La squadra dell’arte

L'A.S. Velasca è un club che ama l’arte, ma non una squadra di artisti. Una giornata passata con loro a Milano.

Esco di casa appena dopo pranzo, il sole è alto, fa caldo e Milano ha la temperatura della città che salutando la primavera sta abituandosi a un’estate che sembra arrivata in anticipo. Mentre cammino per raggiungere una metropolitana deserta, in una domenica di calcio che per me sarà diversa, posso sentire le gocce di sudore formarsi nello spazio tra la schiena e il sintetico della mia maglietta. Riesco a percepire la stessa eccitazione di quando a calcio giocavo anch’io, camminando verso la sede dell’A.S. Velasca, rivivo i pomeriggi passati a pulire scarpe col grasso, a bagnarmi la faccia per combattere il caldo. Il calcio ha sempre rappresentato per me un farmaco lenitivo, un palliativo alle paure. Giocarlo o guardalo in tv può donarmi una forma di serenità pura. Dev’essere per questo che non vedo l’ora di arrivare: anche se non sarò io a giocare, essere a pochi passi da un campo mi rasserena.

La sede del Velasca è in zona Zara, non molte fermate da dove sono partito ma il giusto tempo per riprendere il filo delle domande che mi giravano in testa: mi accorgerò poi che non ce ne sarà bisogno. La sede, in realtà, è una stanza all’interno di una bella villetta a due piani. Una volta entrato nel giardino di Wolfgang Natlacen, il presidente del club, trovo lui e il vice-presidente Loris Mandelli ad accogliermi. Mi aspettavo un’atmosfera più formale, invece rimango stupito dalla facilità con cui cominciamo a parlare senza che abbia nemmeno preso a registrare. Loris rende subito chiaro un concetto semplice: il Velasca è un club che ama l’arte, ma non è una squadra di artisti. Il capitano del club revisiona caldaie e l’amore per l’arte, in ogni sua forma, non è un obbligo né un requisito preferenziale per poter giocare. Per far parte del Velasca devi, semplicemente, saper giocare al calcio.

 

La stanza in cui sono custodite tutte le opere appartenenti al club è al secondo piano. All’interno regna uno splendido caos organizzato che rende la stanza una piccola Wunderkammer, colma di meraviglie. Wolfgang, che insieme a Loris e altri tre soci italo-francesi (il club ha una sede a Milano e una a Parigi) ha fondato il club intorno all’ottobre del 2014, comincia a mostrare il progetto e alcuni dei frutti nati dall’inizio del percorso. Ogni anno il Velasca sceglie un artista che realizza quello che sarà lo sponsor del club: non le solite macellerie o autofficine, ma un’opera unica su maglie in tiratura limitata a 200/300 esemplari: dalla serigrafia con mattone forato, realizzata l’anno scorso da Regis Sénèque, si è passati alla colata di Zevs che richiama i loghi dei brand di Inter e Milan. Ogni anno il Velasca organizza delle mostre in giro per l’Europa con le maglie esposte come vere e proprie tele. I giocatori possono sceglierne una da tenere, le altre restano al club: la vendita aiuta a sostenere le spese previste dal Csi, il campionato a cui il Velasca partecipa. È così anche per le sciarpe realizzate da Thomas Wattebled, pezzi su cui compaiono, a tutta lunghezza, scritte non convenzionali come “HIC ET NUNC” o lo “ZANG TUMB TUMB” marinettiano.

«A noi piace che tutto ciò che si esprime dentro e fuori dal campo sia a carattere artistico. Un’azione, o un pallonetto di Savicevic, equivale all’emozione di un amante dell’arte nel guardare una grande opera»

Mentre discutiamo il tempo scorre rapido, Wolfgang e Loris parlano del loro progetto con tanta foga da inondarmi di informazioni, si nota immediatamente quanto abbiano a cuore – e proprio il cuore e la passione hanno portato alla scelta del rosso come colore sociale – che venga fuori tra le parole quell’ossimoro di idee che resiste sotto il cappello del Velasca. Se il calcio «è una forma d’arte in cui tutti i club si limitano al campo, nessuno va fuori», quello che differenzia questi ragazzi è l’approccio extra calcistico. Loris a riguardo ha un’idea molto precisa: «A noi piace che tutto ciò che si esprime dentro e fuori dal campo sia a carattere artistico. Un’azione, o un pallonetto di Savicevic, equivale all’emozione di un amante dell’arte nel guardare una grande opera». Ed è qui che capisci che il Velasca ha un’idea diversa rispetto alle numerose realtà che stanno comparendo nel solco del binomio calcio/arty. Ci sono le opere d’arte, la fascia per il lutto realizzata da Eric Pougeau, la moneta per l’arbitro con il biscione simbolo di Milano realizzata da Nada Pivetta, ma soprattutto c’è il calcio. A Wolfgang e Loris piace che ci sia una commistione tra i giocatori che imparano qualcosa sull’arte senza per forza essere artisti, e i tifosi, magari artisti, che imparano qualcosa sul calcio. Questa unione trova la sua summa nei bollettini che mensilmente il Velasca realizza sullo stile dei matchday programme inglesi.

