Lo statalismo a zona

Se il Belgio ha costruito una generazione di talenti, il merito è di Michel Sablon: ha imposto a club e scuole regole precise, a cominciare dal modulo.

In quel backstage del calcio mondiale che sono i settori tecnici delle nazionali, un microcosmo popolato da uomini di mezz’età con uno stemma federale cucito sul taschino, quello del belga Michel Sablon è un nome che conta. Sablon – 67 anni, capelli bianchi, viso rotondo e lo sguardo affabile ma all’occorrenza sornione delle borghesie francofone – viene infatti indicato tra i principali artefici dei recenti successi della selezione belga giunta ai quarti di finale del Mondiale brasiliano (sconfitta 0-1 con l’Argentina, gran gol di Higuain), secondo miglior risultato di sempre per una Nazionale che oltretutto mancava del tutto dalla competizione da dodici anni.

La generazione dorata degli Eden Hazard, Vincent Kompany, Marouane Fellaini, Kevin De Bruyne eccetera peraltro non è la prima a essere in qualche modo legata alla figura di Sablon. Questo mediocre ex giocatore del KHO Mechtem, defunto club delle serie minori belghe, infatti era in panchina, in qualità di assistente dell’allenatore Guy Thys, già al Mondiale di Messico ’86, quando un Belgio guidato dal carisma di Jan Celeumans e dalla classe dell’astro nascente Enzo Scifo raggiunse la semifinale del torneo, uscendo anche in quell’occasione per mano dell’Argentina, eliminato da una doppietta di Maradona.

Mondiali 2014: il Belgio batte 2-1 gli Stati Uniti e passa ai quarti.

Quel quarto posto (i belgi poi persero anche la finalina 4-2 con la Francia), che rappresenta tuttora il miglior piazzamento del Belgio a un Mondiale, e quella squadra sono rimasti a lungo nella leggenda del calcio belga. Una sorta di metro di paragone inavvicinabile per tutte le generazioni successive, distintesi meno per i successi ottenuti che per le brutte figure rimediate. Su tutte l’uscita al primo turno di Euro 2000, di cui il Belgio era paese ospitante in coabitazione con l’Olanda.

Dopo quell’umiliazione, ancora più sentita perché patita in casa propria, i vertici della federazione calcistica belga (KBVB o URBSFA a seconda che si usi l’acronimo fiammingo o quello vallone) decisero che era arrivato il momento di voltare pagina, di avviare una vasta riforma del proprio sistema calcio, dai settori giovanili alla nazionale maggiore passando per i club.

In qualità di direttore tecnico allora in carica, Sablon era l’uomo giusto al momento e nel posto giusto. Per prima cosa Michel decise di investire gli utili dell’Europeo appena organizzato nella costruzione di nuove strutture federali, come “Le Centre National” di Tubize, una località vicino a Bruxelles dove vengono formati e aggiornati i componenti di tutti gli staff tecnici della federazione e si offrono corsi gratuiti per aspiranti allenatori. Dopodiché si presentò all’Università di Leuven, una delle più antiche e prestigiose del Belgio, con 1.600 ore di filmati di partite 11 contro 11 dei settori giovanili e una richiesta per i ricercatori: studiare quante volte, in media, un bambino toccava la palla in una singola partita (risposta: tra le 15 e le 20). «Eravamo pazzi, non ci fermavamo mai. Iniziavamo al mattino e finivamo di notte. Ogni giorno, sabato e domenica inclusi» ha raccontato Sablon al reporter di Grantland Sam Knight poco prima dei Mondiali.

Qualificazioni a Euro 2016: Belgio-Israele 3-1.

Un approccio scrupolosamente analitico che ha dato i suoi frutti. Incrociando le informazioni così ottenute, Sablon e i suoi sono giunti alla conclusione che il calcio praticato nelle accademie non offriva ai giovani talenti la possibilità di affinarsi tecnicamente. Troppi pochi tocchi di palla, troppo poco coinvolgimento nel gioco, un eccesso di tattica e difensivismo già a un’età in cui questo sport dovrebbe significare soprattutto divertimento e arricchimento del proprio bagaglio tecnico.

