Granata è diverso

Destini avversi, rabbia e nostalgia, l’angoscia per gli altri: essere del Torino non è facile. Ed è questo a rendere il tifo per i granata così speciale.

Di mio posso dire che è tutta colpa di mio nonno. Tutto è iniziato da lui, dalle domeniche in cui i miei mi parcheggiavano a casa dei nonni e io me ne stavo lì, a disegnare, a mangiare gelatine e bere succhi Zuegg alla pera, quelli nelle bottigliette. Mio nonno se ne stava seduto sulla sua poltrona in salotto e tremava, tremava sempre. Era il Parkinson a scuoterlo in quel modo e io, che avevo forse cinque anni, non capivo bene cosa fosse e per me era quasi normale che lui tremasse così, che tremasse sempre, forse pensavo addirittura che tutti i nonni tremassero a quel modo. Era il perfetto compagno di giochi perché si faceva fare tutto. Come quella volta che l’avevo travestito da Michelangelo delle Tartarughe Ninja facendogli indossare come fascia sul volto un pezzo di carta igienica colorata e poi l’avevo mandato da mia nonna a dire Cowabunga anche se proprio non riusciva a dirlo, s’incartava sempre. Si faceva fare tutto però poi c’era un momento in cui io mi dovevo sedere accanto a lui, in silenzio, che accendeva la radio vicino al televisore e se ne stava ad ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto.Domenica dopo domenica ho iniziato a imitarlo, ad ascoltare anche io, a seguire le partite, disegnavo sempre meno e tifavo insieme a lui, che smetteva di tremare solo quando dall’altra parte della radio qualcuno del Toro segnava e io ero contento perché avevo capito che se smetteva di tremare stava meglio almeno per un po’. Il Toro riusciva a farlo stare bene e così io non vedevo l’ora che il Toro segnasse, aspettavo la domenica sperando che vincesse, e ho iniziato a pensare che il Toro fosse una di quelle cose che potesse fare stare bene anche me.

Ecco, appunto. L’ho scoperto in fretta, praticamente da subito, che stare bene con il Toro è uno dei più grandi controsensi dell’era moderna. Dopo mio nonno ho iniziato a consumare le videocassette della Logos con la storia di quella che a quel punto era la mia squadra; me ne stavo le ore con la bocca spalancata davanti al televisore e ho imparato a memoria l’ingresso in campo di Mazzola mano nella mano con il figlio, le finte di Meroni, le esultanze di Pulici e un uomo col colbacco che mi faceva simpatia. Ho imparato questo e tanto altro ma il primo ricordo nitidissimo che ho è la sedia di Mondonico, quel gesto di rabbia, il destino bastardo che ancora ci si presenta davanti sotto forma di un palo e una traversa. La Coppa Uefa sfumata senza aver mai perso nemmeno una partita. E poi incazzato nero, a sette anni, per Gigi Lentini che passa al Milan e troppo piccolo per pensare a tutti quei soldi e a Berlusconi, per scendere in piazza a bruciare macchine e portoni. Vent’anni senza vincere nemmeno un cazzo di derby, loro che vincono sempre, tanta Serie B, troppa Serie B, gubbiotorinounoazero (Gubbio-Torino 1-0). Le retrocessioni, nemmeno un trofeo vinto da quando tifo se non una Coppa Italia contro la Roma ma avevo 7 anni e io quella partita nemmeno l’ho vista e ancora adesso non riesco a ricordare il perché. La promozione del 2005 e il fallimento, due mesi dopo, di Cimminelli e Romero, che poi solo noi potevamo accettare come presidente l’uomo che aveva investito Gigi Meroni, uccidendolo. Solo noi.

Solo noi potevamo accettare come presidente l’uomo che aveva investito Gigi Meroni, uccidendolo. Solo noi.D’altronde solo noi è uno dei nostri mantra. Al positivo e solo noi al negativo, soprattutto al negativo, perché come pochi altri tifosi noi granata possediamo questa innata capacità di piangerci addosso. Tanto che a volte facciamo tenerezza, ma anche rabbia tantissima rabbia. Colpa della nostalgia, sicuramente, delle tristezze assortite e delle sconfitte immeritate e delle tragedie.  Vivere in una città che ospita anche un’altra squadra, senza colori, che però vince e convince. E quindi perché tifare Toro? Cosa vuol dire davvero tifare Toro?