 

Una delle ultime cose di cui parliamo prima di dirigerci verso il campo è la loro afferenza o meno a quel mondo idealtipico che viene spesso raccolto sotto lo slogan di “Against Modern Football”, e anche qui l’ossimoro di cui sopra si apre in tutta la sua forza. Wolfgang e Loris mi spiegano che molti club gli scrivono per complimentarsi per la loro attitudine, la loro opera totale li ha fatti diventare involontariamente paladini del calcio anti-moderno, qualcosa che il Velasca non è: almeno non del tutto. Come può essere anti-moderno un club che fa dell’attenzione ai dettagli, dalla comunicazione innovativa simile a quella dei grandi club, del dialogo costante con i brand, la sua forza? Ma anche qui, il piccolo teatro dell’assurdo chiamato Velasca si mostra per quello che è.

A Wolfgang e Loris, i fondatori, piace che ci sia una commistione tra i giocatori che imparano qualcosa sull’arte senza per forza essere artisti, e i tifosi, magari artisti, che imparano qualcosa sul calcio

Arrivati al campo si nota subito uno striscione affisso dai tifosi, campeggia in rosso la scritta “No al calcio moderno”. C’è aria di festa, è la seconda gara di un torneo primaverile che serve soprattutto per far integrare i nuovi innesti e, un paio alla volta, arrivano mister e calciatori. Qualcuno ha dimenticato i calzettoni e impreca; Wolfgang mi guarda e sorride: «Questo mi piace, significa che hanno capito lo spirito con cui vogliamo che si arrivi al campo». Marco De Girolamo, che fa il direttore sportivo del club, mi spiega quanto possa essere complesso gestire 30 teste con esigenze e richieste diverse: «Un po’ li abbiamo viziati, ora qualcuno comincia a sentirsi una star. Sai, sei in un club con un sacco di cose che le altre squadre non hanno, io devo essere attento a tutto e sempre pronto a mediare tra calciatori, mister e società. Ma sono sempre stato un uomo di campo, mi piace quello che faccio».

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Negli spogliatoi, mister Petroselli dopo le indicazioni principali lascia che siano portiere e capitano a decidere le marcature e posizionamenti, sono loro che caricano i compagni nella stanza in cui tutti stanno fianco a fianco, stretti in uno spazio ridotto. Mentre la squadra si riscalda, scambio due chiacchiere con il mister che sta a guardare i ragazzi, poi li schiera con un poco canonico 3-4-1-2: mancano i due centrali titolari e l’allenatore vuole essere sicuro di non subire troppo. Con una birra fredda in mano mi avvio verso gli spalti in cui sono sedute una ventina di persone. C’è il gruppo di tifosi con striscioni e fumogeni al seguito, qualche fidanzata, e c’è anche Patrizia Novello, l’artista che ha realizzato il numeratore usato dal Velasca per i cambi. Non è una partita spettacolare quella contro il Segrate, ma l’atmosfera degli spalti restituisce una primordialità del gioco che alle volte sembra essersi persa. L’aria calda e profumata di inizio aprile affatica la testa e le gambe dei giocatori in campo, e per 70 minuti lo zero a zero sarebbe anche il risultato più giusto. Poi il Segrate passa in vantaggio e il Velasca è incapace di recuperare. Mi fermo a parlare con Petroselli per capire quale sia la sua idea di calcio. Ha appena concluso un clinic con Pioli e ama il calcio di Sacchi, gli piace imporre il suo gioco ed è saggio quando dice che alla fine quello «è un torneo fatto apposta per testare i ragazzi. In un anno abbiamo cambiato approccio e gestione. Pretendo serietà negli allenamenti e non sono qui per fare l’amico dei calciatori, faccio l’allenatore». Mi saluta con gli occhi che tradiscono la dolcezza di un padre che allena il proprio figlio.

 

Mentre usciamo dal Centro Sportivo dell’U.S. Triestina mi accorgo di aver giocato lì nemmeno molte settimane prima. Mi manca giocare nel fine settimana, mi manca il calcio con un minimo di competizione. Il viaggio di ritorno a casa è un momento utile, a Wolfgang e a me, per continuare a parlare del progetto Velasca, di arte e di performance. Perché è quello che ho capito di questo progetto, in fondo: che è una performance che nasce e vive ogni fine settimana, ma anche in ogni allenamento e in ogni atto in cui si cerca di comunicare qualcosa. Mi torna in mente il momento in cui Wolfgang ha detto che «se Cristiano Ronaldo è il Leonardo da Vinci dei tempi moderni, il nostro Matteo Cammarata o Colnaghi è sempre un artista, ma con un diverso talento». È rispetto a tutto questo che il Velasca è una specie di compagnia teatrale: ci sono gli attori, c’è il talento, ma soprattutto c’è la passione, e di settimana in settimana si prova a mettere in scena uno spettacolo nuovo, in cui diversi registri si fondono, girando intorno a questa forma d’arte chiamata calcio.

 

Dal numero 16 di Undici