Per cambiare la situazione Sablon preparò e fece stampare un voluminoso opuscolo da distribuire ad accademie e club. Conteneva un decalogo di indicazioni da rispettare. «All’inizio – ha ricordato il diretto interessato qualche mese fa – non fu facile convincere le squadre a seguire le nostre istruzioni ma con il tempo le cose migliorarono e ormai si può dire che il 95% dei club sia con noi, anche perché hanno visto che i risultati ci hanno dato ragione».

Sablon distribuì ad accademie e club un opuscolo contenente un decalogo di indicazioni da rispettare

Il decalogo, intitolato in francese La vision de formation de l’URBSFA e che Sablon iniziò a distribuire nel 2006, consisteva di alcune semplici ma drastiche modifiche ai metodi di insegnamento ai più giovani, in vista non solo di un maggior affinamento delle loro abilità tecniche ma anche di una uniformazione dei sistemi di gioco e di allenamento a tutti i livelli, dalle società di club alle rappresentative nazionali, e a tutte le età, dai pulcini ai professionisti. Tra le novità più sostanziali introdotte dalla “cura Sablon” c’era (e permane) ad esempio l’obbligo per tutti i settori giovanili di sostituire le classiche partite 9 contro 9 o 11 contro 11 con partitelle 5 contro 5 fino ai 7 anni e 8 contro 8 fino ai 10; in modo che i giovani calciatori fossero costantemente nel vivo del gioco e si abituassero a giocare in spazi ristretti.

Sablon impose inoltre che tutte le scuole pubbliche, le accademie nazionali e i settori giovanili dei club, dai più prestigiosi alle squadrette di paese, facessero giocare le proprie formazioni fino alla Primavera con lo stesso schema, un 4-3-3 aperto e offensivo che ponesse enfasi sullo sviluppo di centrocampisti abili nella gestione della palla e di ali larghe, veloci e dotate nel dribbling e nelle situazioni di 1 contro 1. «Fu un cambiamento drastico» rispetto al 4-4-2 e al 3-5-2 molto difensivi e contropiedisti che si praticavano all’epoca – ricorda Bob Browaeys, allenatore della Under-17 belga – «ma ritenevamo che il 4-3-3 fosse il modulo migliore per sviluppare la tecnica individuale» e fare sì che i giovani crescessero giocando un calcio coinvolgente e ricco di occasioni da gol, in cui vittoria o sconfitta erano secondarie rispetto al divertimento.

«Le nostre giovanili giocano aperte, attaccano sempre, certo perdono anche molto per questo motivo, ma a quell’età non è un problema», ha dichiarato Sablon sempre a Grantland. La cosa più importante infatti, come ha sostenuto nuovamente Browaeys in un’intervista concessa al Guardian «è l’identità e lo sviluppo dei giocatori. Il nostro obiettivo finale era utopico fin dal principio: creare squadre in grado di esercitare il controllo assoluto di una partita, il 100% del possesso palla».

«Ritenevamo che il 4-3-3 fosse il modulo migliore per sviluppare la tecnica individuale»

Ovviamente in queste parole non si può fare a meno di avvertire l’eco di altre grandi scuole di pensiero calcistico più o meno recenti, su tutte ovviamente la vicina tradizione olandese che, dal settore giovanile dell’Ajax al calcio totale degli Orange anni ’70, è giunta fino al Barcelona dell’asse Cruijff – Van Gaal – Rijkaard – Guardiola. Un debito concettuale che Sablon non ha mai cercato di dissimulare e anzi ha scelto di esplicitare fin dal nome del suo “sistema”, riassunto dall’acronimo G – A – G che sta per Globale – Analitico – Globale, al cui interno peraltro si nasconde l’adesione a un altro modello d’importazione: quello francese.

Se infatti la prima G di Globale fa riferimento ai principi più celebri della scuola olandese, quelli da instillare nei giocatori fin dall’infanzia, e ovvero predominio della tecnica, gioco a zona, attacco e divertimento come fine ultimo, la A di Analitico fa riferimento ai valori della scuola francese degli anni ’90, quella che ha prodotto la Francia degli Zidane, Henry e Thuram campioni del Mondo nel ’98 e d’Europa nel 2000 e ovvero rispetto del multiculturalismo dello spogliatoio, forza fisica e disciplina tattica.

