La miseria di Den Haag

Una volta club glorioso, oggi ostaggio di una proprietà assente e di una tifoseria violenta e razzista. Il racconto delle contraddizioni dell'Ado Den Haag.

Den Haag è miseria e nobiltà. Den Haag è la città dei reali d’Olanda da quasi 200 anni, e porta tracce del suo sangue blu già nel nome, contrazione di des Graven ha(a)ge, il bosco (Haag) del Conte (Graaf), con antiche vie del centro storico – precisamente Molenstraat e Oude Molstraat – il cui andamento serpeggiante testimonia le loro origini, essendo state un tempo sentieri che attraversavano dune di sabbia. Ma oltrepassati i giardini, le regge, le dimore signorili e i cortili, ci si può imbattere nello Schilderswijk, versione olandese dell‘ormai famigerato quartiere di Bruxelles, Molenbeek, e definito dal De Telegraaf, in un agghiacciante reportage dell’agosto 2014, «il peggior posto in cui vivere nei Paesi Bassi». Facile intuire come procedano le cose in questa terra di nessuno abitata oramai solo dall’8.5% di popolazione olandese autoctona. Miseria e nobiltà sono due parole che stanno bene anche associate alla squadra di calcio cittadina del Den Haag, l’ADO – acronimo di Alles Door Oefeningen, tutto attraverso l’allenamento – nonostante i tratti da grandeur del club giallo-verde siano sbiaditi da tempo.

Fino al termine della Seconda Guerra Mondiale, Den Haag ha dominato il calcio olandese, con 14 i titoli vinti tra il 1897 e il 1944 dalle squadre della città (HVV, HBS, Quick e ADO) contro i 10 di quelle di Amsterdam (RAP, Ajax e De Volewijckers) e Rotterdam (Sparta e Feyenoord). Poi è finito tutto, e ricordare i due campionati vinti dall’ADO (’42 e ’43) in molti provoca anche fastidio, visto che quella era una squadra dalle marcate connotazioni naziste, con giocatori quali l’ala destra Gerrit Vrenken che si recavano allo stadio vestendo la divisa nera del NSB, il partito nazional-socialista olandese. Una miseria sportiva attualmente in essere da quarant’anni – con l’eccezione della stagione 2010/11, della quale si parlerà in seguito – e che sembrava destinata a cessare quando sull’ADO ha messo gli occhi la United Vansen International Sport, società attiva nel settore dell’organizzazione, promozione e gestione di eventi sportivi fondata dell’avvocato Hui Wang nel 2008, ottenendo subito l’incarico di organizzare la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Pechino. Anche le tre edizioni della Supercoppa italiana disputate a Pechino portano il marchio United Vansen. Referenze ritenute solide dall’amministrazione di Den Haag, proprietaria del Kyocera Stadium e in possesso di un golden share sull’ADO che le permette di bloccare l’acquisto di quote del club in presenza di un altro acquirente disposto a pagare la stessa cifra del compratore “sgradito”.

ADO Den Haag v PSV Eindhoven - Dutch Eredivisie

I soldi di Wang sono veri, ma il problema è un altro: sono pochi, e lo si è capito quando la deadline per la formalizzazione dell’acquisto è slittata cinque volte tra l’estate 2014 e il gennaio 2015, quando è stato finalmente ufficializzato, per poco più di 9 milioni di euro, l’acquisto del 98% delle quote dell’ADO Den Haag alla United Vansen. «Mai sentita nominare», si era sentito rispondere l’inviato a Pechino del quotidiano De Telegraaf alla portineria del palazzo dove avrebbe dovuto esserci la sede societaria. Questo non è l’unico mistero che ha circondato la proprietà cinese nei suoi primi 18 mesi di permanenza nella città reale. Hui Wang esiste davvero, lo si è visto più volte sulle tribune del Kyocera Stadion, ha regalato le tipiche sparate da nuovo proprietario (ADO ai vertici d’Olanda e in pianta stabile nelle coppe europee, ecc.) e una volta si è addirittura allenato con la prima squadra.

Sono però altri i tipi di assenza che creano inquietudine tra il popolo dell’ADO. Manca una strategia, i soldi arrivano con il contagocce, spesso fuori tempo massimo, e in società latita la trasparenza. Due i casi emblematici. Lo scorso novembre fu annunciato l’arrivo di Gao Hongbo in qualità di vice-allenatore. Ex ct della Cina, ma anche personaggio controverso per via di un suo coinvolgimento in uno scandalo di partite truccate in patria, la sua nomina non ha provocato salti di gioia per l’entusiasmo né nell’opinione pubblica, tantomeno nell’attuale tecnico dell’ADO Henk Fraser, che non ha esitato a dichiarare di non essere mai stato informato del suo arrivo. Gao Hongbo non si è mai fatto vedere in campo, frequentando solo «uffici e piani alti» (così Fraser), per poi fare rientro in Cina.

