Cup 2015

Non si tratta, ovviamente, di considerare questo sport come l’unica forma propedeutica a una qualità. Di certo il rugby fa la sua parte. La fa, paradossalmente, senza considerare il successo agonistico come fine. Casomai si tratterà di una conseguenza. Tenendo in considerazione ciò che può arrivare grazie a una esperienza comunitaria così intensa. Amicizia. Senso di responsabilità connesso ai doveri di chi ha il privilegio di poterli praticare. Dentro un contesto sociale (luogo di lavoro, scuola, città, Stato) che spesso funziona in maniera diversa, persino opposta. Non importa. È una occasione da cogliere, ecco. Che richiede impegno e fatica come ogni schema rigido. Perché serve guadagnarsi il pane per mangiare di gusto. Serve meritarsi ogni gioia. Il che, per molti versi, non ha bisogno di alcuna ribalta. Non ha bisogno di denaro, di alcuna mercificazione. Il problema è che la mentalità richiesta, da queste parti, non è di moda affatto, non pare aderente a una cultura assai diffusa e dominante, non prevede scorciatoie, sconti, furbate. Segna una distanza per molti versi incolmabile tra il rugby come gioco da osservare con curiosità e persino ammirazione e la pratica vera e propria, con le sue fatiche consuete, con il suo rigore.

Al rugby, ai veri rugbisti, come sappiamo, come vediamo guardando altrove, basta poco. In un rigore essenziale cresce meglio. Domeniche fangose, docce non sempre calde, una birra e un piatto di pasta come premi partita. Il resto, semplicemente, è superfluo. Disturba, distrae, rende flaccida ogni anima. Non attrae affatto perché non è questione di 80 minuti, non è nemmeno questione di un pacifico e godereccio terzo tempo. Tocca continuare: la partita – per fortuna o per disdetta – dura una intera esistenza. 

 

Nell’immagine in testata, il neozelandese Tawera Kerr-Barlow, durante i quarti di finale della Coppa del Mondo contro la Francia. Laurence Griffiths/Getty Images