Sono le 14:30, e suona la sveglia. Il trillo dell’iPhone squarcia, prima timidamente, poi con sempre più violenza, la gigantesca matassa di cotone che è andata crescendo nelle nostre teste durante la mattina. Prima di detonare sui letti di questa casa al mare atipica, così grande, così urbana, così accogliente che sembra abbracciarti appena varchi la soglia, abbiamo avuto un’accortezza, il primo e ultimo attimo di lucidità di una notte con le ceneri già spente. Alle 15:00 gioca la Viola. Apriamo gli occhi e qualcuno, inghiottito da qualche parte nell’enorme stomaco di questa casa, ha già messo su Teen Dream dei Beach House, o forse sono solo le nostre teste che ormai pensano di vivere in un mondo dolcissimo i cui unici suoni sono lo sfrigolio di cartine che bruciano e le tastiere rarefatte del dream pop. Un succo d’arancia amaro come cose che ancora non conosciamo, bermuda, occhiali da sole, una canna girata di corsa sulla porta di casa, e siamo fuori, sotto un sole troppo caldo per una primavera sul litorale toscano.
Arriviamo al bar giusto in tempo per vedere sfilare le formazioni sullo schermo. Boruc, De Silvestri, Gamberini, Kroldrup, Pasqual, Behrami, D’Agostino, Montolivo, Cerci, Vargas, Gilardino noi, Handanovic, Benatia, Zapata, Coda, Cuadrado, Isla, Pinzi, Asamoah, Pasquale, Badu, Di Natale gli altri. Abbiamo diciotto anni, e manca un mese all’esame di maturità. Non sappiamo, e non vogliamo sapere, cosa verrà dopo. Abbracciati ai clichés, sigillati in un sottovuoto di retorica, abbiamo imparato a pensare che il mondo finisca a luglio, distrutto da quattro semplici parole pronunciate dal commissario esterno di latino e greco: «Per me abbiamo finito». Abbiamo diciotto anni, e manca un mese alla fine della Fiorentina della nostra adolescenza. Anche in questo caso non sappiamo, e non vogliamo sapere, cosa verrà dopo. Privilegiati come pochi altri, ci siamo goduti il lusso di assistere agli anni viola migliori nei nostri migliori anni. Sopportati il fallimento, la C2 e il doppio spareggio col Perugia con l’incoscienza dei bambini, abbiamo scoperto la gioia calcistica in piena adolescenza, insieme a tutte le altre gioie.
Adesso davanti ai nostri occhi rimane una Fiorentina decadente, stanca e stancante, gonfia delle scorie del post-Prandelli, rifiuti non smaltibili anche per uno come Mihajlovic. A quattro giornate dalla fine sono ormai svanite le possibilità di agganciare il sesto posto e qualificarsi per l’Europa League, mentre l’Udinese è a un passo da quella che poi sarà la prima di due qualificazioni consecutive in Champions League. L’unica prospettiva ragionevole per la partita è una scampagnata dei bianconeri a Firenze, tre punti facili contro una squadra che non ha niente da chiedere. E noi siamo comunque lì, innamorati ciechi, sprofondati in sedie di plastica scomodissime, con le Converse strappate appoggiate su altre sedie di plastica, vuote, ché in questa sala saremo sì e no una decina, disperati eliofobici in fuga dalla spiaggia. All’ottavo minuto, quando ancora dobbiamo iniziare a capire cosa sta succedendo intorno a noi e sullo schermo, condannati al mutismo dall’emicrania e dal thc, Cerci supera in velocità Cuadrado e mette un cross nell’unica zona dell’area completamente vuota. Vargas, il giocatore più paradossale e controverso transitato da Firenze a nostra memoria, scatta lateralmente, si coordina in un modo così armonico che è come se fosse contemporaneamente ingegnere e macchinario e colpisce a rete. È gol. Se la partita finisse così sarebbe già abbastanza coerente con ciò che stiamo vivendo. Un gol di una bellezza assurda e senza senso, tre punti inutili e leggeri sul finire di una stagione apparentemente di transizione ma che il tempo ci farà imparare a considerare essenziale.
Fiorentina-Udinese, maggio 2011
Ma la partita continua. Passano dieci minuti e Montolivo, in perfetta continuità con l’atmosfera irreale che si respira sia al Franchi sia in questo bar versiliese, conclude una scorribanda sulla fascia sinistra con un doppio dribbling e mette nel mezzo. Sulla ribattuta del primo tiro di Behrami si avventa Gaetano D’Agostino, e siamo 2-0. L’esultanza di D’Agostino dura sette, otto secondi, ma è come se fossero un’eternità. Ha segnato un gol esteticamente mediocre, proprio lui, abituato a gol bellissimi, in una partita inutile di una stagione inutile e mediocre, sia per lui che per la Fiorentina. Un gol che raddoppia il vantaggio contro una squadra che ha bisogno di punti per continuare a sperare in un’incredibile qualificazione in Champions League. Un gol che raddoppia il vantaggio contro una squadra che è soprattutto la sua ex-squadra più importante, più recente, con la maglia della quale ha giocato il miglior calcio della sua carriera. D’Agostino apre le braccia e corre, estatico, travolto dall’emozione di un gol che se guardassimo solo l’esultanza potremmo pensare sia decisivo per un trofeo, o per una partita dal significato speciale. Il significato speciale, però, c’è solo per lui, e anche la direzione della corsa, non verso la curva più vicina, la Ferrovia, per abbracciare i tifosi, ma verso la desertica zona di confine tra la Maratona e il settore ospiti, rimarca quanto sia intima e personale la situazione. Una corsa che è l’equivalente del jogging il lunedì mattina seguente a un weekend alimentarmente, alcolicamente e tossicologicamente eccessivo: totale espulsione di tossine.