L’ultima gara del Den Haag: vittoria per 2-0 sul Feyenoord

Caso chiuso, anche perché le attenzioni si sono nel frattempo rivolte al caso Martin Jol, icona del club in virtù del suo passato di allenatore. All’ex allenatore del Tottenham è stato infatti impedito, attraverso un cavillo burocratico, di sedere nel Consiglio dei Commissari (RVC) del club in qualità di rappresentante della società amatoriale HFC Ado Den Haag. Uno stop significativo, perché questa piccola società sportivo-culturale, come previsto dallo statuto dell’ADO, è azionista di minoranza del club e possiede diritto di veto su particolari questioni societarie, quali ad esempio il cambio dei colori sociali del club, o l’adozione di un nuovo logo. L’RVC ha funzioni di controllo, ma la mancanza di un membro effettivo ne rende impossibile la convocazione.

A livello societario l’ADO è diventato muro di gomma, Wang non concede interviste e le posizioni dirigenziali sono tutte occupate da uomini di sua fiducia, di fatto uno stuolo di signorsì. In campo la squadra galleggia ai margini della zona retrocessione, e a dispetto di Stekelenburg e altri ex nazionali promessi alla vigilia per gettare le basi di una nuova squadra di respiro internazionale, il mercato ha finora portato elementi (Havenaar, Duplan, Schaken) utili per una salvezza tranquilla e nulla più. Ecco quindi, a inizio gennaio, l’iniziativa del tifo organizzato che ha inviato una missiva al businessman cinese invitandolo a scucire i soldi o, in alternativa, a fare la valigie. Nelle rare occasioni in cui si è concesso alla stampa, rigorosamente cinese, Wang ha parlato di ripensamento delle proprie strategie, lasciando chiaramente intendere che i soldi investiti sono i suoi e pertanto non deve rendere conto a nessuno circa le proprie intenzioni. «Probabilmente il signor Wang non si rende conto del luogo in cui è capitato», ha commentato Dick Advocaat, che da giocatore ha iniziato la propria carriere nell’ADO. «A Den Haag se dici bianco è bianco, se dici nero è nero. Qui la gente è fatta così. Se uno dice che investe, poi lo deve fare».

Ajax Amsterdam v ADO Den Hagg - Dutch Eredivisie

A un secondo livello di lettura, l’affermazione di Advocaat sul non sapere dove essere capitato riguarda non tanto – o non solo – la città, quanto i tifosi. I più violenti d’Olanda, al cui confronto quelli del Feyenoord che hanno devastato Roma la scorsa primavera fanno la figura dei boy scout. Negli ultimi trent’anni, l’ADO è finito in cima ai notiziari calcistici quasi esclusivamente per i comportamenti delle frange più radicali del proprio tifo, a partire dal 1982 quando lo Zuiderpark, il vecchio stadio, venne dato alle fiamme dopo la retrocessione in Eerste Divisie, la B olandese. A metà anni 80 i reiterati comportamenti violenti dei tifosi avevano spinto la Federcalcio oranje a studiare un provvedimento per l’esclusione dell’ADO da tutte le competizioni per almeno una stagione. Nel 1986 il clima che accolse a Den Haag l’Ajax – gli acerrimi nemici dei giallo-verdi – era talmente intimidatorio che le forze dell’ordine imposero all’arbitro di sospendere l’incontro, con vittoria poi assegnata a tavolino agli ajacidi. A fine stagione però l’ADO retrocesse e risolse, almeno temporaneamente, la questione legata alla sospensione. Il 6 maggio 2002 l’omicidio del politico populista Pym Fortuyn portò al tentativo di assalto alla sede del parlamento olandese da parte di centinaia di tifosi dell’ADO, ma lo stato di shock nel quale cadde il Paese (era il primo assassinio di natura politica nella storia dei Paesi Bassi) cancellò qualsiasi ipotesi di provvedimento.