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Ricordo un pomeriggio di parecchi anni fa. Roma. Io e un paio di amici decidiamo di andare a vedere Frosinone-Torino, campionato di Serie B, uno dei tanti. Ci prepariamo, beviamo, montiamo in macchina e partiamo. Non abbiamo il biglietto. Lo troveremo, ci diciamo. Felici, leggermente sbronzi, io guido e non mi accorgo che la benzina inevitabilmente finisce. La macchina borbotta, borbotta e poi si ferma. Siamo ancora lontani, ridiamo, i miei amici mi insultano, Sei un coglione, potevate farci caso anche voi, provo a rimproverarli ma rido. Decidiamo comunque di continuare, di arrivarci e così iniziamo a camminare, poi a correre. In fondo lo stadio non sembra così lontano, lo vediamo, e invece è una camminata infinita. Forse è colpa della birra. Arriviamo che la partita sta per iniziare ma noi non abbiamo i biglietti e le biglietterie son chiuse, la Maratona itinerante sta già cantando ed è stracolma. Come sempre. Proviamo a entrare in ogni modo ma sembra inutile, sentiamo il fischio di inizio. Bestemmiamo, beviamo ancora, poi ci avviciniamo a uno dei cancelli e da uno spiffero riusciamo a vedere a turno una minuscola porzione di campo. Il vecchio stadio di Frosinone era una specie di colabrodo ma non avremmo retto più di tanto a quello strazio. Stavamo per andare via ma, dopo una ventina di minuti dal calcio d’inizio, qualcuno scende dagli spalti che ospitavano la Maratona, tranquillo, e come se nulla fosse ci apre il cancello dietro il quale eravamo nascosti. Un semplice chiavistello da spostare. Lo ringraziamo, ci abbraccia, saliamo insieme a lui e iniziamo a cantare, saltare e sudare da fare schifo. La partita finisce 2 a 2 ma quella è stata una delle trasferte più belle che abbia mai fatto e, soprattutto, è una storia che, anche se può sembrare inventata, contiene tutti gli elementi per cui si può forse dare una risposta alla domanda a cui mi sembra così difficile dare una risposta.

La capacità di oscillare costantemente tra eccitazione e delusione. Una lunga camminata. Un cancello. E la Maratona. Sul primo aspetto c’è forse poco da dire. La storia del Toro è costellata da sprazzi e momenti di gioia infinita che si accompagnano a delusioni e tragedie, che potrei elencare ma sarebbe didascalico e ripetitivo, ci sono già migliaia di articoli e libri a farlo. Tifare Toro a Torino, poi, che anche quando le cose vanno relativamente bene ci sono quegli altri che festeggiano più di noi, rimpolpando quell’odio che è continuo, insanabile, che ci fa litigare ogni anno, ogni mese, ogni giorno, se in città siamo più noi o loro. Noi noi, siamo più noi. Il fatto è che, nonostante tutto, la cosa più importante è che noi non ci stanchiamo. Oscilliamo tra gioie e dolori ma ci siamo sempre, non abbandoniamo mai quella maglia, andiamo comunque fieri del nostro cuore granata e non ci importa se gli altri vincono di più. Perché noi siamo il Toro e loro no. Questo ci basta.

E trattenere il fiato quando viene scandita la formula il.nostro.capitano. Valentino.Mazzola.La lunga camminata è quella di ogni 4 maggio. Con il sole, il cielo grigio o con la pioggia noi siamo lì: una fiumana di gente vestita di granata, sciarpe al collo e bandiere, che parte dal basso per farsi tutta la salita di Superga, una salita continua, infinita. Una processione interminabile e gioiosa, nonostante tutto, per rendere omaggio agli Invicibili. E poi quel silenzio, assordante, che anticipa ogni volta la lettura dei nomi dei calciatori di quella squadra, le Leggende che erano su quel dannato FIAT212 quel pomeriggio di nebbia di ritorno da Lisbona. E trattenere il fiato quando viene scandita la formula il.nostro.capitano.Valentino.Mazzola. Perché quella camminata e quel silenzio sono le cose che per me, ateo, più mi fanno avvicinare al concetto di religione.