La miglior stagione di D’Agostino, 2008/2009 a Udine
Per D’Agostino le tossine si sono accumulate per quasi due anni, e se ne stanno andando nel momento più inatteso. Nell’estate del 2009 D’Agostino è l’obiettivo principale della Juventus, che ha bisogno di fare una campagna acquisti convincente, per dimostrare di poter competere concretamente per il titolo con l’Inter dopo un terzo e un secondo posto. Nell’estate del 2009 in Italia nessun investimento sembra essere più solido di quello su D’Agostino, che si è imposto come miglior regista del campionato dopo una stagione di livello altissimo, impreziosita da undici reti (per dare un’idea dell’eccezionalità, ne segnerà in tutto ventisette in Serie A in tutta la sua carriera). Le nove reti segnate nel girone di ritorno, però, sono una condanna paradossale, l’atroce sentenza sulla sua carriera: l’Udinese, ingolosita dall’occasione, alza la posta pattuita con la Juventus alla chiusura del mercato invernale chiedendo tre metà di cartellini di giovani bianconeri, portando la domanda a un totale di venticinque milioni. Anni dopo lo stesso D’Agostino dirà «Per la prima volta mi sentii un prodotto. Noi calciatori siamo un indotto per i club, i sentimenti e i desideri non contano». A causa della turbolenza della trattativa di cui è oggetto, viene lasciato a sorpresa a casa da Lippi, che decide di non portarlo in Sudafrica per la Confederations Cup, tagliandolo implicitamente dal gruppo dei Mondiali dell’anno seguente. A questo punto l’estate di D’Agostino sarebbe già abbastanza crudele, ma non è finita qui. Si fa avanti il Real Madrid, intenzionato a costruire su di lui il suo centrocampo, ma di nuovo l’Udinese tira troppo sul prezzo, convinta che un altro anno a Udine sarebbe stato soltanto un’occasione per farlo lievitare ancora di più in vista dell’estate successiva. Il Real Madrid acquista al suo posto Xabi Alonso, che negli anni seguenti otterrà la definitiva consacrazione come uno dei più forti centrocampisti della sua generazione.
D’Agostino, inevitabilmente condizionato a livello psicologico, delude profondamente nella stagione 2009-2010, perde i Mondiali, e, a neanche dodici mesi di distanza dall’aver sfiorato il Bernabeu, viene venduto a una Fiorentina a fine ciclo e in piena ricostruzione, che acquista metà del suo cartellino per 4,5 milioni di euro. A ogni età corrisponde un idealtipo di giocatore di cui innamorarsi: a nove il campione acclamato che sembra un supereroe, a tredici, quando inizi a capire il Gioco, un centrocampista solido ma bello, esaltante nella sua capacità di fare entrambe le fasi, a trenta, età della Ragione, un difensore centrale impeccabile in impostazione. I diciotto anni sono l’età ideale per innamorarsi di un ex-trequartista riciclato regista di centrocampo, con un tocco delizioso e effimero, gli occhi tristi e una precisione nel calciare le punizioni al limite dell’inquietante. E noi, puntualmente, ci innamoriamo. Il fallimento di D’Agostino in riva all’Arno è per noi uno degli aspetti più dolorosi di una stagione malinconica che impariamo ben presto ad affrontare con lo stesso distacco emotivo che riserviamo alle cose serie, al Futuro, a ciò che sarà. Il tentativo fallito di D’Agostino di rilanciarsi e tornare grande, però, è lo specchio della nostra inquietudine pressurizzata. Mentre lui esulta a braccia aperte in quel pomeriggio assurdo, noi non lo vediamo neanche. Appena la palla entra in porta le sedie di plastica volano via e ci troviamo soli a urlare quasi nel silenzio, ché di dieci che siamo un paio sono, inspiegabilmente, pure tifosi dell’Udinese. Quando al 53’ un brutto tiro dalla distanza di D’Agostino trova una deviazione vincente e si trasforma nel momentaneo 3-1 per la Fiorentina, la reazione è ancora più esagerata. Per noi, è la campana che decreta l’inizio dell’Età dell’Oro. Un gol in mischia e uno deviato fortunosamente bastano per farci tornare a sedere colmi di speranza. Chissà come sarà l’anno prossimo, chissà dove saremo, chissà come sarà l’Università, chissà come sarà la vita, chissà come sarà la Fiorentina. L’unica cosa che sappiamo, è che D’Agostino è tornato, e che con lui diventeremo grandi.
Il 24 giugno, in pieni esami di maturità, vengono aperte le buste per la risoluzione della comproprietà. La Fiorentina ha offerto solo 50 mila euro, e D’Agostino torna così all’Udinese, che se lo aggiudica per 110 mila euro. Ancora non siamo maturi, ma quel giorno impariamo per la prima volta com’è il tonfo di una speranza che cade al suolo. La tristezza che mi ha assalito pochi giorni fa, quando ho scoperto che D’Agostino è retrocesso in Serie D con la sua Lupa Roma, è la stessa tristezza che mi assale quando penso ai miei diciotto anni.