Nell’idea di Sablon si tratta di precetti da insegnare più avanti nello sviluppo dei giovani calciatori, all’incirca all’ingresso dell’adolescenza, per il valore che rivestono sia sul piano della formazione agonistica sia su quello della crescita personale. Questo è ovviamente il caso dell’enfasi posta sul riconoscimento e il rispetto delle differenze culturali, particolarmente importante in un paese come il Belgio dove, negli stessi anni in cui Sablon implementava le sue riforme, le divergenze tra la componente fiamminga e quella vallone hanno rischiato più volte di dividere letteralmente il paese e trasformarlo in una confederazione di stati autonomi a base etnico-linguistica.

Un montaggio emozionale della gara del Belgio contro la Bosnia dello scorso settembre.

Per questo motivo anche sul piano extra-sportivo è rilevante la recente passione scatenata da una Nazionale che nel difensore e capitano Vincent Kompany ha trovato un leader poliglotta (parla 5 lingue), apertamente engagé sul tema della difesa dell’unità nazionale e che, tramite campioni figli di immigrati di prima o seconda generazione cresciuti in alcuni dei ghetti più poveri del paese, come il “marocchino” Fellaini o i “congolesi” Lukaku e Benteke, offre all’opinione pubblica, sempre più polarizzata su questo tema, esempi d’integrazione virtuosa da contrapporre alla retorica su delinquenza e degrado.

E sta proprio qui il senso dell’ultima G nell’acronimo scelto da Sablon per definire il nuovo corso del calcio belga. Quel secondo Globale che significa: sintesi del meglio che hanno da offrire i pensieri calcistici olandese e francese per poi riproporli al mondo in salsa belga. Che poi indirettamente è anche un modo di affermare che se le due principali componenti culturali della società belga – fiamminga/olandese e vallone/francese – riescono a convivere serenamente, il Belgio può ambire a essere, anche al di fuori del terreno verde, più di un piccolo mosaico di lingue e territori nel cuore dell’Europa. Come ha dichiarato Vermaelen a un reporter di Esquire: avere nella propria squadra/paese persone che provengono dall’altra parte del mondo fa sembrare le piccole lotte tra campanili vagamente assurde e grottesche.

Nonostante l’ottimo Mondiale brasiliano dei “Diavoli Rossi” abbia in gran parte validato il suo progetto, Sablon, che nel frattempo ha lasciato il suo incarico nel 2012, sembra refrattario alla ribalta e prima del Mondiale ha candidamente ammesso che, per quanto la progettazione incida, per creare dal nulla una “generazione dorata” è necessaria anche molta fortuna. E in effetti, a voler essere pignoli, si potrebbe fare notare come alcuni dei migliori prospetti del Belgio attuale in realtà fossero già troppo maturi all’epoca dell’implementazione dei metodi di Sablon perché questi possano avere un impatto davvero determinante sul loro sviluppo. Oppure si potrebbe ricordare come, in fondo, il primo grande successo di questa generazione di calciatori belgi, la vittoria dell’Europeo Under-17 nel 2007, con in campo Hazard e Benteke, sia arrivata nel 2007, ovvero quando la cura G.A.G. era iniziata da appena un anno. O, infine, si potrebbe sottolineare come  molti di questi giocatori abbiano lasciato il Belgio molto giovani e in realtà siano maturati come professionisti all’estero e specialmente in Ligue 1 francese e Premier League, due campionati «che ti insegnano a giocare un calcio rapido e offensivo», come ha dichiarato Eden Hazard in un’intervista concessa a So Foot.

Gol a raffica in allenamento.

Si potrebbero sollevare questi e altri scetticismi, queste e altre obiezioni più o meno sensate sul reale impatto del lavoro di Michel Sablon, senza peraltro riuscire a sminuire di una virgola l’ambizione e la serietà del progetto. Si potrebbe, insomma, andare avanti anni a discutere se questo nuovo Belgio sia più il frutto di un lungo lavoro di preparazione o di una serie di fortunate coincidenze. Ma sarebbe una di quelle discussioni sterili su cui il nostro calcio si avviluppa ormai da troppi anni per non dover cambiare concretamente il sistema. Perché la verità è che con i se e con i ma non solo non si fa la storia. Non si vincono nemmeno le partite di calcio.

 

Nell’immagine in evidenza, la Nazionale del Belgio festeggia la qualificazione a Euro 2016 dopo aver battuto Andorra 4-1, lo scorso 10 ottobre. David Ramos/Getty Images