L’ultimo Rivaldo

A 43 anni ha accettato finalmente l'arrivo della vecchiaia. Ma il suo ritiro è cominciato molti anni fa, dopo un Mondiale vinto. Storia di un campione mai davvero felice

«Mi ritiro, smetto con il calcio». La voce di Rivaldo, docile e calma, risuona nella sala stampa dello stadio Giovanni Paolo II, a Mogi, Brasile. È la seconda volta che lo dice a distanza di pochi mesi, ma stavolta non c’è ragione per non credergli. Con le occhiaie scure che sembrano giganteschi crateri lunari, Rivaldo ha scacciato anche l’ultimo incubo e finalmente ha accettato l’arrivo della vecchiaia. A 43 anni la smette con il calcio come si farebbe con un vizio pericoloso, la fa finita di nuovo, dopo aver tentato invano di combattere con quel mostro che è l’avanzare dei giorni, degli anni, dopo aver provato a lottare con gli acciacchi e a inventare ancora un po’ di fantasia, qualche volta riuscendoci. Nessuno può chiedere tanto alla propria identità. Nemmeno Rivaldo, il campione rispettato ma idolatrato mai, l’uomo venuto dalla povertà che ha vinto il Pallone d’Oro e il Mondiale, le coppe e i campionati, che ha sopportato i fischi, le panchine, le indifferenze della gente con la stessa meccanicità di un leone che osservi la natura. «Mi ritiro», ha detto Rivaldo. Tutto in lui è malinconia. Le gambe storte, il corpo scarno, persino la pelle del viso sembrava già sgualcita a vent’anni, come se gli accidenti del fisico avessero anticipato gli sgarbi del tempo. Soltanto certe movenze apparivano meno faticose e pesanti. Sabato giocherà la sua ultima partita con il Mogi Mirim, la squadra di cui è diventato presidente, la stessa in cui gioca il figlio. Probabilmente l’unica squadra ad averlo reso un uomo felice.

Il vero ritiro

Anche se questa storia del ritiro a 43 anni sembra più una trovata patetica, dice molto dell’indole malinconica di Rivaldo. È già capitato di assistere a cose del genere: campioni ingrigiti dal tempo e dagli anni, un po’ imbolsiti, con le facce solcate di rughe e vecchi ricordi, si riuniscono per una partita di beneficenza, per un caloroso benvenuto a un nuovo membro nel club degli ex, per un addio (ed è questo il caso), e tutte le volte ci danno un pugno allo stomaco perché ci costringono a ricordare com’erano, com’erano belle le loro giocate, e forse anche com’eravamo noi che li ammiravamo qualche anno prima. Queste partite, anche se postume, sono un’agonia per gli occhi. Ma il vero ritiro di Rivaldo, io credo, è ben più lontano nel tempo. Antonio Cabrini mi ha confessato che la vittoria di un Mondiale può essere terribilmente controproducente per il calcio che va veloce, che non ti dà il tempo di goderti la gioia. Appoggiato al tavolino di un bar, con gli occhi scuri e la voce decisa, ha formulato l’assioma: «Nei sei mesi dopo quel successo un giocatore lo devi lasciare perdere, il calo è tremendo».

Setembre 2000: Rivaldo + Kluivert + Gerard + Cocu (Phil Cole/ALLSPORT)
Setembre 2000: Rivaldo + Kluivert + Gerard + Cocu (Phil Cole/ALLSPORT)

Per Rivaldo è stato anche peggio di così. Era arrivato al Milan a luglio del 2002, subito dopo aver vinto il Mondiale in Giappone. Aveva lasciato il Barcellona a parametro zero, si dice perché Van Gaal non lo volesse più. Ma come: il giocatore più forte del mondo a parametro zero, possibile? Quando lo chiedono ad Adriano Galliani, lui risponde senza scomporsi: «I dirigenti del Barca hanno fatto i loro calcoli, così come noi abbiamo fatto i nostri. Il nuovo mercato ha cambiato gli scenari, non è più come prima. Sarebbe andato via tra un anno, nel 2003. E può accadere, di fronte a contratto oneroso come quello, che un presidente decida di risparmiare un altro anno di ingaggio». Gli abbonamenti rossoneri sentono l’influenza fascinosa del brasiliano, numeri da capogiro, quell’estate, e a molti sembra l’inizio di una nuova favola. In un solo giorno vengono venduti più di mille abbonamenti, il sito ufficiale raddoppia gli accessi, gli abbonamenti a Milan Channel quadruplicano. «Ho trent’anni» dice Rivaldo alla prima conferenza stampa, «ho appena vinto il titolo mondiale, ma le mie motivazioni sono molto grandi. Cambiare squadra è come ricominciare tutto da zero».