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Il cancello presuppone che dietro ci sia una casa e a noi quella casa una ventina d’anni fa ce l’hanno buttata giù, l’hanno fatta diventare un rudere. Il Filadelfia era il campo in cui nessuno riusciva a battere il Grande Torino, in cui si sono allenati e sono cresciuti gente come Ferrini, Meroni, Pulici, Sala, Lentini e una quantità infinita di altri giocatori che lì, in quel rettangolo, loro sì, hanno capito davvero cosa voglia dire indossare quella maglia. Sudore, fatica, orgoglio, tremendismo. È lì che è nato il quarto d’ora granata, quei quindici minuti che iniziavano quando Valentino Mazzola si rimboccava le maniche per chiamare la carica e tutta la squadra aveva il sangue agli occhi, una furia strana, ed erano capaci di ribaltare le partite, segnare in quei minuti una quantità di gol impressionante. È lì che ci siamo ritrovati, da quando esiste e quando l’hanno buttato giù, anche quando l’erba era alta un metro e i monconi delle tribune cadevano giù a pezzi. È lì che siamo cresciuti, da mio nonno a me e ai più giovani che ora lo rivedono in piedi, forse un po’ troppo moderno ma comunque in piedi, dietro quel cancello granata con il Toro rampante in rilievo.

E poi la Maratona. Ricordo la prima volta in cui mio padre mi ha portato allo stadio, a dodici anni, campionato di Serie B Toro-Lecce 4-2. Avevo insistito tantissimo e lui aveva ceduto dopo la promessa che avrei ricambiato il favore accompagnandolo la settimana dopo a vedere il Cuneo, squadra per cui tifava insieme alla – ebbene sì, nessuno è perfetto – Juventus. Ricordo migliaia di rotoli di carta igienica lanciati verso il campo a mo’ di stelle filanti all’ingresso delle squadre, la fatica a imparare i cori, la prima volta che sentivo l’odore dell’erba e il telone bianco del Delle Alpi che ci proteggeva mentre urlavamo, cantavamo, mentre io sorridevo tantissimo e non me ne fregava nulla della partita. La fascinazione istantanea per gli ultras, già allora. Da quel giorno, a parte gli otto anni in cui ho vissuto a Roma e mi era difficile salire ogni due settimane, la Maratona è uno dei luoghi che ho vissuto più a fondo. Il secondo anello al Delle Alpi e il primo al Comunale. La Maratona è una specie di casa, di luogo perfetto, la Maratona non è una curva come le altre. È l’uomo in più, l’unica ad avere il numero 12 nella distinta ufficiale, è una famiglia bellissima che perde la voce, che esulta e gioisce e si incazza. Non c’è, per me, un posto migliore della Maratona per capire cosa voglia dire davvero tifare Toro. Non esiste un posto a cui sono legato più di questo tanto che, alla fine, ho chiamato pure il mio cane Maratona, per averla forse un po’ sempre accanto.

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Potrei dire che siamo diversi dagli altri ma è una di quelle cose che dicono tutti quanti i tifosi, per cui forse è fin troppo banale. Anche se è vero.Maratona, Filadelfia, Superga. Ma anche Corso Re Umberto, il punto in cui è stato investito Meroni. Questi sono solo alcuni dei luoghi di una Torino che trasuda Toro, che per un torinese e quindi un torinista sono tappe fondamentali, da vivere e visitare, come veri e propri luoghi di culto. Perché il calcio è una cosa seria, è una religione, e noi, questi luoghi, quasi ogni giorno li veneriamo. Non credo ci siano altri tifosi di altre squadre che si riconoscono così bene in posti precisi della propria città con così tanta intensità come li viviamo noi. Un’unicità confermata, quasi paradossalmente, dai tifosi delle altre squadre, da una fila infinita di loro sciarpe, italiane e non, che stanno immobili sotto la lapide di Superga, legate a un palo, ammassate una sull’altra. Tifosi che sono saliti fin lassù, magari prima delle partite, a rendere omaggio a quella squadra imbattibile, a quella squadra leggendaria, a quel luogo così simbolico. E a noi.

Non è facile spiegare cosa voglia dire tifare Toro, è una domanda a cui non credo di saper rispondere. Perché forse, in fondo, per me è una cosa troppo naturale. Potrei dire che sono nato biondo, con gli occhi azzurri e tifoso del Toro; potrei dire che non credo in Dio ma nel Toro, nel Toro sì che ci credo. Che è una fede, che siamo diversi dagli altri ma è una di quelle cose che dicono tutti quanti i tifosi, per cui forse è fin troppo banale. Anche se è vero. Noi siamo diversi dagli altri. Anche se tifare Toro non è facile. Non credo di essere l’unico che a volte si è chiesto se non sarebbe meglio vincere un po’ di più, quanto sarebbe più bello tifare per una squadra che ti rende sempre felice, ma tifare Toro è anche questo, è soprattutto questo, e col tempo sono riuscito a capire perché mio nonno smetteva di tremare quando il Toro segnava.

 

Fotografie di Alan Chies
Dal numero 19 di Undici