Il 16 ottobre 2004 ADO-PSV è stata la prima partita in Olanda a essere stata sospesa per cori razzisti e antisemiti, incrementando ulteriormente l’aura negativa gravitante attorno al club, che si trovò a giocare con la maglia senza sponsor a causa della rescissione immediata del contratto da parte dell’agenzia assicurativa SR Zorgverzekeraar, spaventata dalle conseguenze negative derivanti dall’accostamento del proprio marchio a quello dell’ADO. Nella stagione 2010/11, contro ogni pronostico, l’ADO si è reso protagonista di un campionato straordinario sotto la guida di John van den Brom, piazzandosi al quinto posto e qualificandosi alle coppe europee dopo 23 anni di assenza. Ma anche in quell’occasione il lato oscuro dell’ambiente non ha mancato di manifestarsi. Dopo aver espugnato il campo dell’Ajax per la prima volta dal 1986, nel corso di una festa organizzata dai tifosi con i propri beniamini un cellulare riprese giocatori e allenatore intonare a squarciagola cori quali «Noi andiamo a caccia di ebrei» e «Hamas Hamas, gli ebrei nelle camere a gas». Scoppiò l’ennesimo polverone: l’under 21 Charlton Vicento venne escluso dalla Nazionale, Lex Immers – stella della squadra, logo ADO tatuato sulla schiena, un flirt estivo con il Chievo non concretizzatosi – se la cavò con una multa, Van den Brom venne pesantemente censurato per il proprio comportamento, davvero di raro squallore (ex giocatore e allenatore del’Ajax, aveva insultato gli ebrei per deridere il suo ex club). E anche in quell’annata speciale lo spicchio di nobiltà ritrovata è stato ricoperto da chili di miseria.

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Lo scorso 17 gennaio il libro nero del tifo di Den Haag si è arricchito di un’ulteriore pagina. In cartellone c’era il solito match ad altissima tensione tra ADO e Ajax, e questa volta il bersaglio è stato il 19enne mediano Riechedly Bazoer, uno dei giocatori più forti e talentuosi non solo della compagine ajacide ma dell’intero campionato olandese, e pertanto – in virtù di tale status – nemico pubblico numero uno delle frange più radicali dei supporters giallo-verdi. Cori razzisti, versi di scimmia, insulti alla madre del giocatore e bordate di fischi a ogni suo tocco di palla (ma anche allo speaker dello stadio che aveva invitato i tifosi a cambiare atteggiamento). L’immagine di Bazoer che esce dal campo consolato dal tecnico dell’ADO Fraser dice più di mille parole. Quelle sono arrivate nel post partita, svariando dalla minaccia di sanzioni fino all’eventuale procedimento penale che potrebbe aprire il Pubblico Ministero Governativo dopo l’acquisizione delle immagini del match. Appuntamento alla prossima puntata.

I fischi a Bazoer durante la gara contro l’Ajax

Post scriptum: una precisazione sull’antisemitismo nelle curve olandesi

La storia della questione antisemita negli stadi olandesi nasce da un clamoroso falso storico che vuole l’Ajax club dalle radici ebraiche. Diverse pubblicazioni, tutte piuttosto recenti, hanno dimostrato l’infondatezza di questo legame. Tra le migliori è giusto ricordo ricordare l’ottimo Ajax, la squadra del ghetto di Simon Kuper, nel quale si legge che «quando nell’autunno del ’41 venne imposta l’espulsione degli ebrei dagli organi dirigenti di ogni associazione non ebraica, le società sportive si adeguarono celermente, con poche eccezioni. E così lo storico dell’Ajax Evert Vermeer può scrivere che lo strazio della guerra fu relativamente contenuto in casa ajacide, in quanto non ci furono morti da piangere tra i membri. Ma si tratta di un truismo. Se non ci furono morti da piangere tra i soci dell’Ajax fu solo perché gli ebrei erano stati espulsi dalla società nel 1941 e perciò non erano più soci dell’Ajax quando furono eliminati nelle camere a gas dei campi di concentramento». Un falso mito, quello dell’Ajax ebraico, tuttora parecchio in voga, specialmente tra i tifosi ajacidi, tanto che è tutt’oggi comune vedere la bandiera israeliana sventolata dagli spalti dell’Amsterdam ArenA. Ma al preciso scopo di far cessare i cori antisemiti tra le parti più becere delle tifoserie rivali, già da diversi anni l’Ajax ha pubblicamente preso le distanze dalla propria immagine di “club ebreo”. Una decisione triste in un contesto ancora più deprimente.

 

Nell’immagine in evidenza, l’ingresso del Kyocera Stadium con lo stemma del club in evidenza. Dean Mouhtaropoulos/Getty Images