Sceglie l’undici; Tomasson glielo cede storcendo il naso e perdendo l’aplomb di uomo del nord. L’undici, perché l’idea di poter rinunciare al 10 non ha mai sfiorato i pensieri del bonario Rui Costa. I primi tempi Rivaldo non parla. Chiuso in un silenzio enigmatico, nelle grandi sale di Milanello resta con le mani dietro la schiena a osservare i compagni sfidarsi a biliardo, in un angolo, quasi a non voler entrare davvero in quel mondo. Però, con eleganza e umiltà, in una delle prime interviste dichiara sottovoce: «Mi metto alla prova: solo se giocherò bene in Italia portò dire di essere un grande campione. Non mi sento il migliore, il Milan è pieno di stelle: devo essere alla loro altezza e soddisfare i tifosi». I giorni passano e l’affinità tra Ancelotti e Rivaldo diventa, a un certo punto, un mistero gaudioso. Da una parte Carlo continua a mostrare l’animo pacifico e calmo di allenatore comprensivo, dall’altra Rivaldo dà sfoggio di una virtù potente: la pazienza. A Modena, alla prima partita in Serie A, entra che mancano dieci minuti. Il Milan vince 3 a 0 e Rivaldo sembra proprio l’illusione che è. Con un colpo di tacco accarezza un rozzo e spelacchiato cross da sinistra trasformandolo in gol. Gol che, nonostante il fuorigioco, molti milanisti ricordano ancora come l’emblema di ciò che il brasiliano aveva portato con sé. Celebre il commento di Benedetto Ferrara su Repubblica: «Non vale per il tabellino (fuorigioco) ma vale come trailer di un futuro possibile».

Alcune tra le sue più belle giocate.

Non ci fu mai la possibilità di vedere il film per intero. Dov’era finito il campione capace di segnare tre gol al Valencia, di battere le squadre da solo, di compiere prodezze ineguagliabili? Solo spezzoni, panchine, altri trailer, la storia di Rivaldo al Milan diventò come uno di quei noir in cui tutto è pioggia, grigiore, solitudine. A marzo, nella trasferta di Reggio Calabria, il brasiliano giocò una delle partite più brutte di sempre. Nessun giornale arrivò a dargli la sufficienza, «evanescente», «assente», «ha sbagliato perfino i tocchi per lui naturali», «4,5», addirittura «disastroso». Qualche tempo prima, a gennaio, dovette sopportare la scelta di Rose, la moglie, di tornare in Brasile con i figli Thamyris (il piccolo) e Rivaldinho. A giugno non giocò la finale di Champions contro la Juventus, ad agosto fece meno di quindici minuti in Supercoppa Europea contro il Porto, e quel che è peggio è che ad Ancona, alla prima di campionato, non disputò neppure un minuto. «Ancelotti mi umilia. L’ho capito ad Ancona, dove sono rimasto in panchina per tutta la partita. Se non gioco in queste occasioni, ho pensato, non giocherò mai le grandi sfide». A dicembre, 5.362 persone lo votarono bidone dell’anno. Al secondo posto ci finì Gheddafi Jr., una manciata di minuti in Serie A prezzolati. Quando Rivaldo lasciò il Milan, Galliani disse: «Porteremo in prima squadra un ragazzo degli Allievi. Si chiama Ignazio Abate e ha diciassette anni. Quando lo vedo giocare mi entusiasmo».

Il grande privilegio

Più tardi, scivolato via dall’incubo di Milano, la carriera di Rivaldo è stata un continuo inseguire qualcosa. All’Olympiakos vince tre campionati, premi, riconoscimenti, altro onore, ma «le grandi sfide» che cerca non si trovavano lì. Prova con l’Aek di Atene, illudendosi di nuovo. Allora vola in Uzbekistan, al Bunyodkor, quel tipo di offerta a cui proprio non puoi dire no, ma anche qui trova soltanto la conferma delle sue angosce: il calcio che sta cercando è da un’altra parte. Dietro le spalle, forse, agli albori della giovinezza. Allora torna in patria, in Brasile, e prova a chiudere il cerchio, ma il richiamo di qualche altra sfida è più forte e fugge di nuovo, fino in Angola, per giocare nel Kabuscorp. «Tutti mi chiedono: cosa ci fai qui? Perché ci sei venuto?». A quarant’anni, Rivaldo confessa che è stato Dio a portarcelo per realizzare uno scopo più grande, più importante, migliore. Compra un terreno, ci fa costruire una chiesa evangelica, cerca un’altra ragione oltre il calcio che sta per finire. Lo sport è una vita limitata. «Non avremo nulla dopo la morte» dice in un’intervista, «dobbiamo aiutare Dio per avere la vita eterna. Il corpo è inutile».

Cosa può fare un Pallone d’Oro in Angola

È strano sentirlo dire da uno sportivo. Cercando un rimedio a questo senso di vuoto, un’altra volta ha detto: «Un uomo senza famiglia non ha niente. Ho bisogno di quella per godermi la vita quando le cose vanno bene. E quando non vanno, sono loro a darmi sostegno». C’è un senso di grande fragilità nell’esistenza di Rivaldo, che va ben oltre i contratti milionari, i riconoscimenti, le ricerche forsennate di un palcoscenico da cui mostrare la sua bravura. Da piccolo non aveva i soldi per l’autobus, e allora si faceva anche quindici chilometri a piedi per andare agli allenamenti. Mangiava poco, e forza di non farlo gli sono caduti tutti i denti di sotto. Sul cartellone della pubblicità ai mondiali di Corea e Giappone lo vedevi sorridere con denti bianchissimi, scintillanti, e mica lo capivi che erano finti. Non ha mai finito la scuola, di questo si è sempre vergognato. Quando gli hanno consegnato il Pallone d’Oro, nel 1999, ha voluto ricordare il padre che se n’era andato quando aveva sedici anni per colpa di un incidente d’auto. «E’ stato lui il mio primo maestro – ha detto -. Per strada, sulla spiaggia, lui era sempre con me. Mi ha aiutato tanto, e io gioco solo per lui».

E così, cullato da questa gratitudine paterna, nel 2010 Rivaldo è arrivato al Mogi Mirim per fare il presidente. Ci aveva giocato da ragazzo, «mi dicevano che non ero il migliore, nessuno credeva in me». Ma non dev’esserci stata vendetta, solo un buon affare. È lì che il destino gli ha concesso la più grande soddisfazione di uomo. A marzo di un anno fa, dopo aver smesso di girovagare per il mondo come un’anima in pena, affaticato dagli acciacchi, Rivaldo aveva dichiarato di voler smetterla con il calcio. Quindici mesi dopo è tornato sui suoi passi: «Riprendo a giocare». Perché ancora e perché a quell’età? Deve aver avvertito la possibilità di vivere un momento unico e completo a fianco del proprio figlio, Rivaldinho, che intanto è diventato grande, ha vent’anni, e adesso gioca proprio nel Mogi.

Il gol “famigliare”

Quando era nel Barcellona, Rivaldo se lo portava in campo agli allenamenti, e così faceva a Milano, prima che l’ex moglie lo portasse con sé in Brasile. Non c’è nulla di eccezionale nel loro rapporto, se non il legame che unisce un padre al figlio. Il grande privilegio di Rivaldo si compie un pomeriggio di luglio allo stadio Giovanni Paolo II. I due sono in campo, fianco a fianco, l’uno orgoglioso dell’altro. E quando segnano si abbracciano fieri dello stesso sangue. «Credo di essere entrato nella storia. Altri calciatori hanno giocato con i loro figli» ha detto Rivaldo, «ma siamo stati i primi a segnare in una partita ufficiale». Di padre in figlio, di generazione in generazione, quei gol sono l’ultima consacrazione che forse Rivaldo stava cercando, quella definitiva. Se i figli di Elsa Morante si accontentavano di voler salvare il mondo, racconti come questo tramandano una simbologia, e riescono a donarci un lessico famigliare fatto di pedate e di corse su un campo di calcio, di gesti, cose semplici, di papà e di figli felici. Nel nome del calcio.